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Psycho e la casualità degli eventi

Il celebre psichiatra svizzero Carl Gustav Jung sosteneva la teoria della sincronicità, secondo la quale nulla accade per caso. Personalmente, sono d’accordo con Jung solo in parte. Se determinati avvenimenti è destino che prima o poi accadano, in molti altri casi sono convinto che certe cose accadano per puro e semplice caso.

E quando penso a quanto conti la casualità nella vita, spesso mi capita di pensare a Psycho.

Marion Crane, giovane e avvenente segretaria di un’agenzia immobiliare, ha appena passato la sua pausa pranzo (presumibilmente lunga) in un motel, in compagnia del suo amante, Sam Loomis, proprietario di un negozio di ferramenta, un uomo sommerso dai debiti ereditati dal defunto padre ai quali si sono aggiunti gli alimenti da pagare all’ex moglie. Sam vorrebbe sposare Marion, ma non può farlo a causa della sua situazione economica, e la distanza che li separa – lei vive a Phoenix, in Arizona, lui a Fairvale, in California – rende il tutto molto complicato. Questa situazione rende infelice Marion, ma non se la sente di troncare la relazione con Sam. Rientrando in agenzia dopo la pausa pranzo, il capo di Marion le affida il delicato incarico di depositare in banca quarantamila dollari in contanti, denaro di un facoltoso cliente intenzionato ad acquistare una casa per la figlia come regalo di nozze. Marion si trova davanti a un bivio: lasciarsi tentare dall’idea di rubare quella grossa somma che sembra quasi piovuta dal cielo nelle sue mani e provare ad afferrare la vita che sogna, oppure continuare ad essere infelice nella sua routine, fatta di lavoro e incontri occasionali con il suo amante.

Se avesse scelto con razionalità di depositare il denaro in banca e tornarsene a casa, Marion forse non avrebbe mai avuto la possibilità di tentare di costruirsi una vita con Sam. Forse avrebbe trovato un altro uomo. Sicuramente sarebbe ancora viva.

Invece, scegliendo di fare una pazzia per amore, Marion decide di mandare tutto all’aria ed è per puro caso che si ritroverà nel luogo in cui passerà le ultime ore della sua vita. Così come quell’enorme somma di denaro è arrivata nelle mani di Marion per puro caso, lo stesso caso ha voluto che Marion sbagliasse uscita lungo la strada e si ritrovasse costretta, causa temporale, a fermarsi al Bates Motel.

Insomma, senza la casualità degli eventi, la trama di Psycho non esisterebbe.

Vidi Psycho per la prima volta più o meno quando avevo dieci anni. Ho ricordi molto vaghi, rammento solo che nell’occasione ero a letto con l’influenza e stavo da mia nonna paterna, stavo guardando un film comico in televisione e mi ero addormentato, e, risvegliandomi, mi ritrovai catapultato mio malgrado nella visione di Psycho. Mi risvegliai proprio durante la celebre scena dell’assassinio di Marion Crane sotto la doccia, e probabilmente furono proprio le urla della malcapitata a destarmi dal sonno. Insomma, non capii nulla del film sia a causa della febbre alta, sia a causa del fatto che non lo vidi dall’inizio, però mi rimasero terribilmente impresse sia la sagoma della signora Bates che brandiva un coltellaccio sia quella vecchia e spaventosa casa in cima alla collina, tant’è che ogni volta che mi è capitato di passare vicino a qualche vecchia casa fatiscente ho sempre temuto ci fosse qualcuno alla finestra che mi stava osservando. E non escludo che qualcuno in Capcom ne abbia tratto ispirazione per la casa della famiglia Baker di Resident Evil 7.

Negli anni a venire, mi sarei costruito una solida cultura a base di cinematografia horror ma Psycho l’ho rivisto solamente – e per intero – solo una decina d’anni fa. Credevo che a distanza di molti anni, e trattandosi di un film così vecchio (stiamo parlando del 1960), l’opera di Alfred Hitchcock non potesse suscitarmi più alcun effetto. E invece no.

La prima cosa a cui ho pensato dopo aver visto scorrere i titoli di coda, è quanto riesca magistralmente Psycho a spiegare a chi lo guarda come si costruisca una storia di qualità, molto di più di quanto non riesca a fare un verboso manuale di sceneggiatura da diverse centinaia di pagine. Dopo il primo quarto d’ora di visione, viene naturale pensare di trovarsi davanti a un thriller o a un giallo e che la storia sia incentrata sul furto della somma di denaro da parte di Marion. E proprio su Marion, che sembra essere la classica brava ragazza che si trova coinvolta in qualcosa che capisce essere più grande di lei, lo spettatore comincia ad avere dei dubbi: le voci che sente mentre è in fuga sono dettate solo dall’ansia e dallo stress o c’è qualcosa di più? E fin dove potrebbe spingersi Marion dopo aver rubato il denaro?

Non si fa in tempo nemmeno ad arrivare a metà del film che la prospettiva cambia completamente: Marion muore e quella grossa somma di denaro che sembrava il fulcro di tutto scompare insieme al suo cadavere nella palude (fu proprio Alfred Hitchcock ad introdurre il concetto di McGuffin, quell’elemento che nella narrazione sembra centrale ma passa improvvisamente in secondo piano ad un certo punto della storia). Psycho sconfina nel genere horror, con la brutale sequenza della doccia che sembra interminabile, degna del miglior film slasher, e la comparsa di un efferato assassino psicopatico, la signora Bates. Solo negli ultimi minuti del film la prospettiva dello spettatore viene ribaltata nuovamente, per l’ultima volta, con la rivelazione che l’assassino in realtà è Norman Bates, nella cui mente convivono sia la sua personalità che quella della dispotica madre che lui stesso aveva ucciso dieci anni fa insieme all’amante, presenza che lui non tollerava in quanto cresciuto come se non ci fossero altre persone al mondo oltre a lui e la madre.

Psycho, nella sua visione completa ed integrale, mi colpì così tanto che lessi praticamente tutti i vari approfondimenti e retrospettive disponibili, scoprendo aspetti e particolari che non avevo colto, o colto solo in parte: la forte caratterizzazione erotica della pellicola (con la scena iniziale che vede Marion e Sam in albergo durante il loro incontro e quella in cui Marion si spoglia spiata da Norman dal buco della serratura), gli uccelli imbalsamati nell’ufficio di Norman che rappresentano la madre che lo controlla con il suo sguardo severo, e soprattutto il tema del doppio, percepibile sin dai titoli di testa con le linee che si intersecano e poi a seguire con la presenza di una grande quantità di specchi e l’uso sapiente di inquadrature in cui chiaro e scuro vanno di pari passo, simboleggiando le due anime presenti in Norman. Venni poi a conoscenza della complicata storia produttiva del film, con Hitchcock che incontrò notevoli difficoltà prima di poter avere il via libera per la realizzazione della pellicola, alla quale dovette contribuire finanziariamente in maniera molto consistente, dovendo comunque ridurre i costi al minimo, girando il tutto in circa trenta giorni e in bianco e nero. Nonostante l’accoglienza fredda da parte della critica, il maestro del brivido non dovette aspettare molto per avere la meritata rivincita, sia dal punto di vista degli incassi (di molto superiori al budget del film) che da quello dell’approvazione del pubblico, che rese in breve tempo Psycho già un cult e una pietra miliare della cinematografia di quel periodo. Anche riguardandolo oggi, a distanza di sessantaquattro anni, Psycho si mangia almeno due terzi dei thriller moderni (ma anche degli horror, direi), e ad ogni visione mi capita di notare dei piccoli particolari che prima mi erano sfuggiti, come il ghigno malvagio di Norman Bates dopo aver parlato con il detective Arbogast, appena percettibile, ma che sembra voler avvertire lo spettatore di ciò che lo attende. Durante il mio periodo da pendolare, lessi anche il romanzo di Robert Bloch da cui venne tratto il film, che differiva per un livello di violenza ancora più efferato e un Norman Bates esteticamente differente dal suo interprete, Anthony Perkins. Nel libro Bates viene descritto come un uomo di mezza età, grasso, calvo e con occhiali spessi.

La fama di Psycho è cresciuta prepotentemente nel corso degli anni e la pellicola del maestro Hitchcock è stata citata più volte nella cultura popolare, da I Simpson, in cui venne creata una sorta di parodia della scena della doccia, fino a The Big Bang Theory, in cui si ironizzò sul rapporto fra Howard e sua madre.

Ventitré anni dopo l’uscita dell’originale, arrivò nei cinema statunitensi Psycho II, primo sequel di quella che sarebbe diventata una vera e propria saga, che vide nel giro di pochi anni la realizzazione di Psycho III e del prequel Psycho IV, con Anthony Perkins tornato a vestire i panni di Norman Bates in ogni film della serie, consacrandosi come vera e propria icona horror. I film vennero universalmente considerati di molto inferiori all’originale. Di questi, vidi solo Psycho II, durante la pandemia, e lo trovai un seguito complessivamente buono, nonostante fosse palesemente forzato (oltre al fatto di essere assolutamente non necessario, come la maggior parte dei seguiti).

Nel 1998, periodo in cui non era ancora nata la tendenza selvaggia al remake che abbiamo oggi, Gus Van Sant girò appunto un remake “inquadratura per inquadratura” del primo Psycho. Un omaggio a Hitchcock che ha degli elementi visivi e un’estetica di tutto rispetto ma totalmente privo della tensione dell’originale, anche perché il ruolo di Norman Bates venne affidato a Vince Vaughn, attore forse troppo associato al genere comedy per risultare convincente in quello di un assassino psicopatico.

Dopo un primo tentativo fallito nel 1987 di dar vita a una serie TV (venne prodotto solo il pilot, arrivato qui in Italia con il titolo Il Motel della Paura), nel 2013 fece il suo esordio Bates Motel, una sorta di serie prequel di Psycho ambientata ai giorni nostri, incentrata sul rapporto morboso fra Norman e sua madre. La serie durò ben cinque stagioni e viene universalmente considerata un buon prodotto. Io vidi solo la prima stagione e la trovai un po' meh, ma c’è a chi piace, quindi de gustibus.

Al di là di tutto, Psycho rimane ancora oggi un film notevole e attualissimo, che al di là degli elementi thriller e orrorifici (che sono stati d’ispirazione praticamente per tutto ciò che sarebbe stato prodotto dopo sul tema, compresi altri titoli di culto come il primo Halloween e il Silenzio degli Innocenti) parla di quanto ci si possa sentire frustrati e incastrati in vite che non ci danno più stimoli (come nel caso di Marion Crane) o di quanto la solitudine possa ucciderci lentamente ogni giorno, esattamente come farebbe il peggior assassino possibile (perché Norman Bates era fondamentalmente un uomo molto solo). La cosa più inquietante, soprattutto in tempi tutt’altro che tranquilli e pacifici come questi, è la teoria secondo la quale in ognuno di noi c’è un lato oscuro che potrebbe prima o poi uscire fuori. Ma è meglio non pensarci.

Un film che, sessantaquattro anni dopo, è ancora in grado di colpire forte come e più di prima.

Questo articolo fa parte della Cover Story “I migliori spaventi della nostra vita”, che potete trovare riassunta a questo indirizzo qui.