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Post Mortem #16: Il monte Diablo

Una rubrica in cui vi raccontiamo i post mortem dei principali videogiochi, vale a dire le considerazioni a posteriori, da parte dei membri del team di sviluppo, su cosa abbia funzionato e cosa no durante il lungo processo che porta alla nascita di un videogioco.

Il 31 dicembre del 1996, quasi vent'anni fa, Blizzard pubblicò Diablo. E in tutto questo tempo io non ci ho mai giocato. Né al primo, né al secondo, né al terzo. Così, mi sembrava giusto mettere le mani avanti e chiarire che se in questo articolo si respira aria nostalgica, beh, non viene dal sottoscritto. Tant'è che al Classic Post Mortem su Diablo, alla Game Developers Conference 2016, mi ci sono presentato un po' dubbioso, certamente incuriosito, ma poco interessato al gioco in sé. E invece! E invece, come sempre, il Classic Post Mortem non delude e David Brevik si rivela uno speaker brillantissimo, coinvolgente, con un sacco da dire e da dare (anche letteralmente), regalando un perfetto evento di chiusura per la fiera.

La storia di Diablo, comunque, inizia ovviamente qualche anno prima di quel dicembre del 1996, con un Brevik che ancora frequenta le scuole superiori ma si trastulla con l'idea per un gioco in stile roguelike, nel quale si sarebbe controllato un party di avventurieri e che scelse di intitolare Diablo in onore del monte omonimo che dominava il paesaggio dalle parti di casa sua. Brevik si dilettava a giocare e imparare programmazione con l'Apple II del padre e, una volta completati gli studi universitari, trovò lavoro presso Iguana Entertainment, per poi fondare assieme a un paio di amici la Condor Inc. Qui, finalmente, si mise davvero al lavoro sul suo progetto, un GdR che, pensa te, in questa prima fase dello sviluppo doveva essere realizzato appoggiandosi sull'allora popolare tecnica della claymation (con pupazzi di plastilina animati in stop motion).

Abbandonata l'idea della claymation (troppo sbattimento, troppi soldi), Brevik e i suoi continuarono a sviluppare il progetto, mentre si mantenevano con lavori su commissione: NFL Quarterback Club ‘95 e soprattutto Justice League Task Force, un picchiaduro a incontri per Sega Mega Drive. Perché "soprattutto"? Per via di un aneddoto curioso. Quando Condor si presentò al CES per mettere in mostra il proprio gioco, i nostri ragazzi scoprirono che, a loro completa insaputa, Justice League Task Force era stato sviluppato anche per Super NES, da un altro studio chiamato Silicon & Synapse. E, ancora più bizzarro, i due giochi erano inquietantemente simili. Fu così che i membri dei due studi finirono per entrare in contatto e iniziare a conoscersi.

E perché questo è importante? Perché neanche troppo tempo dopo, Silicon & Synapse avrebbe cambiato nome in Chaos Studios e quindi in Blizzard Entertainment. Eh! Brevik e amici decisero che queste nuove conoscenze potevano costituire i partner adatti per la realizzazione di Diablo. Si proposero per lavorare su Warcraft come tester, con l’accordo che a pubblicazione avvenuta si sarebbe discusso di una possibile collaborazione per questo fantomatico nuovo gioco. E così fu, Blizzard e Condor strinsero un accordo per lo sviluppo di Diablo. Applausi, prego.

Tra le fonti d’ispirazione dirette per Diablo ci fu un classico come X-COM. E attenzione, stiamo parlando di ispirazione diretta, nel senso che i ragazzi presero un’immagine di gioco dal capolavoro dei fratelli Gollop e ne copiarono letteralmente le dimensioni dei tile grafici, per replicarle in Diablo. Ah, bonus: la mappa venne copiata da Star Wars: Dark Forces, anche se in maniera meno letterale. Fra le altre ispirazioni, a domanda diretta, Brevik cita anche Ultima, Wizardry, chiaramente i roguelike, ma perfino Doom e, più in generale, l’arte gotica, con una chiesa del gioco che è copiata senza vergogna da una reale.

Comunque, soprattutto nei mesi iniziali di sviluppo, le difficoltà non mancarono, anche considerando che per Brevik si trattava della prima esperienza di programmazione in C. Ma gli intoppi furono anche di design, con infinite discussioni su come impostare il gioco. Pensate che, nell’idea di Brevik, Diablo sarebbe dovuto essere un gioco con combattimenti a turni. E non voleva sentir parlare di multiplayer. A pensarci oggi, considerando quel che è stato Diablo e l’eredità che si è lasciato alle spalle, fa un po’ ridere, ma è davvero così: da Blizzard insistevano, ma il suo creatore non mollava e si dovette arrivare a una votazione fantozziana in sala mensa… nella quale Brevik scoprì di essere l’unico del team a tenere davvero a quei due “pilastri”. Insomma, coda fra le gambe e pedalare. Chiaramente, col senno di poi, Brevik sa perfettamente che si era incartato su una posizione sbagliata e fra l’altro, nel suo racconto alla platea del Moscone, ricorda con emozione il momento in cui vide per la prima volta un guerriero muoversi nel motore di gioco e uccidere uno scheletro. In tempo reale. “Era nato l’action RPG!”

Un altro problema manifestatosi in maniera brutale durante quel periodo di sviluppo rischiò di essere tragico: in Condor erano bravi a sviluppare giochi, ma non ci capivano nulla di affari. Accettarono un pagamento di appena trecentomila dollari per Diablo che, oltre ad essere misero col senno di poi, si rivelò insufficiente a sostenere lo studio per la durata dello sviluppo. Riuscirono a tenersi in piedi accettando un lavoro su commissione come ai bei vecchi tempi e incassando un milione di dollari da 3DO per lo sviluppo di NFL Quarterback Club ‘96 (e già qui, il paragone fra i due pagamenti dice molto), ma la boccata d’ossigeno non durò a lungo: non c’era nulla da fare, Condor non era in grado di reggersi in piedi da sola.

Per fortuna, arrivò l’acquisto da parte di un’azienda più grossa. Da 3DO, evidentemente soddisfatti del lavoro commissionato e consapevoli di avere per le mani gente talentuosa, offrirono sostanzialmente il doppio rispetto a quanto proposto da Blizzard, ma in Condor ritenevano che la casa di Warcraft fosse più in sintonia con loro. E fu così che Condor venne acquisita e ribattezzata Blzzard North. E giusto per ribadire la totale cretinaggine affaristica dei nostri eroi, Brevik racconta anche un altro aneddotto, quella della volta in cui un tizio gli chiese di dargli in affitto una piccola parte degli uffici per il lavoro su un suo progetto, in cambio del 10% sugli utili che avrebbe fruttato. Il progetto era “l’e-mail su internet”. Una fesseria, no? Brevik rifiutò. Il tizio sviluppò il suo progetto e creò Hotmail. Roba da centinaia di milioni di dollari. Eh!

Nel frattempo, c’era la faccenda del multiplayer, che era stato un po’ fatto ingoiare con l’imbuto a Brevik e sul quale non si era ancora lavorato per nulla. Da Blizzard chiedevano notizie, la risposta standard era “Tranquilli, tutto a posto”, ma la verità è che non c’era ancora mezza riga di codice a tema multigiocatore. Per fortuna, quando si arrivò al dunque, fu proprio un ragazzo di Blizzard a sistemare la faccenda, sviluppando sostanzialmente da solo l’infrastruttura di Battle.net, che fece il suo esordio proprio con Diablo (all’epoca, figuriamoci, girava su un singolo computer) e sarebbe poi diventato negli anni un colosso mostruoso, base per il multiplayer di ormai una decina abbondante di giochi.

E non fu certo quello l’unico aspetto gestito all’ultimo momento. Per dire, la hotbar venne introdotta nei mesi conclusivi dello sviluppo, in sostituzione di un sistema che, fino a quel punto, prevedeva un solo, singolo, slot. E ancora, i più attempati e nostalgici vecchi scorreggioni del team non volevano saperne di permettere l’utilizzo del tasto destro del mouse. Volevano, invece, che fosse necessario cliccare su ogni singolo oggetto, trascinarlo e, insomma, avere tutto complicato come nei Giochi di Ruolo dei Vostri Padri. Volevano inserire la necessità di cucinare e mangiare il cibo per mantenersi in vita. In Diablo!. E poi? I lavori in corso?

L’uscita del gioco era prevista per Natale e scattò un periodo di crunch abbacinante, che tenne Brevik lontano dalla famiglia e dalla moglie incinta. A un certo punto sembrava che l’erede sarebbe nato mentre papà era ancora chiuso in ufficio a impazzire sui bug, ma fu così gentile da attendere gennaio. Il gioco finalmente uscì e il resto è storia. Una storia di cui fa parte anche una manovra promozionale capace di svelare una lieve svista di design: offrirono cento dollari di premio per il primo giocatore in grado di uccidere Diablo, ma ci volle molto poco. Bastò infatti che un ragazzo si accorgesse della svista di cui sopra: l’abilità Blood Exchange permetteva di scambiare i propri punti ferita con quelli di un nemico ed era possibile farlo anche con Diablo. Non credo di dover dare ulteriori spiegazioni.