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Prison Break poteva essere un capolavoro #einvece

Prison Break prende il via da una premessa incredibilmente cretina. Lincoln Burrows è un poco di buono ma questa volta è innocente, eppure l’hanno incastrato, arrestato, condannato a morte. Suo fratello Michael Scofield butta nel cesso una vita da privilegiato per farsi arrestare pure lui, finire nello stesso carcere e organizzare un’evasione delirante. Da lì, tutto si sviluppa all’insegna delle forzature narrative, con un racconto basato al 90% su botte di culo insensate, coincidenze fuori dal mondo e quei classici personaggi (qualcuno positivo, qualcuno negativo) che sanno sempre tutto, hanno previsto sempre tutto, sapevano che in quell’esatto istante uno sconosciuto avrebbe fatto esattamente quella cosa e, quando si affrontano, son tutto un botta e risposta di “Lo sapevo”, “L’avevo previsto”, “Non hai capito”, “No, guarda, sei tu che non hai capito”. Non solo: è una serie per ampi tratti ambientata in carcere e in quel carcere ci infila ogni possibile cliché, tra il mafioso in là con gli anni, la sentinella infame, il direttore di buon cuore, il direttore stronzo, il criminale fallito e dall’animo gentile, lo stupratore pedofilo assassino. Insomma, è una fesseria.

Eppure, è andato a tanto così dall’essere un capolavoro.

La serie ideata da Paul Scheuring (che prima e dopo non ha prodotto null’altro di rilevante) andava inquadrata nell’ottica giusta. L’errore, viste le premesse, poteva essere quello di attendersi un dramma carcerario stile Oz ma la verità è che Prison Break era un frullato di azione e thriller sopra le righe, lanciato verso una destinazione ignota come un treno merci privo di conducente (e di freni). Aveva infatti dalla sua una capacità micidiale di coinvolgere e travolgere lo spettatore col suo ritmo, l’incredibile girandola di colpi di scena, il romanticismo esasperato, la voglia costante di andare avanti, andare dritto, non fermarsi mai. Certo, stiamo parlando di quindici anni fa, quando ancora si procedeva a botte da venti e più puntate a stagione, e qualche momento di stanca c’era, in parte anche figlio della scelta di trasformare in serie regolare quella che sarebbe dovuta essere una miniserie, ma le prime due annate di Prison Break furono comunque qualcosa di incredibile.

Il cast di personaggi era azzeccatissimo, un mix di sapori che si evolvevano senza tregua e facevano affezionare anche ai volti più infami. La messa in scena era – per l’epoca – eccellente, capace di trascendere gli standard televisivi in una maniera oggi eclissata da roba come True Detective ma che all’epoca era notevole, specie se consideriamo che la serie andava in onda sul nazionalpopolarissimo network Fox (ma che del resto era pur sempre quello che oltre dieci anni prima aveva mangiato in testa a tutti con X-Files). E il crescendo senza senso su cui si chiudeva il primo anno sboccò poi in maniera travolgente nella seconda stagione, con i protagonisti che erano riusciti nel loro intento ma si trovavano ancora più in trappola di prima, affrontati dal nuovo arrivo William Fichtner maiuscolo come sempre, in un racconto che improvvisamente alzava la posta, iniziando ad ammazzare personaggi importanti con grande nonchalance. Insomma, il secondo anno, se possibile, fu ancora più incredibile del primo. O quasi. Perché poi arrivarono le ultime tre puntate.

Lui dove lo metti sta.

Leggenda vuole che Scheuring avesse deciso di chiudere tutto al termine del secondo anno ma Fox, visto il successo, gli abbia imposto di andare avanti. Magari è autosuggestione, ma è veramente difficile non vedere questa cosa riflessa nel modo in cui si evolve il racconto. A tre puntate dalla fine, tutti i fili narrativi stanno giungendo alla loro perfetta conclusione, le varie storie stanno trovando un epilogo sensato, si sta chiudendo il capolavoro. E poi? E poi, siccome bisogna proseguire, subentra un’insopportabile girandola di cazzate, i personaggi cominciano a comportarsi in maniere che contraddicono completamente la loro natura e ci si inventa l’idea più cretina possibile per tirare avanti, con una terza stagione che ridefinisce il concetto di minestra riscaldata, sbaglia tutto nella scelta dell’attrice che dovrebbe costituire la nuova minaccia e ha pure la sfiga di vedersi segare le gambe dallo sciopero degli sceneggiatori quando dovrebbe davvero decollare.

Ed è l’abisso. La quarta stagione propone qualche spunto interessante, introduce un paio di cattivi azzeccati (a Michael Rapaport non so mai dire di no) e ci prova, ci prova davvero, ma non trova mai la chiave giusta, spreca malamente quanto ha di buono e manda tutto a catafascio con una seconda metà in cui i colpi di scena sfondano il muro della cazzata, gli sceneggiatori trovano il modo di stuprare le caratterizzazioni di quei due o tre personaggi che ancora si salvavano e a un passo dalla fine si rilancia con l’ennesimo colpo di scena completamente a caso, andando oltre quello stato mentale in cui non sai se ridere o piangere. Ridi e basta.

La cosa incredibile? Si riprende tutto sul finale, che segna un deciso, duro, coraggioso ritorno a quel romanticismo esasperato che tanto bene aveva fatto alla seconda stagione. Improvvisamente, così, all’ultimo momento, Prison Break ha un sussulto d’orgoglio, ritrova se stesso e chiude nel miglior modo possibile. Un modo che arriva troppo tardi e risulta anestetizzato dalla merda ingoiata fino a lì, ma che è e rimane comunque un gran bel finale, un oggetto prezioso a cui aggrapparsi con quel pizzico di affetto. Giusto? No, sbagliato. Perché poi c’è The Final Break, che riassumo riportando la definizione di un amico: “Un’ulteriore tazza di merda, a mo' di ammazzacaffè, che c'hanno propinato dopo due stagioni da coglioni a terra.”

Questa specie di orripilante episodio lungo aggiuntivo, che si appoggia sull’idea del carcere femminile che era stata ipotizzata per uno spin-off mai prodotto, è un disastro leggendario, che non solo funziona malissimo sotto ogni punto di vista ma ha anche la faccia da culo di cancellare quel bel finale della quarta stagione, riscrivendolo in peggio e rovinando tutto.

Maledetti.

Vi dovete vergognare.

E insomma, dopo questa scarica di bile, che dovrei dire? Che, se lo chiedete a me, Prison Break merita lo stesso. Certo, sono passati dieci anni, non l’ho mai riguardato e magari è invecchiato male, ma ne sono abbastanza convinto: quelle prime due stagioni sono uno spacco ancora oggi e, se non l’avete mai fatto, vi consiglio di guardarle, fermarvi alla diciannovesima puntata del secondo anno e poi guardarvi gli ultimi dieci minuti dell’ultima puntata della quarta stagione. Prendete per buono tutto quello che non capite perché c’è un buco in mezzo e tenetevi quel capolavoro mancato. Oppure, boh, guardatevela tutta, se siete fatti così, ma io vi ho avvisati.

P.S.
No, il revival del 2017, che per completezza butta nel cesso pure il finale di The Final Break, non l’ho guardato. Ammetto curiosità, eh, ma insomma. Abbiate pazienza.

Questo articolo fa parte della Cover Story dedicata all’escapismo, che potete trovare riassunta a questo indirizzo.