Outcast

View Original

Persona 5 Royal è il palazzo più alto da cui cadere | Spoiler Zone

Una rubrica in cui parliamo di giochi, film, libri, la qualunque, a posteriori, senza farci alcun problema di spoiler. Se non avete ancora "consumato" ciò di cui si parla, in questo caso Persona 5 Royal, statene alla larga, perché qui potremmo svelarvi ciò che non volete sapere!

La premessa di questo articolo è che sarà lungo. Anche perché vi parlo del gioco che per me è l’esclusiva. Il gioco che mi ha fatto sganciare sull’unghia tutti e subito i soldi per una PlayStation 4 che, altrimenti, non avrei mai comprato, continuando a palleggiarmi tra PC e console datate. Il gioco che ho preso non solo “Day One” ma “Day One Steelbook Edition - caccia li denari”.

Anche perché questo è il quinto articolo su Persona 5 che compare su Outcast. Il quinto di 5 sul 5. 555! Coincidenze? Andiamo, conoscete tutti la risposta.

“Fino a qui tutto bene”.

Del resto sapevo perfettamente cosa aspettarmi da Persona 5, erano bastati i trailer. Sapevo che Hashino, prima di abbandonare la serie aveva tutte l’intenzioni di un massiccio “All Out Attack”: il gioco sarebbe stato più grosso dei suoi predecessori. Nei pregi e nei difetti.

E ovviamente, ancora prima di comprarlo, sapevo che anche questa volta Atlus mi avrebbe fatto spendere i soldi due volte a pochi mesi di distanza, con un Game+ che sarebbe stato più grosso rispetto a quello dell’edizione “liscia”. Nei pregi e nei difetti.

“Fino a qui tutto bene”.

Grosso il comparto grafico. Il tratto di Soejima è ormai stato completamente trasposto in modelli 3D animati, al punto da parere un anime (anzi, l’anime è stato criticato per non essere riuscito a rendere bene quanto il videogioco, fate un po’ voi) anche negli intermezzi; con in più il bonus di potersi finalmente sbizzarrire e completare la transizione da “normali studenti giapponesi” a supereroi grazie al gimmik del costume da ladri fantasma.
Basta con la limitazione del dover dare individualità a qualcosa, la divisa, che è stata creata proprio per annullarla, e vai con il costume da criminale gentiluomo di Joker, la giacca ed il teschio da killer-Teddy Boy di Skull, l’attillatissimo costume da dominatrice di Panther, lo stile neo-ninja di Fox, la guerriera della strada post-atomica Queen e l’ironica “Damigella di Menare” Noir. Tutti meravigliosamente sospesi in quel limbo incerto tra epico e kitsch.

Zero limitazioni anche nel design delle Persona, che qui diventano semplicemente enormi e dettagliatissime e che, in Royal, ottengono un “terzo risveglio” che le riporta a livelli di meravigliosa tamarraggine dopo una certa seriosità (si fa per dire) imposta dalla loro “evoluzione divina”.

In tanti hanno speso parole di lode per i labirinti e, davvero, che vogliamo aggiungere? Dopo Lupin III siamo soltanto noialtri giocatori di Persona 5 a poterci vantare di aver espugnato, nella stessa storia, castelli medioevali, musei, banche volanti, basi spaziali, casinò, navi da crociera, l’inferno, un centro di ricerca e il paradiso.

“Fino a qui tutto bene”.

Ancora più “grossi” anche i personaggi. Non solo nel dettaglio grafico, già visto, ma nel carattere e nelle motivazioni. Rispetto ai precedenti Persona dove protagonista e alleati menavano le mani un po’ per convinzione e un po’ perché “vabbè, ci sono capitato”, i personaggi di Persona 5 sono più che mai obbligati a distribuire minestre di schiaffi alla mensa dei poveri antagonisti. Questo li rende ancora più epici e fa di ciascuno dei loro “risvegli” un “crowning moment of awesome”, facendo letteralmente titaneggiare alcuni di loro (Ann su tutti) al momento della resa dei conti.

“Fino a qui tutto bene”.

Grossa la storia e la sua messa in scena. Hashino non lascia alcuna ambiguità nella sua opera maieutica e dopo averci chiesto “Qual è il senso della vita, se tanto devi morire?” e “Se quello che veramente sei ti vuole uccidere, ti arrendi o cambi?” ora ci chiede “Se il mondo ti vuole uccidere, ti arrendi o ti ribelli?”.
Dopodiché sempre Hashino si diverte a nascondere la portata eversiva della sua riflessione inscenando per la prima volta nelle tre serie un comodo conflitto tra eroi adolescenti e antagonisti adulti, mentre nei precedenti capitoli, nonostante il colpevole finale fosse sempre un adulto, lo scontro era quasi sempre tra coetanei.


Ma questa ragguardevole carrellata di “vecchidimmerda” è solo fumo negli occhi, anche perché è impossibile che Hashino non abbia realizzato l’età raggiunta dallo zoccolo duro dei suoi giocatori. In ragione di questo, già a metà gioco il paravento si incrina svelando il vero nemico dietro le quinte. Non il dio-wannabee Jaldabaoth, che nella sua hubris si è persino permesso di spodestare il nasuto Deus della serie, ma tu.
tu, che con il tuo culto della vittoria ad ogni costo sei disposto a lasciar correre qualunque “peccatuccio” commetta l’ex-campione olimpico Kamoshida pur di stare sul suo carro di vincitore. Tu, che per non impegnarti a farti un tuo gusto valuti l’arte a suon di mostre, premi e quotazioni monetarie trasformando Madarame da artista volenteroso ma mediocre, a mostro schiavista. Tu, indifferente complice dei bulletti che ha fatto realizzare ad un Kaneshiro qualunque che forza e denaro rendono rispettabili persino gli idioti. Tu, consumatore di massa che preferisci a un piccolo e caldo negozio di famiglia il franchise di successo sfrutta-persone e cambi così il futuro di un giovane Okumura innamorato della fantascienza. Tu, pigro irresponsabile che quando cerchi un politico vuoi un “papà vincente” come Shido, che cancelli le tue sconfitte, e non una persona onesta come Yoshida che ammetta che quando perdi devi farti il culo a risollevarti. Tu, che se credi in Dio non lo fai perché ti rendi conto di che culo sia essere vivo in un mondo vivo, ma perché speri che ti faccia dei regali.

Tu e io, insomma, che quando abbiamo posato il joypad evidentemente non abbiamo fatto una minchia di niente, perché con quattro milioni di copie vendute nel mondo, se avessimo riflettuto su cosa Hashino ci raccontava, magari un piccolo miglioramento ci sarebbe potuto scappare.

“Fino a qui tutto bene”.

E non è possibile equivocare, Hashino nelle profondità dei Memento ci chiarisce che tra protagonisti e antagonisti la differenza è solo nelle scelte che fanno, non nella loro natura. Tutti loro sono ribelli (anzi, criminali) che hanno rifiutato la comoda gabbia imposta dal mondo. Per sopravvivere i protagonisti hanno abbracciato la loro anima e evoluto le varie Persona in un’arma, gli antagonisti hanno invece accresciuto il loro ego fino a trasformarlo in fortezza. Ma il mondo prevede per entrambi per il medesimo spettro di comportamenti: ammirazione superficiale, interessato sostegno e tanta arrogante invidia quando sono alla ribalta; disprezzo, dileggio e criminalizzazione, quando cadono.


Questa identità la faceva già sospettare Akechi, ma viene evidenziata senza appello dal Dottor Maruki, motore della “trama +” di Royal che possiede sia una Persona in virtù della sua ribellione alle regole del mondo, sia un Palazzo in virtù di un desiderio di giustizia tanto pesante da distorcersi sotto la sua stessa massa.

“Fino a qui tutto bene”.

Grosso anche il “bonus” che non fa rimpiangere l’aver smollato due volte i dindi agli amici di Atlus. Di nuovo.

La “trama +” si innesta con molta naturalezza nella trama originale, non ha il valore emotivo e il senso di completamento che aveva The Answer per Persona 3 FES, ma è meno posticcia della sottotrama di Marie in Persona 4 Golden, e porta in dote un po’ di valori aggiunti.

La più grossa soddisfazione è vedere Akechi crescere da “artificio di trama” a “personaggio”, con dialoghi ampi e sempre più aderenti al suo individualismo prometeico.

Il resto, sia la riflessione sul fatto che “ognuno ha la sua giustizia” e ciò che per una persona è “perdita” per un’altra è “valore”; sia la storia di Kasumi/Sumire, sono indubbiamente prevedibili fin dalle prime battute per chiunque abbia macinato un numero consistente di manga shonen e seinen, seppur realizzati con cura e giusto senso del ritmo (questo non impedisce, purtroppo, alla povera Sumire di perdere nel confronto con una qualsiasi delle altre eroine e persino con alcune comprimarie del livello di “Meido Prof”, “Doc Punk” e “Shogi Dominatrix”).

“fino a qui tutto bene”.

Grossi, come si diceva, anche i difetti

Dal punto di vista del gameplay, come detto già in altre occasioni, la serie Persona ha seguito quella “riduzione al minimo impegno” che perseguita un po’ tutto il videogioco contemporaneo. L’ampia gamma di azioni e il perfetto controllo che l’ottima interfaccia consente sulle stesse, non compensa il fatto che Persona 5 sia facile, e che l’aggiunta di nuove cose da fare in Persona 5 Royal abbia reso il tutto ancora più facile.

Qualunque azione il giocatore scelga di fare nel tempo libero si traduce in bonus a pioggia: giochi a freccette, bonus; ascolti jazz, bonus; fai shopping, bonus. E così via.

Alla fine, l’impressione è che in Royal si possano quasi prendere decisioni a caso e arrivare comunque a fine partita con tutte le statistiche al massimo. La conseguenza è che si perde rapidamente interesse per molte attività, ridotte a puro grinding di routine, e che le battaglie, persino quelle contro i boss, siano una serie quasi ininterrotta di vittorie per manifesta superiorità. Qualcuno potrebbe obiettare che le difficoltà selezionabili servono a questo, ma è una filosofia che non mi ha mai convinto più di tanto: le sfide vere sono più divertenti se non le scegli; se ti capitano addosso.

“fino a qui tutto bene”

Grosso, infine, il problema dato proprio dal fatto che Hashino ci tiene davvero tanto al messaggio che vuole veicolare.

Fin dal terzo capitolo, il principale difetto della serie è sempre stato una certa lungaggine nel passaggio da secondo a terzo atto. Inevitabile nel momento in cui lo scioglimento deve passare dalla rivelazione. In Persona 3 il giocatore doveva vivere l’apatia impotente spezzata da scoppi di angoscia di coloro a cui è stata annunciata la condanna a morte. In Persona 4 a battere cassa era il disagio di chi scopre che “la faccenda di vita o di morte” è diventata sempre meno una metafora avventurosa e sempre più una realtà che tocca da vicino e richiede, di colpo, di trasformarsi da infallibili detective a titubanti giudici da pena capitale.

“fino a qui tutto bene”

Figuriamoci allora quanto si debba caricare questo svolgimento quando, fin dal prologo, veniva chiarito che il protagonista è stato coinvolto senza neanche scelta in un gioco ingiusto e truccato, a favore di un avversario che già normalmente sarebbe soverchiante.


Vorrei poter dire che il problema è solo la lungaggine, ma il carico emotivo è tale che la sceneggiatura, semplicemente, non riesce a gestirlo. E se da un lato ha sicuramente senso allungare il brodo per giorni e giorni in modo da far vivere al giocatore la stessa frustrazione che i personaggi sperimentano nel vedere che quella che credevano essere la loro “vittoria finale” sta venendo facilmente riscritta dal desiderio beota della massa di “non ammettere l’errore”, molto meno senso lo ha tutto lo svolgimento immediatamente precedente e successivo.

Detta come va detta, durante tutta quella fase che precede, e poi segue, la battaglia contro il gran visir di tutti i vecchidimmerda (il risoluto politico “del partito del Fare” Masayoshi Shido), protagonisti ed antagonisti si comportano da completi deficienti e quasi nulla ha senso.

Non ha senso il “pacco, doppio pacco e contropaccotto” attraverso ribaltano le carte in tavola: un piano retto su scommesse a tal punto azzardate, da far dubitare della sanità mentale dei partecipanti. Epico, sicuramente. Soddisfacente, sicuramente. Ma pure al limite della sospensione dell’incredulità.

Non ha senso il dopo. Alzi la mano chi, mentre portava il protagonista in giro per la città mascherato da un cappuccio, non si diceva: “ma che sto facendo? Il mondo mi crede morto suicida! Non dovrei uscire! Dovrei essere al Leblanc nascosto sotto il letto! Anzi, non dovrei neanche essere al Leblanc, primo posto dove chiunque mi cercherebbe. Dovrei essere in un’anonima pensioncina di quattro camere, registrato sotto falso nome grazie all’intercessione di un vecchio yakuza che deve un favore alla Procuratrice Sae Nijima per quella volta che non fece comparire il nome di sua figlia in una brutta storia di violenze domestiche.”
(OK, magari non siete stati così specifici, ma ditemi che non lo avete pensato).

“Fino a qui tutto bene”.

#Einvece: il protagonista se ne va in giro indisturbato sia quando tutti lo credono morto, sia quando l’evidenza dei fatti e il crollo psicologico dell’ultimo antagonista umano rendono evidente che i Ladri Fantasma sono ancora in piena forza e pericolosi.

Una associazione criminale golpista che riunisce politici, funzionari di pubblica sicurezza, magistrati, imprenditori e yakuza, che manco tiene sotto sorveglianza i luoghi e le persone frequentati dall’unico vero avversario che abbiano mai avuto. Manco un servizietto segreto deviato che pensi di risolvere la questione con un banale incidente stradale, una falsa rapina con esito fatale, una sfortunata intossicazione alimentare, un tragico incidente domestico.
Tanto leali da far quasi commuovere: e poi dicono che non ci sono più valori, signora mia!

“fino a qui tutto bene”

Insomma, nel suo volerti mettere a confronto con la cinica realtà, Persona 5 si dilunga, perde di vista proprio la cinica realtà, e inciampa in quel gradino che separa l’incoraggiare la volontaria sospensione dell’incredulità, e il pretenderla a forza. E di certo non aiuta che questa lungaggine si trascini fino a oltre la risoluzione, con l’assurda decisione del protagonista di consegnarsi alla legge al fine di dimostrare l’esistenza di qualcosa di indimostrabile, che non ho mai capito se fosse un ennesimo carico di Hashino sul messaggio “Ma tu guarda l’ingratitudine della società” o, peggio, il messaggino tranquillizzante per i bambini: “Guardate che anche se lo si fa per un buon motivo, non va mica bene infrangere la legge!”.

Inciampa e cade, dopo una corsa perfetta, ad un metro dal traguardo.

“SPLAT!”

P.S.: per terminare la lista dei difetti, che comunque non deve ingannare sul fatto che per centotrenta (su centosessanta) ore di gioco mi sono divertito abbestia, metterei anche un motivo di fastidio molto “locale”, anzi, “localizzato”: non credo si possa davvero criticare un Gualtiero Cannarsi che vede l’adattamento come una versione colta di Google Translate, se poi altri professionisti pensano che sia giustificabile rendere dei personaggi più volgari di quello che sono solo perché “giovani e chiassosi”, o trasformare un’esclamazione di assenso in un ridondante paragrafo di due periodi evidentemente valutato un tanto al chilo. Ci deve pur essere una via di mezzo, e sarebbe ora di renderla la norma.

Questo articolo fa parte della Cover Story dedicata alle esclusive, che potete trovare riassunta a questo indirizzo.