Racconti dall'ospizio #152: Per la stessa ragione del viaggio
Racconti dall’ospizio è una rubrica in cui raccontiamo i giochi del passato con lo sguardo del presente. Lo sguardo di noi vecchietti.
La fine della scuola segnava l'inizio dell'estate. Non ci sono mai state date né solstizi a poter sancire il passaggio di stagione: l'ultima interrogazione era la boss fight, l'estate la schermata di caricamento fra lo stage appena terminato e il livello successivo che sarebbe ricominciato a settembre.
La prima immagine di quello splash screen erano delle ruote rosse, dei dischi in lamiera e gomma che roteavano su una BMX bianca. I miei volevano comprarmi una mountain bike, dicevano che la BMX era per correre su sentieri di terra, sospettavano qualche trama oscura e spericolata, immaginavano volteggi, acrobazie e conseguenti rotture di collo, mentre io volevo solo percorrere l'asfalto del lungomare di San Leone. Non avevo voluto sentire ragioni: a me piacevano le ruote rosse. Da ragazzini si è istintivi come chi sceglie un vino solo perché attratto dall'intarsio dell'etichetta, è il dominio dell'estetica estemporanea sull'utilità e sulla funzionalità delle cose.
La colonna sonora della prima pedalata fuori dal cancello di casa era un cingolare sordo, la libertà aveva un suono che si snodava a ogni giro di catena, il vento sferzava sul viso e ricacciava alle spalle le maestre, le note sul registro, le giustificazioni, i compiti per casa e le interrogazioni. Tutto rinviato a un'altra vita, rinchiusa tra le mura di una classe elementare, ormai lontana e per nulla preoccupante.
L'estate era il Calippo Fizz al chiosco sulla spiaggia, il Good-Up della Motta con caramella gommosa alla fine, i giri in barca al largo della costa, lo stabilimento Aster con il fortino sulla sabbia e il jukebox accanto al bar, all'ombra di un tetto d'incannucciato. L'estate era la vacanza fuori dalla Sicilia: tra luglio e agosto, la mia famiglia si spostava ogni anno per almeno due settimane in Sardegna; si andava di isola in isola, di mare in mare, ed era un'abitudine che già a quell'epoca per me era diventata rito. Quella del '93 fu un'estate particolare, quando la teca di aurea spensieratezza che i miei genitori erano riusciti a costruire attorno al nostro quadro familiare vide formarsi la prima incrinatura. Non sapevo ancora che altri scossoni avrebbero messo alla prova quel vetro fino a infrangerlo, negli anni a venire; all'epoca era solo una tempesta passeggera e quella fu l'unica estate dei miei primi nove anni di vita in cui restammo nella casa di San Leone. Mi dispiaceva l'interruzione del rituale, ma non ho mai sofferto il pericolo della noia e anche quell'anno trovai come tenermi occupato.
Lo stabilimento Aster era un porto sicuro: si arrivava con calma al mattino, mia madre in motorino, io in sella alla bici, si lasciavano borse e teli sulla sdraio, un posto con ombrello e uno spogliatoio prenotati per l'intera stagione, e io fuggivo verso il mare, in quel mondo di castelli di sabbia, lotte al fortino e partite al pallone che era la spiaggia. Da qualche estate eravamo passati dal Super Tele a un Super Santos prima troppo pesante per i nostri piedi. Ci sarebbe voluto ancora un po' di tempo prima di arrivare al Tango, che all'epoca equivaleva a dare un calcio a una sacca di mattoni.
I gelati al bar erano una pausa necessaria trascorsa tra gare a braccio di ferro e figurine Panini, oggetto e posta in palio di ogni partita a Schiaffetto o a Soffio (che noi chiamavamo onomatopeicamente "PPPÀ!", richiamando il getto d'aria che dal petto turbinava fino alla trachea per poi abbattersi violento sulle ignare carte dei calciatori). Il jukebox suonava What is love e All that she wants, e ricordo anche che quell'anno comprai il singolo di Livin'on my own di Freddy Mercury, con quella terribile versione remix. Era un'epoca di dance truzza e bassi spinti, la colonna sonora perfetta per ogni nostro gioco, trascinante al punto da trasformarsi a volte in danza, come quando Michele, il mio migliore amico, ballava accovacciato con le braccia conserte neanche fosse un cosacco della steppa, mentre le casse pompavano la versione disco del tema di Pinocchio, probabilmente l'apoteosi del trash musicale in quell'estate dei primi anni Novanta. Invidiavo il fatto che riuscisse bene nel mimare i passi più famosi di quel ballo che io avevo conosciuto grazie a Street Fighter II, quando Gorbaciov si fiondava da un elicottero dritto sullo scenario thailandese di M. Bison per manifestare l'orgoglio della nazione sovietica al vittorioso Zangief, invitandolo a celebrare «in the appropriate russian fashion». Io ci provavo, ad abbassarmi e scalciare come il molosso russo e il presidente facevano con una certa scioltezza, ma finivo sempre col perdere l'equilibrio tra la seconda e la terza alzata di gamba.
Street Fighter II era all'epoca uno dei miei videogame preferiti, e non solo il mio, ovviamente: Street Fighter era una mania, il suo arrivo da circa un anno su Super Nintendo non ne aveva minimamente offuscato il successo in sala giochi, anzi, in quella dello stabilimento Aster, restava uno dei cabinati più gettonati. All'epoca non conoscevo la parola "nerd", ma la sala giochi dell'Aster doveva esserne già il paradiso, fra i suoi numerosi coin-op, hockey d'aria, calcio balilla e tavoli da biliardo che si alternavano su due piani: un lusso inconcepibile, in una cittadina di poco più di cinquantamila abitanti. Attorno al cabinato di Street Fighter II, non mancava mai un piccolo stuolo di persone intente a incitare la coppia di contendenti di turno, che se le davano di santa ragione. Odiavo fare la fila, i cabinati erano tanti e io avevo già uno SNES a casa: amavo giocare con Ken e Blanka in formato arcade, preferivo ancora lo stick del cabinato al pad, ma la calca e la disponibilità domestica erano buoni motivi per indurmi ad esplorare gli altri videogame. D'altronde, ce n'erano davvero tanti ancora da provare e il tempo era a mio favore: quello fu probabilmente il primo anno in cui cominciai a uscire con maggior libertà e in cui – complice la mancata partenza e un'aria non sempre serena tra le mura di casa – passai maggior tempo in sala giochi.
Mentre passavo in rassegna i coin-op da una parete all'altra, i miei occhi caddero su uno schermo nero sul quale campeggiava una scritta.
PRESS START BUTTON
1 PLAYER ONLY
Era chiaro, un dio benevolo aveva inserito un gettone e l'aveva lasciato in un avviso lampeggiante incastonato nell'edicola dello schermo: capitava di tanto in tanto una simile grazia, ma non ci credevi mai finché non premevi il tasto START. La scritta CREDIT 1 in basso a destra non lasciava spazio a dubbi di sorta e allora via, scattare veloce prima che qualcun altro ci provasse prima di te.
Una lieve pressione del tasto d'avvio fece sì che il nero deflagrasse nell'azzurro-sabbia di una cartina geografica zeppa di pallini rossi interlacciati, sui quali era possibile muoversi mentre un grosso countdown affrettava la scelta del primo stage. La selezione era già sul puntino all'estrema destra del globo terrestre e io rimasi dov'ero. Da piccolo ero già un discreto vagheggiatore: il tempo perso sull'atlante mi tornò utile nell'intuire immediatamente che l'isola del pallino selezionato era la patria di Ryu, Ranma Saotome e Holly e Benji, il mistico e marziale Giappone.
La neve del monte Fuji fugava ogni possibile dubbio e fu nel mattino di quello scenario che cominciai a far scoppiare le prime palle rimbalzanti di Pang. La modalità di gioco era semplicissima, i controlli immediati e le sole due grosse sfere dello stage introduttivo non rappresentarono un problema; fu nello stage successivo, all'ombra del vulcano al tramonto, che spuntarono due piccole piattaforme frantumabili, le prime del gioco, destinate ad aumentare di livello in livello. Il Sol Levante si chiudeva su una Luna Calante che campeggiava imperturbabile sopra il monte, quasi a vegliare su quello scenario notturno che era il termine di un trittico di stage destinato a ripetersi nel gioco di nazione in nazione; tutto su schermo era molto appropriato, forse solo la soundtrack non era pienamente in contesto. Avrebbe potuto esserlo se fosse stata quella che ascoltai quando l'aereo mi portò nel paese accanto. Le compositrici Yōko Shimomura e Tamayo Kawamoto dovevano essersi sbagliate a indicare i nomi delle tracce: le vette della Cina erano accompagnate da una cornice sonora che sentivo più nipponica, ma dava un certo ritmo al mio piccolo arpionatore ai piedi del monte Keirin. Di quel fantomatico monte non ho mai trovato riscontro negli anni a venire; ne lessi la scritta in basso, proprio appena sotto alle scalette che mi davano la possibilità di salire di piano nello scenario, ogni volta che avessero deciso di piazzarle lì gli stessi game designer che nel gioco avevano reso impossibile il salto. Se il mattino cinese fu salvato da una sveglia power-up che bloccava tutti gli oggetti in movimento sullo schermo, il pomeriggio si faceva già più problematico con il palesarsi per la prima volta di granchi, falchetti, paguri e altre bestioline che mi rendevano difficili i movimenti e le arpionature, e che a volte facevano scoppiare sfere a sproposito. Al primo incontro, dovetti sudare non poco per superarli e arrivai con una sola vita residua in una Thailandia dove, per la prima volta, avevo a che fare con piattaforme indistruttibili. Capitolai miseramente sotto l'Emerald Temple, al rossore di un sole malinconico e calante.
Un filo sottile del tramonto si stendeva ormai sulla mano che impugnava lo stick, e penetrando dalle finestre della sala giochi mi ricordava che era ora di tornare a casa. Per quel giorno avrei dovuto abbandonare Pang, ma era soltanto l'inizio di una sfida che sarebbe durata ancora qualche settimana. La mattina dopo arrivai allo stabilimento seguendo il solito copione: un paio di colpi di pedale, assicurare la bicicletta alla catena, raggiungere l'ombrellone, consegnare a madre borsa & teli, e fu solo l'ultimo step a cambiare, perché corsi dalla parte opposta della riva del mare, fiondandomi verso le scale che conducevano al primo piano. Quello della sala giochi, of course.
La scritta colorata e fumettosa sulla testata e i due ragazzini armati d'arpione erano lì ad aspettarmi: cambiai 2.000 lire in gettoni e il viaggio poté ricominciare. Il gioco era diretto e intuitivo, ma dovevo ancora prendere la mano con le fasi più confusionarie del gameplay: capii presto che era meglio concentrarsi su una sfera alla volta, cercando di contenere l'entropia dello scenario che si arricchiva di elementi e architetture a ogni livello. Con una colonna sonora da boss fight di beat 'em up, la Cambogia si rivelò subdola e tradimentosa: tre coppie di basse scalette equidistanti distribuite in orizzontale alla base dello stage mi diedero l'illusione di star iniziando una passeggiata. Con la leggerezza con cui Ronaldo faceva la rabona in mezzo a tre avversari, cominciai a sparare a caso alle due grosse palle che rimbalzavano su schermo, ma mi resi conto ben presto che i miei movimenti erano limitati e che le brevi arrampicate sui pioli mi rallentavano, causando non di rado la collisione che mi avrebbe messo fuori gioco. Guardai Angkor Wat sullo sfondo quasi pregando per una grazia: capii come dovevano sentirsi gli americani da quelle parti durante le imboscate dei Viet Cong, e imparai a non sottovalutare l'avversario. La sessione di quella mattina fu breve, sia perché i gettoni finirono presto, sia perché bisognava andar via prima di pranzo, altri impegni chiamavano mia madre per la giornata e io sarei andato con lei, portando con me il solito Game Boy e un libro atti a scongiurare la noia.
Pang rimaneva lì, in quella fila di cabinati incollati al pavimento nel caldo dell'estate sanleonina, e nelle settimane successive, i viaggi in giro per il globo armato di arpione si intensificarono. I primi livelli erano diventati ormai rapidi e quasi indolori: avevo assimilato le meccaniche di base, preso le misure ai rimbalzi delle sfere, individuato i pattern principali e mi muovevo agilmente tra le palle e i power-up raccogliendo frutti, ortaggi e oggetti vari per incrementare il mio punteggio. Seppur con minor frequenza e con meno gettoni, continuavo a morire, ma il mio ranking sul cabinato cresceva orgogliosamente. Superai il cuore rosso dell'Australia e sfidai le insidie misteriche del Taj Mahal, stilla marmorea sullo zigomo di un tempo in pixel in cui la partita cominciava dalla parte alta dello schermo, quasi in metaforica ascensione. Frantumavo sfere come fossi un motopick contro un muro di cemento armato e il gioco lo sapeva, «Hey, you're getting better. Take your time», mi disse prima di arrivare a Leningrado, ma il tempo non giocava mai a mio favore: presto arrivava l'ora di tornare a casa, una pausa non era un'opzione, bisognava andare avanti senza sosta.
La città russa era sospesa su un tappeto di neve che circondava statue, alberi ed edifici, e con il suo nome esotico e remoto, sembrava una Laputa barocca sospesa su un manto di nubi bianche. Mi rimase impressa come un luogo mitico: a casa chiesi a mio padre se fosse bella, Leningrado; lui disse che non c'era mai stato ma che, sì, probabilmente lo era, e che adesso, però, si chiamava San Pietroburgo. Chiesi perché avessero cambiato nome e lui mi spiegò che in realtà era il suo nome originale e che i cittadini avevano potuto decidere se cambiarlo o meno grazie alla perestrojka. Gli chiesi cosa fosse la perestrojka, lui mi spiegò che era una cosa che aveva fatto Gorbaciov per il suo paese e che anche l'Unione Sovietica aveva cambiato nome: adesso si chiamava Russia. Mi venne di nuovo in mente la figura del presidente sovietico mentre ballava fiero e festante la gopek e pensavo proprio che doveva essere un grand'uomo a saper fare così tante cose, e che con un presidente così, i russi dovevano essere un popolo davvero allegro.
La Leningrado di Pang era invece ostile e niente affatto accogliente: slittavo ad ogni passo sul terreno ghiacciato e dovevo ricalibrare i miei movimenti ormai rodati; il livello notturno mi costò qualche gettone in più, ma era la porta d'Europa, superarla valeva il passaggio di continente. Diventavo sempre più bravo, gestivo bene i due lanci sequenziali consentiti dai Double Wire e li alternavo con perizia al Vulcan Missile, mitragliatrice che imparai ad evitare negli stage in cui le palline più piccole finivano per rimbalzare rasoterra, lasciandoti condannato e inerme, senza lo schermo di un arpione sotteso tra te e il pericolo. Nel vecchio continente, passai in rassegna le grandi capitali, dagli Champs-Élysées di Parigi scivolai fluido sino al Thames londinese per arrivare ai piedi della Sagrada Familia. La bellezza delle città europee era festeggiata da un deflagrare di sfere che scoppiavano su monumenti e grandi viali. Giunto ad Atene, fissai lo sfondo dell'Acropoli, che mi ricordò inevitabilmente la Valle dei Templi alle mie spalle; quello che doveva essere il Partenone mi sembrava piuttosto il Tempio della Concordia e mi impegnai al massimo perché non potevo certo perdere in casa mia. Lo scenario greco fu più difficile del previsto, le ore notturne presentavano un arzigogolato sistema di scale e piattaforme da cui scendere e risalire: fu la fortuna a far sì che trovassi un campo di forza a protezione prima che la penultima sfera dello scenario mi prendesse in pieno sulla fronte, vanificando ogni opera di attenta frantumazione.
Il passaggio successivo fu l'Egitto: si abbandonava l'antica Grecia e si passava a un'altra archeologia, e mi stupii di non trovare il Colosseo. L'Europa finiva senza Roma, una fra le più importanti città del continente? Provai a farci attenzione sulla schermata della cartina e in quel momento mi accorsi che non era assente la sola Capitale, era proprio la forma intera dello stivale a mancare. La mia Italia non era lì, un'intera nazione cancellata dalla faccia della Terra. Certo, la mappa era squadrata e approssimativa, tratteggiata senza alcuna cura cartografica e chiaramente messa lì al solo scopo di restituire un'idea vaga dei luoghi prescelti dagli sviluppatori, ma ci rimasi comunque male: Pang era la mia sfida, in quel momento era la battaglia che quotidianamente combattevo, ero un condottiero su un'isola inesistente. Il mio personaggio aveva sorvolato il mar Mediterraneo, dalla Catalogna all'Ellade, senza sapere che da quelle parti, circondata dalle acque, stava l'isola da cui un'oscura mano lo guidava con fatica verso la vittoria. Era inaccettabile.
Venni a patti con quella realtà, accettai la mia condizione di generale invisibile e mi battei con foga ai piedi delle piramidi, mentre la Sfinge mostrava il suo profilo severo, per poi lanciarmi alla conquista del Kilimangiaro sino alle sue falde, in un Kenya che per fortuna si rivelò meno ostico del previsto e che mi permise di volare dritto verso il nuovo continente. Per la prima volta, il gioco mi dava contezza dei livelli residui: dal mio ingresso a New York, mancavano soltanto undici stage alla vittoria. Non erano pochi, ma essendo arrivato al quarantesimo, il peggio mi sembrava ormai alle spalle.
Non lo completai quel pomeriggio, ci volle ancora qualche giorno in cui tornai in sala giochi per ricominciare da capo, con la pazienza della tartaruga: ormai conoscevano il mio rito, scambiavo i gettoni e mi fiondavo dritto al cabinato, per staccare solo all'ora di tornare a casa. Quel giorno avevo calcolato il giusto numero di monete che mi sarebbero servite per completare il gioco. Ne presi tre in più per precauzione. Cominciai la mia partita, qualcuno si fermava a guardare i miei virtuosismi fra corde ondulate e mitragliatori, qualcun altro, ogni tanto, metteva un gettone, entrava in partita col gemello rosso del mio avatar, dandomi anche una mano, ma moriva presto, e raramente si risolveva per il bis. Nessuno sposò mai fino in fondo la mia lotta, la mia rimase una sfida solitaria.
New York era splendida nel suo sfavillare di grattacieli, la Statua della Libertà dava le spalle alla città, mentre i livelli si facevano davvero complicati: la sera della Grande Mela era tutt'altro che agevole, con al centro un breve spazio tra due piccole scale poste fra mura basse, nel quale era possibile entrare soltanto lanciandosi dall'alto. La notte di Manhattan rischiava di farsi lunga, ma non demordevo e un power-up esplosivo sul finale mi liberò, facendo fuori le sfere residue ormai alle minime dimensioni: ero al massimo della soddisfazione, fiero e sicuro di me nel potere dei miei nove anni. Ma il gioco non smetteva di sfidarmi: «It's really hard, ain't it? Try a little harder». E così mi ritrovai in Messico, ai piedi delle piramidi Maya, dove il tramonto presentava uno fra i livelli più belli in termini d'armonia di design: cinque piccole sfere rimbalzavano in verticale, ognuna dentro al proprio recipiente, in un moto perpetuo quasi ipnotico; un metronomo impostato al ritmo di un tango più spagnolo che mesoamericano, ennesima agile sinestesia geografica della confusa e piacevole soundtrack di Pang, che dava vita a una danza fra me, i miei arpioni e il rimbalzo di quelle sfere fiammeggianti.
Su quelle note calde, abbandonavo l'armonia mariachi del centro America, dirigendomi verso sud, fino all'estremo del Polo: «Did you get the hang of it? Now let's see your skill», rilanciò il gioco, e il guanto della sfida arcade era lanciato, ma non sarebbe stato il ghiaccio dell'Antartide a fermarmi. Il giro di basso iniziale mi avvisava già che avrei pattinato come a Leningrado: la colonna sonora era identica, Tamayo non aveva neanche dovuto far la fatica di crearne una ad hoc, ma qui la struttura si faceva ancora più complessa, il tramonto era tutto un affastellarsi di piattaforme frantumabili e bisognava stare attenti al punto e al momento in cui colpire, per evitare di ritrovarsi in mezzo a una pioggia di sfere in violento rimbalzo tra il pavimento e il tetto basso sopra la nostra testa. L'Antartide era l'aferesi architettonica della Russia e mi mostrò il suo aspetto più spietato in tutta la sua glaciale nudità. Alla deriva verso nord, nord-ovest, profondità 370 metri, 72° di latitudine est, una catastrofe psicocosmica mi sbatté contro le mura del tempo come il capitano Shackleton; ma da piccoli si è testardi e determinati come i grandi esploratori britannici d'epoca vittoriana: il senso della sfida fu l'endurance che mi tenne a galla sino alla fine e il ghiaccio si sgretolò alle punte dei miei arpioni, per farmi strada verso la meta dell'ultimo scenario.
L'Isola di Pasqua mi accoglieva silenziosa, tetramente quieta in uno scenario meridiano, le nuvole coprivano un cielo altrimenti terso e mi confondevano, la mattina di quello stage iniziale aveva un colore spento e ambivalente. I giganteschi Moai mi guardavano severi, dominando un paesaggio arido da outback australiano più che da isola del Pacifico. Avevo ormai imparato a non fidarmi delle apparenze, le due minuscole piattaforme a metà schermo ostentavano troppa semplicità. L'insidia fu subito palese quando una delle tre grosse sfere erubescenti rimbalzò su una plancia invisibile a mezz'aria, proprio al centro dello scenario. Scattai subito sotto alla forma che per un attimo era balenata sullo schermo, mi affrettai a seccarla con un colpo d'arpione che andò dritto a segno. Spaccai rapidamente la prima palla per evitare di essere colpito e mi mossi subito a sinistra, dove sferrai un altro colpo. L'altra sfera deflagrò in un Vulcan Missile che giungeva provvidenziale, cominciai a sparare proiettili doppi all'impazzata, fino a centrare la successiva piattaforma invisibile, la quale eruttò un campo di forza che presi a protezione. L'essenziale era adesso interamente visibile agli occhi, mi destreggiai fra le sfere fiammeggianti che saltavano come diavoli in un sabba e gli animali che frenetici popolavano lo scenario.
Alla fine della lotta, ripresi un attimo fiato, abbassai gli occhi sui tasti e nel rialzarli mi resi conto che la regola del trittico era stata infranta: su Easter Island calava di colpo la notte, l'ultimo scenario era composto da due soli livelli e il final stage non prometteva nulla di buono. Tre gigantesche sfere verdi si stagliavano sulla sommità della scena, la centrale era accompagnata da una sorella minore che minacciava caos, un'evidente disturbatrice che avrebbe tracciato traiettorie inaspettate in quel contorto scenario, che ricordava la forma di un granchio dalle chele alzate. Le due palle laterali erano bloccate agli angoli in un moto perpetuo che era auspicabile mantenere: meglio concentrarsi sulle due centrali. La più piccola mostrò ben presto la sua natura subdola, guizzò nell'angolo a sinistra, infondendomi il timore che scivolasse in basso e mi cogliesse di sorpresa. Mantenni il sangue freddo e mi concentrai sulla più grossa, che volteggiava ancora nella parte centrale. Sbagliai qualche colpo e le sfere più piccole si insinuarono facilmente al piano terra, mi strinsero in una strettoia e per due volte di fila mi fecero fuori.
Feci un bel respiro e decisi di concentrarmi sui colpi: sarebbero stati pochi, studiati e ben calibrati. Cominciai l'opera di frantumazione: i lanci erano ben assestati, le sfere si dividevano con una certa armonia e io riuscivo a controllarne i rimbalzi. La più grossa era ormai divisa in due palle piccole e tre piccolissime che avevo ormai sotto controllo, seguivo i loro movimenti e al momento giusto avrei sferrato la giusta serie di attacchi per decimarle col mio Double Wire. Ma il fato è sempre in agguato, si trasmette come una maledizione, lo dicevano sempre gli antichi greci, e questa volta prese la forma di un granchietto rosso che in velocità andò a impattare con una delle due piccole sfere, una delle quali svirgolò nell'angolo a sinistra, dove l'altra grande palla continuava il proprio moto perpetuo; fece un paio di carambole e minacciò di cadere nel foro più a sinistra, rischiando così di entrare nello stretto tunnel al pianterreno dentro il quale mi trovavo, mettendo a repentaglio l’intera partita, in una dinamica simile a quella precedente disfatta. Scattai a sinistra per prevenire il peggio, scagliai un arpione nel punto in cui mi aspettavo la caduta della sfera, ma la più grande la precedette di qualche millimetro, impattando con la punta dell'arma e liberandone due più piccole, che adesso volteggiavano libere entro i confini dello scenario, unendosi alle altre. Non avevo alternative: dovevo gettarmi nella mischia, difendermi dai colpi e rompere il più possibile per salvarmi.
Salii sulla scala a sinistra e cominciai a sferrare una serie di colpi, percorsi rapidamente la piattaforma fino ad arrivare alla scala sull'estrema destra per evitare i rimbalzi: a sinistra si era scatenato il putiferio, era tutto un vorticare di sfere verde smeraldo e dovevo sbrigarmi a prendere le mie contromisure. Evitai per un pelo un paguro che dal tetto si era lanciato in picchiata contro di me, salii in cima alla scala sulla destra, ero ormai in alto, altissimo, ma lungi dall'essere al sicuro. Mi lanciai verso il basso scattando ancora a destra, dribblando i pericoli per un soffio, e il colpo su una sfera mi regalo un Power Wire; andai nella strettoia e cominciai a innalzare muri a destra e a sinistra per proteggermi dai colpi. Ogni cosa era in movimento frenetico e in quella tempesta di minuscole biglie, il calare di una clessidra da una piattaforma proprio sopra la mia testa fu una fortuna. Il ritmo delle sfere rallentò all'unisono con il mio battito cardiaco, ne approfittai per uscire dalla trappola di quel tunnel, ruppi al volo una palla piccola e mi fiondai in basso a destra. Sparavo a più non posso, mi muovevo come un forsennato, cercavo di trovare un equilibrio ritmico tra sfere e animali che si muovevano in maniera incontrollata, facendo turbinare i miei occhi ormai stanchi. Stavo perdendo il controllo, ero guidato più dall'istinto che dalla ragione e non ebbi nemmeno la forza di imprecare quando per sbaglio cambiai l’arma in un Vulcan Missile che eruttò dalla distruzione di una palla. Il panico stava prendendo il sopravvento, in quell'epidemia di microsfere che si spandevano nello scenario era l'arma peggiore, i rimbalzi erano sempre più bassi, i due colpi della mia arma erano sottili e non offrivano minimamente la protezione della corda degli arpioni. Continuai a sparare all'impazzata come Schwarzenegger in Commando, combattevo con tutte le mie forze per la vita ma ormai sapevo soltanto di star tergiversando mentre aspettavo la fine, che sarebbe comunque arrivata dal countdown a destra che snocciolava gli ultimi secondi. Ma il destino ha forme e inaspettate, dicevamo, e lo seppi con certezza quando una pallottola impattò su una delle piccole sfere: dal pulviscolo del solido in disgregazione venne fuori miracoloso un mazzo compatto di candelotti, che scendeva lento dall'alto come un arcangelo portatore di luce. L'istinto era quello di precipitarmi a testa bassa, ma mantenni la lucidità: feci due passi, centrai una sfera, poi un altro passo, un'altra sfera mi sfiorò passandomi sopra la testa, mentre un brivido percorreva il mio corpo per intero. Al passo successivo, la collisione con la dinamite fu diretta e inevitabile: la notte di San Lorenzo sembrò fare capolino sulle teste delle statue, tutto divenne una festa di fuochi d'artificio che esultavano nel deflagrare rumoroso delle sfere.
Quasi non mi resi conto della fine del cinquantesimo livello: un taglio repentino mi trasportò dritto alla sequenza finale, dove il mio personaggio si ritrovava a guidare una sorta di Jeep Staff Car, una di quelle auto da safari decappottate e prive di portiere, correndo sulle rive del Pacifico con il suo socio, che in realtà nella mia avventura aveva ricoperto un ruolo assai marginale. Dal mattino si passava al tramonto, per poi accendere i fari con cui infrangere la notte, le tre fasi degli stage si ripeterono nell’ending, mentre scorrevano i credits nella parte bassa dello schermo.
Inserii le prime tre lettere del mio nome, che mi catapultarono in cima al ranking: avevo conquistato il mondo, come un vero esploratore avevo scalato la vetta e adesso dominavo la classifica.
Il mio compito era terminato. Scesi le scale della sala giochi, tolsi il gancio alla catena e montai in sella alla BMX. Il sole scendeva lento e arrossava la spiaggia, mentre la spuma del mare s'infrangeva pigra sulla riva. Mi allontanavo dal lungomare verso casa, il rumore delle onde sfumava: mi sentivo stanco, come appena tornato a terra dopo una lunga traversata. Solo una domanda mi frullava in mente: che senso aveva avuto quel viaggio? Io e il mio arpionatore avevamo passato in rassegna diciassette nazioni, cinquanta livelli di impegno e sudore per una corsa in macchina su una riva del Pacifico? A quale scopo?
Lasciai questo pensiero a vagare nella mia testa: ero troppo stanco per ipotizzare qualsiasi avventuroso obiettivo non palesatosi in quel finale. Agosto era ormai agli sgoccioli, l'estate si spegneva negli ultimi rantoli di un caldo immutato, un nuovo anno scolastico giungeva alle porte. Quell'anno, non avevo visto la Sardegna: pensavo ai Monti di Mola, alle spiagge di Poltu Quatu, al monte Fuji, all'isola Maddalena, ai giganteschi Moai, al pane carasau col rosmarino del signor Alfonso. La mia fantasia da adolescente si accendeva, sovrapponendo il Mediterraneo con l'oceano Pacifico, i monti galluresi con l'Uluṟu australiano, l'azzurro del mare sardo con lo splendore oceanico delle acque keniote.
Qual era il senso del nostro viaggio annuale? Perché ogni estate ci trovavamo in Sardegna, se a quell'isola nulla ci legava, né parenti, né amici, se non occasionali, né una casa di villeggiatura? Non lo capivo bene, sapevo soltanto che ogni volta era bello, i primi passi a Olbia erano già un emozionante passaggio di stato.
La vita sembrò riprendere il suo ritmo normale dopo breve tempo, l'estate successiva tornammo in Gallura e così sarebbe stato per qualche anno ancora. Capii solo dopo qualche anno che non era quell'isola, non era il mare, non erano gli amici stagionali a rendere quel posto così bello: tutto risiedeva nel viaggio, lo capii negli anni a venire, mentre provavo emozioni simili e diverse ogni volta che prendevo in mano una valigia; lo compresi a sedici anni, quando vidi l'orario e il numero del mio volo per Londra sul terminale dell'aeroporto, in occasione della mia prima vacanza-studio; lo ricordai a diciotto, quando presi l'aereo per i pre-esami universitari a Milano; e poi a diciannove, quando presi i primi treni per vedere piccole città a me sconosciute. E ogni volta era un nuovo, eterno ritorno. Viaggiare, quel capovolgimento dello stato emozionale che avveniva ogni volta, nel movimento nomade verso un altro luogo, il ribaltamento del mindset quotidiano, i passi fino alla meta e la scoperta che ne seguiva, ogni posto con le sue piccole perle baluginanti nel chiaroscuro dei luoghi, le sue storie, le sue noie, la sua banalissima unicità.
Qualunque mezzo permettesse di viaggiare era un portale, un congegno dello spazio che sopperiva alla mancanza di una macchina del tempo, il rullare dell'aereo sulla pista invece delle ottantotto miglia orarie della DeLorean.
Il viaggio era ragione stessa del viaggio e capii che non doveva essere tanto diverso per il mio ormai vecchio amico con l'arpione, né per tutti gli altri personaggi con cui avrei viaggiato: la schermata iniziale di ogni videogame era il primo giro di sala motrice, un treno si muoveva e portava le sorprese dei suoi vagoni sui binari del gioco, lo start era il tasto di decollo del velivolo verso un'altra destinazione. Non era importante lo scopo, in quell'epoca arcade, il viaggio comprendeva già tutto, e quello di Pang era soltanto uno dei primi racconti odeporici che la meraviglia videoludica mi avrebbe consentito negli anni a venire, in un mappamondo di pixel che girava dentro la teca di un cabinato.
Oggi che il planisfero si apre su un monitor o su un televisore nel salotto di casa, quella scritta "Press Start" è ancora il biglietto d’andata verso un nuovo continente, il gate d’imbarco per un nuovo volo, e mentre le mie dita si spostano verso il tasto che darà il via a un nuovo gioco, sento ancora il rumore del motore e il movimento d’onde dell’oceano, e so che quella corsa sulle rive del Pacifico a bordo di una Jeep decappottabile non è ancora terminata.