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Pacific Rim è il film di robottoni che manco i giapponesi

Una delle tante manie che caratterizzano il mio comportamento ossessivo-compulsivo, assieme alla irrefrenabile pulsione a mostrare a chiunque, e spesso fuori contesto, gli oggetti delle mie passioni, è quella di rivedere, rileggere, rigiocare, riascoltare periodicamente le mie opere preferite.

Da questo punto di vista, YouTube è stato per me l’affrancamento da ore spese a costruirmi playlist video o collezioni di save-point e, se aveste accesso alla mia lista dei più visionati, al momento trovereste questo:

Serie: Bakemonogatari/Nisemonogatari. Musica “Into the Labyrinth” - Kraddy.

Che non c’entra assolutamente niente con il tema dell’articolo ma, se ve ne stupite, probabilmente eravate distratti quando ho scritto “irrefrenabile pulsione a mostrare a chiunque e spesso fuori contesto gli oggetti delle mie passioni”.

Dopo di che, nella top ten dei frammenti video che guardo e riguardo ossessivamente, decisamente più a tema trovereste questo:

Ma che gli devi dire…

E potremmo anche chiudere qui l’articolo.

Su questa “sequenza di avviamento” ci si potrebbe scrivere una intera tesi dal titolo “Autorialità e dichiarazione d’intenti”. Prima di questa sequenza c’è tutto il prologo ma è un dato di fatto che lo si poteva tranquillamente saltare e iniziare il film Pacific Rim da qui: ben pochi spettatori non avrebbero afferrato quello che Guillermo del Toro si proponeva di fare.

Abbiamo i giubbotti da aviatore su due manzi americanissimi che richiamano immediatamente alla mente Top Gun; le armature da combattimento lise e graffiate con spallacci decorati in rilievo che raccoglieranno certamente il plauso dei “miniaturisti” di Warhammer 40.000; gli innesti meccanici “viventi” e il casco “anti-g” a liquido che rievocano la tecnologia ibrida della fantascienza “era Evangelion”, a cui si oppongono in meraviglioso contrasto gli assistenti alla vestizione con mondani trapani avvitatori e i corridoi e le porte stagne arrugginite e ispirate da tutta la solida “fantascienza pesante”, che da Spazio 1999 è arrivata ad Alien e oltre; il “ponte di comando” con gli inutilissimi monitor olografici guardati con tranquilla indifferenza dal “tecnico” e attenta severità dal “comandante”.

Poi, “il drop”. Vogliamo parlare del drop? Il bignami dei chilometrici corridoi e tubi nagaiani che portavano la testa-abitacolo del robottone al corpo combattente: metafora sublime del salto nel vuoto che il guerriero compie quando decide di abbandonare ogni certezza per il campo di battaglia.

Questa me la gioco ad una cena, sicuro!

Infine, l’accensione di Gipsy Danger e della sua turbina, che richiama contemporaneamente i caccia di Top Gun già citati e tutte le turbine degli anime che, andando lentamente ed inesorabilmente a regime, ci preparavano a godere della macchina da guerra in tutta la sua potenza.

E qui, il tocco di classe: mentre il gigantesco Jaeger, quasi al culmine dell’attivazione, attraversa portali corazzati trasportato da titanici montacarichi cingolati e viene esposto alla tempesta che infuria, per un istante, cogliamo sulla corazza la sexy “zingara” disegnata con lo stesso stile delle tante donnine discinte e benauguranti che decoravano le carlinghe dei bombardieri della Seconda Guerra Mondiale.

In poco più di due minuti e trenta secondi, a ritmo del tema Gipsy Danger, composto da Ramin Djawadi e variazione del tema principale del film che affianca la chitarra di Tom Morello, un ensemble orchestrale e una sirena navale (genio), Guillermo Del Toro ci serve un frullato di feticismi nerdici senza farlo sembrare neanche per un secondo un marchettone.

In due minuti e mezzo, Guillermo Del Toro assume saldamente il controllo della sua creatura e non lo molla. La visione autoriale è chiara e non si esprime sicuramente nel soggetto che, lo si capisce fin da subito, è un clone sfacciato del già citato Top Gun. Abbiamo l’asso Genio e Sregolatezza a cui nessuno, neanche lui stesso, vorrebbe dare la possibilità di riprendersi dalla “caduta”, se non il severo “Sergente”, che realizza che solo chi osa il tutto per tutto può vincere. Abbiamo l’asso Controllo e Arroganza che ritiene di bastare e avanzare a risolvere la situazione. Abbiamo la Donna Decisa che però si rivela fragile e riesce a curare la ferita del protagonista nella stessa misura in cui lui riesce a curare la sua.

E poi abbiamo le macchine da guerra: l’unica cosa che interessa al regista. L’unica cosa a cui dedica tutta la sua capacità per far sì che si stampino nella memoria dello spettatore con tutto il loro peso: un peso fisico che viene sottolineato in ogni scena, nella lentezza inesorabile dei loro movimenti, nelle ampie mimiche dei piloti. Una massa che distorce il paesaggio con la sua attrazione gravitazionale, attirando in ogni scena, in ogni fotogramma, un termine di paragone: il peschereccio nella tempesta, i due cercatori sulla spiaggia ghiacciata di Anchorage dove Gipsy Danger cade come un titano ferito a morte; il tutto che culmina in questo combattimento.

La delicatezza.

La skyline di Hong-Kong ridotta a mero castello di carte, il suo suolo e i veicoli leggeri e pesanti martoriati e spazzati a lato dal mercantile-spada e il trucco di non contenere mai completamente Gipsy Danger in una inquadratura “regolare”.

Peso e Massa resi fisici e percepibili al di là dello schermo.

Ma Peso anche caratteriale: le critiche mosse agli attori di questo film sono tutte legittime. Tolto Idris Elba che, comunque, si impegna appena, tutti gli altri personaggi sono macchiette che puoi liquidare con una definizione. Caratteristi, nonostante alcuni di loro siano protagonisti, e non stupisce che persino il personaggio di Ron Perlman riesca a risultare credibile (beh, sicuramente più della linea comica costituita dai due supposti scienziati).

Critiche legittime, corrette e contemporaneamente sbagliatissime: i “personaggi” di Pacific Rim sono i robottoni, ciascuno caratterizzato fisicamente fin nei dettagli come un lottatore di wrestling: Gipsy Danger è “l’all rounder” che tiene in perfetto equilibrio forza e tecnica, passando dalle combinazioni di pugni al cannone al plasma; Striker Eureka è invece tecnica e rigore (missili a ricerca), laddove Cherno Alpha, col suo design “industriale” e il suo pugno a percussione idraulica (genio), è il “bruto” inarrestabile; Crimson Typhoon, invece, è ovviamente il “freak”.

E talmente evidente quanto siano invertiti i ruoli tra “piloti” e “macchine” che Guillermo Del Toro si può permettere persino questo:

Voglio uno spin-off solo su di loro e lo voglio SUBITO!

I coniugi Kaidanovsky, cloni lui di Zangief e lei di Ludmilla Drago, le loro armature da truppe di repressione da film di fantascienza steampunk distopica, sono puri accessori “etnici” del loro Jaeger ma in nessun modo superflui. indispensabili come il coprisedile “nocciolato” sui sedili dell’AlfaSud (quanto sono vecchio), inevitabili come la “cebolla” nel kebab arrotolato.

Compaiono pochi secondi, penso abbiano due battute in due, ma grazie alla “massa narrativa” che Cherno Alpha si porta dietro, noi spettatori possiamo farci un intero film in testa con loro protagonisti.

Ribaltando la metafora, quindi, il peso diventa presenza scenica ed è questo che permette a Pacific Rim di farsi perdonare la trama inesistente, la recitazione irrilevante e alcuni buchi di sceneggiatura grossi come una spada affetta-Kaiju che viene tirata fuori dopo un’ora di mostroni affrontati con i soli Pugni nelle Mani (e qualche mercantile raccolto per strada).

È il metallo che si comprime e urla sotto la sua stessa massa, resiste alla deformazione e, in una lenta ma inesorabile reazione elastica, prende la direzione dello scontro a permettere a Pacific Rim di essere più “Film di Robottoni” dei Transformers di Michael Bay. Del resto, come inquadrato correttamente da chi ne sa a pacchi, forse, a Michael Bay, ciò che interessava davvero era sfidare ed innovare le leggi della rappresentazione dinamica, piuttosto che fare “Film di Robottoni”. Oppure sballarsi

È, come ho già detto, l’intero “proscenio” che si piega (letteralmente) alla presenza dell’attore metallico a fare sì che Pacific Rim superi qualsiasi live action realizzato da coloro che i “Film di Robottoni” (e di mostri grossi), di fatto, li hanno portati al cinema per decenni senza però renderli mai veramente convincenti. I loro salti, le loro acrobazie, le mosse coreografiche inutili li hanno resi leggeri ed evanescenti, facili da parodiare.

Ma avercene, di parodie così.

Poi, per qualche motivo che continua a non essermi ben chiaro, Del Toro si accomodò sulla potrona di Produttore e decise di mettere il sequel nelle mani di un esordiente. Quello che ne conseguì fu un film in cui enormi masse di qualcosa saltavano, rotolavano e piroettavano.

In una sorta di incubo della fisica, la massa si dissolse e ci lasciò un dimenticabile “Film di attori che fingono di guidare macchine grosse”. Un buco nero al contrario: privo di mistero e respingente.

Questo articolo fa parte della Cover Story dedicata all’arrivo di Neon Genesis Evangelion su Netflix e ai robottoni in generale, che potete trovare riassunta a questo indirizzo.