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Post Mortem #6: Alone in the Dark nelle parole del suo creatore

Una rubrica in cui vi raccontiamo i post mortem dei principali videogiochi, vale a dire le considerazioni a posteriori, da parte dei membri del team di sviluppo, su cosa abbia funzionato e cosa no durante il lungo processo che porta alla nascita di un videogioco.

Alla Game Developers Conference 2012 non c'è stata l'invasione di post mortem classici che si era vista un anno fa, ma ho comunque avuto l'occasione di osservare e ascoltare da vicino (prima fila fissa, mica come a scuola) i creatori di due videogiochi fondamentali nel dettare svariate regole poi abbracciate da questo settore, oltre che per me importanti a livello personale. Di Tim Cain e Fallout ho scritto sette giorni fa, oggi parliamo di Frédérick Raynal e del suo Alone in the Dark, raccontato alla platea di San Francisco in occasione del ventesimo anniversario dell'uscita.

Raynal entrò in Infogrames poco più che ventenne, con alle spalle una carriera da impiegato al videonoleggio dove, un po' alla Clerks e un po' alla Quentin Tarantino, si era fatto una cultura da appassionato di film di genere. Di genere horror, a esser precisi, con una predilezione per George Romero e Dario Argento, oltre che, parole sue, "quei film in cui un tizio o dei tizi entrano in un posto e si trovano a dover lottare per sopravvivere". Ma oltre a fare il cinefilo, Raynal si era anche fatto le ossa realizzando i suoi primi giochi, fra cui quel Popcorn che gli valse l'assunzione in Infogrames, dove lavorò alla conversione da Atari ST a PC di Alpha Waves (noto anche come Continuum), un gioco che gli permise di impratichirsi con la gestione della grafica 3D e, quindi, con ciò che sarebbe stato alla base del suo futuro capolavoro.

Dopo aver trascorso sei mesi a lavorare sostanzialmente su un cubo rotante, Raynal decise che era giunto il momento di dare vita al suo progetto personale. Un gioco horror, di zombi, con personaggi realizzati in grafica tridimensionale. Un titolo in cui mescolare la sua passione per l'azione e per i giochi d'avventura. Un gioco che, come tanti all'epoca, finì per fare di necessità virtù e le cui caratteristiche sono almeno in parte anche figlie dei limiti hardware. Del resto, avere un protagonista solo e abbandonato in una casa invasa dall'orrore funzionava per il tipo di esperienza voluta, ma risparmiava anche la fatica di creare un sistema di interazione e dialogo fra i personaggi. E la suggestiva ambientazione negli anni Venti eliminò dall'equazione la presenza di qualsiasi congegno funzionante a energia elettrica. Non che i problemi tecnologici, comunque, siano mancati.

Alone in the Dark non aveva un'interfaccia fissa a schermo, mostrava solo l'azione, come se fosse un film. L'inventario e l'energia potevano essere "consultati" in una schermata a parte.

D'altra parte, si trattava per Raynal del primo progetto personale e dalle grandi dimensioni, oltretutto (storia già sentita) neanche troppo ben voluto da Infogrames, che non credeva nel gioco e abbandonò a lungo il suo creatore, costretto a lavorarci affidandosi alla spontanea buona volontà di chi scelse d'aiutarlo. Una prima problematica venne dalla realizzazione dei fondali, inizialmente costruiti come modelli 3D ricavati partendo da fotografie di ambienti reali. Raynal non voleva usare i poligoni generati in tempo reale dal motore di gioco, perché i risultati non sarebbero stati di gran qualità. La tecnica scelta, però, creava complicazioni: a parte il fatto che le foto andavano scattate, stampate e infilate nell'unico scanner presente all'epoca in Infogrames, il sistema sviluppato era troppo semplice e le immagini risultavano distorte. Niente da fare, quindi, si passò a fondali disegnati a mano, realizzati utilizzando un editor per la gestione di elementi e collisioni chiaramente creato per l'occasione.

Il lavoro, anche dei grafici, era in larga parte fatto da gente che credeva nel progetto e voleva dedicarvisi, dato che Infogrames era ancora da convincere. E fu così che a creare quegli evocativi fondali ci pensò Yaël Barroz, studentessa d'arte che aveva scoperto le meraviglie di Deluxe Paint su Amiga, venne coinvolta nel progetto e finì addirittura per sposare Frédérick Raynal (e vissero per sempre felici e contenti con due figli). Grazie anche al suo apporto, dopo mesi di duro lavoro, Raynal riuscì a mettere assieme un prototipo, che venne mostrato ai dirigenti Infogrames e approvato finalmente come progetto in fase di sviluppo.

E a quel punto il gioco prese vita e si sviluppò piano piano, organicamente, fra mille ostacoli, mille idee, mille passi lungo il cammino. I problemi nella realizzazione di un impianto sonoro in grado di evocare le giuste sensazioni, risolti dall'uscita delle schede Soundblaster. La mappa della casa, pensata per essere credibile e non un semplice agglomerato di stanze "utili" ai fini del gameplay, pianificata da Raynal in otto giorni di lavoro con Franck Manzetti. Il personaggio principale assemblato mettendo assieme centoquaranta poligoni, che oggi sembrano una barzelletta, ma all'epoca addirittura preoccupavano Raynal: forse erano troppi. Piano piano, fra un inciampo e l'altro, con tutti i suoi compromessi (quella specie di pollo zombi all'inizio aveva una forma sferica per risparmiare sul numero di poligoni), il gioco prendeva forma e a dicembre 1991 vantava già una sua struttura di puzzle, il suo caratteristico sistema di inquadrature surreali, l'interazione con gli oggetti e le mitiche casse da spostare in giro.

Nel citare l'uccellazzo di Alone in the Dark, che entra in casa sfondando il vetro di una finestra, Raynal non nasconde la frecciatina al cane di un certo altro gioco.

Nel frattempo si faceva un gran parlare del fatto che Alone in the Dark sarebbe stato un gioco basato sulla licenza de Il richiamo di Cthulhu, popolare GdR cartaceo basato sui miti di Howard Phillips Lovecraft. In realtà, anche se Infogrames sfruttò quella licenza per un paio di bellissime avventure grafiche (Shadow of the Comet e Prisoner of Ice), Alone in the dark era ispirato soprattutto alla passione cinematografica del suo autore. La licenza fu tirata in ballo per breve tempo, ma Raynal non voleva assolutamente mettersi a realizzare un gioco di ruolo e in Chaosium (l'editore del GdR cartaceo) rifiutarono di concedere la licenza a un titolo che non si adeguava ai canoni. Tutto sommato, Alone in the Dark finì per riprodurre bene un certo tipo di atmosfera che si respirava nel GdR, ma la ritrosia dell'editore è comunque comprensibile. Fatto sta che sulla copertina Infogrames si limitò a dichiarare un'ispirazione ai mondi di Lovecraft.

Ad ogni modo, lo spirito del gioco, così come l'aveva concepito Raynal, doveva fondere un senso di reale inquietudine con delle caratteristiche ispirate al mondo delle avventure grafiche. Sul primo aspetto, il game designer lavorò parecchio provando a rendere inquietanti i gesti più semplici. Se la prima volta che apri una porta vieni assalito da un mostro, ogni volta che ne aprirai un'altra avrai nella testa il timore di essere nuovamente sorpreso. Ma l'atmosfera subdola e inquietante fu tutto sommato aiutata anche dalla voglia di non rendere Alone in the Dark un gioco troppo d'azione. Il protagonista Edward Carnby aveva a disposizione pochissime munizioni, perché la violenza era molto di rado la vera soluzione. Poteva essere scelta, ma si rischiava tantissimo e, soprattutto, c'era sempre un'altra via: ogni singolo mostro del gioco, per precisa scelta di Raynal, doveva poter essere evitato o sconfitto utilizzando oggetti, elementi dello scenario, scoprendo magari tattiche particolari, lavorando sull'elemento avventuroso (tantissimi indizi erano nascosti nei libri in giro per la casa). E infatti la scarsità di armi a disposizione era anche figlia della volontà di costringere il giocatore a spremersi le meningi.

La storia del gioco venne assemblata da sette persone, che trascorsero tre giorni interi a occuparsene, chiuse in ufficio senza andare a casa.

A ottobre 1992, con Raynal che era ormai talmente stremato dal ritrovarsi quasi odiare la sua amata creatura, il gioco fu completato e messo in vendita. Ed era un gioco, secondo le parole dello stesso Raynal, pieno di imperfezioni, di errori, di cose finite dentro per caso, di elementi fuori posto creati magari a inizio lavorazione e mai rimossi. C'erano bug – il duello col pirata poteva essere risolto sfruttando un glitch delle animazioni – e momenti poco riusciti, elementi promozionali realizzati in maniera raffazzonata, inquadrature poco azzeccate e che impedivano di gestire al meglio l'azione. Eppure c'era anche qualcosa di impalpabile e imprevedibile, uno spirito, una personalità, una originalità che resero grande Alone in the Dark. Raynal temeva che il suo tentativo di generare un gioco horror si sarebbe concretizzato in un fallimento pieno di situazioni ridicole e invece il mondo dei videogiochi fu sconvolto da un'avventura dall'atmosfera incredibile, capace di dare vita, seppur parecchi anni dopo e nonostante Shinji Mikami neghi con tutte le sue forze, a un genere amatissimo.

Dopo Alone in the Dark, Frédérick Raynal scelse di dedicarsi ad altro, fondò la sua Adeline Software e diede vita a un'altra serie molto amata, Little Big Adventure. Non ebbe nulla a che fare con il secondo e terzo episodio delle avventure di Edward Carnby, che anzi lo infastidirono abbastanza e, secondo lui, non rispettarono lo spirito del gioco originale, cui invece vede più vicini titoli come Resident Evil, Silent Hill e Alan Wake. Ma il primo Alone in the Dark rimane lì, nell'Olimpo, e chi l'ha giocato all'epoca lo sa fin troppo bene.