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Portal 2 e quella volta che mi sono emozionato per un trofeo

Ciao, sono Stanlio Kubrick e sono qui per prenderla alla lontana. Per ragioni di SEO vi dirò subito che in questo pezzo arriverò a un certo punto a parlare di Portal 2. Ma cominciamo dall’inizio: sono nato 42 anni fa.

Ciascuno di noi ha la propria kryptonite videoludica, credo. Che sia un singolo gioco, un intero genere, un approccio. Conosco gente che odia i giochi di sport a prescindere, e non ha mai toccato un FIFA o un Forza Horizon nonostante le due cose c’entrino pochissimo tra di loro. C’è chi con i giochi di lotta proprio non ce la fa. Chi non sopporta le trame; chi senza una trama non riesce a entrare nel gioco. Secondo me è un bene, eh! Per il portafogli, dico. Quantomeno c’è della roba che, quando esce, ti trasmette all’istante la certezza che non ti interesserà mai: sono soldi risparmiati, se non addirittura guadagnati, e se non fai attenzione magari una mattina ti svegli ricco!

Non mi sono ancora svegliato ricco, però ho una serie di kryptoniti. La più grave è la prima persona, una tara della quale sono sicuro di aver già parlato da queste parti: mi perdo, mi disoriento, non capisco, mi incazzo, muoio. Non riesco a giocare ai giochi in prima persona. In particolare quelli dove si spara, perché gioco quasi esclusivamente con il paddino e questo rende mirare e sparare in tempi rapidi un’impresa francamente oltre le mie capacità psicofisiche. Non ce la faccio, oh, che cazzo volete? Tranne quando ce la faccio.

Lo sapete che uno dei miei giochi prefe di tutti i tempi è Mirror’s Edge? Per qualche inspiegabile motivo, con esso sono riuscito a superare i miei limiti e a godermi un’esperienza in soggettiva. Questo per dire che raramente la kryptonite è una regola ferrea: capita sempre di trovare quel singolo esempio, quella simpatica eccezione che ti porta a giocare a una roba che altrimenti non avresti toccato con un bastone lungo lungo.

Un’altra mia grande kryptonite, centomila volte più irritante, sono i puzzle game. Perché mi piacciono, spesso li adoro, ma ho un problema di base che è: sono stupido. E quindi nove volte su dieci mi blocco, mi frustro e ribalto la scrivania. Avete presente il bellissimo The Witness? Sono arrivato credo a tre quarti prima di realizzare di non avere le capacità mentali necessarie a proseguire. Da allora lo odio, perché mi ha fatto sentire stupido, e voglio dire, lo so, OK, sono stupido, ma c’è bisogno di ricordarmelo?

Capirete quindi come mai abbia giocato a Portal per la prima volta nel 2012, e forse potrete intuire come mai quello stesso anno abbia immediatamente giocato anche a Portal 2. Nonostante sulla carta il gioco di Valve fosse la mia kryptonite definitiva (un puzzle game in prima persona nel quale si spara), me ne innamorai all’istante e lo divorai nel giro di poche sessioni, superando il mal di stomaco da soggettiva e riuscendo a sintonizzare il cervello con le peculiari richieste di questo gioco che mi spingeva a immaginare lo spazio e il movimento dentro esso in un modo nuovo e originale.

Portal divenne quindi all’istante una delle eccezioni più luminose alla mia regola della kryptonite (negli anni la lista si è arricchita con un po’ di altra roba, Dishonored, Subnautica… ), anche perché ehi, faceva riderissimo, e nel modo giusto. Era un gioco interamente costruito sul farti sentire stupido e inadeguato, con una voce che accompagnava ogni tuo movimento insultandoti e mettendo di fronte alla tua incompetenza. Era perfetto per me: un puzzle game che mi leggeva nell’anima e sapeva quali corde stuzzicare per farmi incazzare, e quindi raccogliere la sua sfida. Saltai quindi subito sul carro del vincitore e attaccai immediatamente Portal 2.

Portal 2 è una clamorosa raccolta di momenti memorabili. Dove il primo capitolo prosperava nella sua ripetitività anche visiva trasformandola in un punto di forza e un tema narrativo, il secondo si apre in un motel, poi ti porta a ripercorrere alcuni vecchi puzzle ricontestualizzati in una cornice quasi post-apocalittica, dopodiché ti fa fare amicizia con una vecchia nemica, la trasforma in una patata, ti accompagna per i decadenti corridoi dell’ormai defunta Aperture Science… è infinitamente più narrativo e meno iterativo del primo capitolo, e mi prese benissimo fin da subito proprio per questo.

Anche Portal, in verità, riusciva a contestualizzare i suoi puzzle e ad armonizzare narrazione e gameplay così da evitare l’effetto da Settimana Enigmistica di stare affrontando una serie di sfide discrete tenute insieme con lo scotch. Ma usava una singola spiegazione per portare avanti l’intera trama: se le stanze che stai attraversando ti sembrano un po’ tutte uguali e tutte concentrate sul design e sul gameplay più che sull’estetica, è perché le abbiamo fatte così apposta. Portal 2 è in questo senso un’esplosione: è molto più un luogo di quanto lo fosse il predecessore, che di fatto lo diventava solo sul clamoroso finale alla Truman Show. Il secondo capitolo è un’esplorazione ex-post di un gigantesco laboratorio sotterraneo ormai in rovina, e riesce nonostante questo a infilarci i suoi classici puzzle, nascondendoli però molto meglio sotto uno strato di narrazione ambientale.

Ho detto che Portal faceva riderissimo, no? Portal 2, credo, fa meno ridere, per una combinazione di fattori che comprendono anche dei difetti (Wheatley è un personaggio meno divertente e ficcante di GLaDOS, e infatti il gioco accelera con il suo ritorno) ma che sono in gran parte funzione del fatto che Portal 2 è meno interessato alla singola gag, alla singola battuta, al momento umoristico memorabile. Scambia però questa sua relativamente superiore sobrietà con un gusto unico per i colpi di teatro: quello che in Portal era la singola sorpresa, la singola sequenza che reggeva l’intero gioco, in Portal 2 succede ogni dieci passi circa. E il rischio in questi casi è quello del sovraccarico: una volta che hai costruito la tensione fino ad arrivare a una boss fight classica ma molto spettacolare con una gigantesca AI ormai ribelle, come fai a superarti per il gran finale?

Io non amo particolarmente la cultura dei trofei, ma ricorderò sempre il momento in cui questo specifico trofeo è comparso come notifica in alto a destra della mia TV:

Me lo ricordo perché il suonino del trofeo mi fece risvegliare dallo stato di catatonica beatitudine nel quale il finale di suddetta boss fight mi aveva scaraventato. Se non fossi, come abbiamo già stabilito più sopra, stupido vi descriverei la scena con dovizia di particolari. Siccome però lo sono, eccovela in forma video, con per qualche motivo i sottotitoli in turco:

Portal rompeva la quarta parete, più e più volte. Con il suo finale lunare, Portal 2 rompe ogni logica. La sequenza è visivamente molto guidata: basta aver giocato a un paio di videogiochi nella propria vita per capire che è il gioco stesso che ti sta suggerendo “sì, devi fare esattamente quello che stai pensando”. Io ci misi un attimo a capirlo: “sparare alla Luna” mi sembrava una di quelle soluzioni assurde che provi quando tutto il resto ha fallito, e che nove volte su dieci non funzionano e lo sapevi già prima di provarci. Qui funzionò, e io rimasi a bocca aperta in un modo che è sciocco provare a descrivere a parole, e che raramente mi è capitato nella vita, con i videogiochi e non solo.

Da allora non ho mai più rigiocato a Portal 2 (né al primo, se è per questo): la prima esperienza è stata troppo perfetta anche a dispetto dei miei stessi limiti con il genere e il formato e ho una paura fottuta di rovinarmela con un secondo giro. Ancora oggi non gioco ai giochi in prima persona, sono scarso con i puzzle e non me ne frega nulla dei trofei. E fatico a pensare a una tempesta più perfetta di quella che, tra l’ottobre e il novembre del 2012, mi fece conoscere Chell, GLaDOS e le torrette assassine, e mi portò alfine a un passo dalla superficie della Luna.

Questo articolo fa parte della Cover Story dedicata ai "Momenti memorabili", che potete trovare riassunta a questo indirizzo qui.