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Post Mortem #10: Nella caverna di Zork!

Una rubrica in cui vi raccontiamo i post mortem dei principali videogiochi, vale a dire le considerazioni a posteriori, da parte dei membri del team di sviluppo, su cosa abbia funzionato e cosa no durante il lungo processo che porta alla nascita di un videogioco.

Come tante altre pietre miliari videoludiche degli anni Settanta e Ottanta, Zork è il frutto di un perfetto allineamento di pianeti, figlio di passione, voglia di fare, inventiva, genio, talento, limiti, compromessi e hardware che non ce la fa. Il primo Zork è un gioco intimamente legato agli anni Settanta e del resto, racconta Dave Lebling dal palco della GDC 2014, lui e i suoi tre compagni (Tim Anderson, Marc Blank, Bruce Daniels) iniziarono a lavorare per dar vita alla propria creatura nell'anno in cui Guerre Stellari uscì al cinema. Era quindi tanto tempo fa, in una galassia lontana lontana nella quale un gioco finiva per girare su macchine enormi e indistruttibili, router che occupavano stanze intere e che se li lanciavi da un elicottero non si distruggevano con l'impatto a terra. Erano altri tempi. Sul serio.

Ed è proprio in quel periodo che i quattro di cui sopra, mortalmente affascinati da Colossal Cave, gioco d'avventura ideato da Will Crowther (che, con il suo lavoro su ARPANET, è praticamente fra gli inventori di internet... e hai detto niente!) e Don Woods, decisero di mettersi a dire la loro. Colossal Cave, per gli amici Adventure, per i completisti Colossal Cave Adventure, era in pratica un simulatore di caverna, basato su una grotta vera riprodotta nei minimi dettagli (quantomeno per quel che si poteva fare con un gioco interamente basato sulle parole) e che, nel momento stesso in cui si era manifestato sulla rete, aveva avuto l'effetto di azzerare la produttività di tutti gli uffici collegati. Son quelle cose che capitano a giochi di spessore che escono nel posto giusto al momento giusto. Tipo, che so, Tetris.

I quattro dell'ave maria, insomma, si uniscono per vincere, fanno palestra creando un paio di giochini e poi si mettono al lavoro per dare vita alla loro avventura testuale ispirata a Colossal Cave Adventure. Tanto per cominciare, Dave Lebling crea un parser da due parole e i suoi compari mettono assieme un gioco composto da appena quattro stanze, per provare sul campo le dinamiche di funzionamento. E per inserire qualcosa di divertente nel buio delle quattro stanze, si inventano i Grues, che diventeranno poi nemici ricorrenti nella serie di Zork.

Il sistema si basava sull'utilizzo di verbi e sui legami fra i vari elementi inseriti nel "mondo" di gioco, oltre che su un meccanismo di timer che si attivavano in corrispondenza di alcune mosse che il giocatore poteva compiere e andavano a far capitare eventi specifici. Eventi "scriptati", diremmo oggi. Come tanti pionieri del settore, Lebling non ha problemi ad ammettere che lui e i suoi procedevano a tentoni e, per dire, non avevano in mente una storia che legasse assieme tutti gli elementi. Si inventavano le idee più ganze possibili e le inserivano. "Ci vorrebbe un veicolo!" Taaac, veicolo inserito. Solo che, procedendo così, si complicavano le cose con reazioni a catena infinite, perché si introducevano nuovi problemi: cosa accadeva se il giocatore prendeva il veicolo e lo portava in un luogo dove il team non aveva previsto che fosse utilizzato? E quindi il team passava gran parte del tempo a mettere pezze sui problemi da loro stessi creati per inserire nuove idee.

Nella versione per mainframe di Zork, il team poteva osservare "in diretta" il comportamento dei giocatori e apportare modifiche al volo per migliorare l'esperienza. O per dar fastidio.

Durante la lavorazione su Zork, venne fondata Infocom, che in seguito sarebbe diventata il marchio principale per il settore delle avventure testuali. E la prima decisione presa da Infocom fu il mettersi al lavoro su una versione commerciale di Zork, che nella sua edizione originale era un gioco da mainframe. Problema: come si infila un gioco da un mega in un microcomputer? Facile: si crea un linguaggio di programmazione apposito e si spezza il gioco in più parti, in modo da far stare quel che serve su un singolo dischetto. Problema: come si fa a comprendere, oggi, nell'epoca dei Tera, una limitazione del genere? Si fa fatica. Problema: Zork vende qualcosa come venti copie. Ed è qui che entra in gioco Personal Software.

Personal Software si prese in carico il compito di fare da distributore e garantire quindi visibilità e vendite, ma portò in dote la classica serie di problemi che incontri quando ti affidi a chi decide di mettere i soldi. Personal Software, infatti, impose la copertina con il barbaro che impugnava la spada, magari efficace sul piano del marketing, ma totalmente scollegata da un gioco che, a dirla tutta, neanche descriveva le fattezze del protagonista. Ma d'altra parte, Lebling e i suoi non volevano fare i publisher e in ogni caso l'operazione funzionò, Zork ebbe successo e, oltretutto, grazie all'interazione con i fan, i ragazzi intuirono che era possibile ampliare i margini di successo (e di guadagno) pubblicando mappe, trucchi e guide. Insomma, andava tutto alla grande.

Non tutto era andato bene.

Inoltre, l'impossibilità di infilare l'intero gioco originale in un dischetto aveva lasciato a disposizione un sacco di materiale sfruttabile per realizzare dei seguiti, cui applicare tutte le lezioni imparate dalla realizzazione del primo episodio. Problema: il publisher non voleva saperne di uno Zork 2. Soluzione: ciao ciao, Infocom diventa publisher e avvia la sua conquista del mondo videoludico, mettendosi al lavoro su Zork II, ingaggiando un'agenzia pubblicitaria in linea con le proprie idee e pubblicando il primo Zork con una grafica di copertina e un logo nuovi di zecca, che sarebbero poi rimasti per il resto della serie.

Zork II doveva, in sostanza, proporre tutto quel che era avanzato del gioco originale per mainframe dopo la creazione del primo episodio commerciale, ma in realtà alcuni elementi finirono per essere messi da parte e utilizzati nella terza uscita. Dato che il primo Zork era sostanzialmente solo un dungeon crawler, il team voleva proporre qualcosa di nuovo e inserì quindi un cattivo di personalità: nel secondo episodio della serie, l'elemento di esplorazione del dungeon divenne secondario rispetto all'obiettivo principale, che era la sconfitta del mago. Quello che venne fuori era un gioco di fatto composto per metà da idee e materiali recuperati dal gioco per mainframe e per metà da contenuti nuovi. E fu un nuovo successo, che permise a Infocom di consolidarsi, spostare i propri uffici nella nuova sede di Wheeler Street e lavorare finalmente tutti insieme, per dare vita a Zork III, con cui chiudere la trilogia nata dall'originale progetto figlio della passione.

Lebling ha confessato sul palco di aver creato lui il famigerato puzzle del diamante basato sul baseball.

Nel corso della conferenza è evidente l'amore e la passione che Lebling esprime nei confronti di quegli anni. Un po' meno quando, nei minuti finali, accenna ad Activision, che acquisì lo studio nel 1986 e, nel 1989, decise di spostare a ovest gli uffici che si trovavano a Cambridge. Solo gli uffici, però, non le persone. E infatti gli Zork pubblicati negli anni Novanta, tentando – senza particolare successo – di rilanciare i marchi Zork e Infocom in piena ondata di film interattivi, sono tutta un'altra storia. Ma il sorriso torna sul volto di Lebling quando, durante la sessione di domande e risposte, ricorda per esempio che il suo gioco preferito di Infocom è probabilmente Enchanter, che inizialmente era stato concepito come quarto episodio della saga di Zork ma poi finì per staccarsene e aprire una nuova trilogia. E il gioco più difficile da realizzare? Spellbreaker, terzo capitolo proprio di quella trilogia, troppo vasto, troppo complesso, troppo ambizioso.