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Salta, salta, caro Q*Bert, che son passati quarant'anni! | Racconti dall'ospizio

Racconti dall’ospizio è una rubrica in cui raccontiamo i giochi del passato con lo sguardo del presente. Lo sguardo di noi vecchietti.

Il fatto di aver sperimentato in prima persona la nascita dei videogiochi come fenomeno di massa, durante i primi anni ‘80, mi fa sentire inevitabilmente vecchio. Per forza di cose è tutto un susseguirsi di anniversari più o meno importanti, quarant’anni di qui, quarant'anni di là, lo so, sono vecchio, ma non fatemelo pesare così tanto!.

Comunque tutte queste ricorrenze hanno anche un lato positivo: farmi ricordare con tanta nostalgia e gli occhi a forma di cuoricino momenti della mia vita che  probabilmente allora mi sembravano normalissimi, ma che ripensandoci oggi - ovviamente - assumono un gusto tutto particolare.

Il 1982 in particolare, come già riportato qui, è stato un anno particolarmente prolifico di capolavori immortali come Pole Position, Zaxxon o addirittura Pitffal! (a proposito, qui trovate il post-mortem acconcio), ma tra tutte queste perle non è possibile dimenticare uno dei personaggi più strani ed assurdi della storia dei videogiochi: Q*Bert.

Il curioso personaggio a sfera con nasone e gambette nasce, al contrario di quanto pensassi all’epoca, non nel paese del Sol Levante, ma negli Stati Uniti d’America grazie ad una società, la Gottlieb, che poco aveva a che fare fino a quel momento con i videogiochi, ma era una colonna portante del mercato dei flipper.

Al tempo Gottlieb era di proprietà della Columbia Pictures, e quando la corporation americana fu acquistata da Sony anche i diritti di Q*Bert finirono nel calderone dei creatori di PlayStation. Questo spiega per esempio perchè Q*bert è presente in Pixels (prodotto da Sony) mentre per altre comparsate (come per esempio in Ralph Spaccatutto) è stato ceduto su licenza.

Ora non ricordo esattamente cosa pensai la prima volta che misi una monetina nel cabinato di Q*Bert, ma sicuramente in poco tempo diventò uno di quei giochi dove se ero in zona una partita la dovevo fare. Sarà per la grafica simpatica, sarà perché il gameplay era tutto sommato molto semplice nelle sue basi, ma un giro non mancava (quasi) mai. Il gioco in realtà aveva una curva di apprendimento molto rapida, alla fine bisognava solo spostarsi da un riquadro all’altro, ma come ahimè capitava con molti giochi dell’epoca, diventata molto difficile nel giro di pochi livelli.

I problemi erano rappresentati dai nemici, che iniziavano a infastidire il giocatore in maniera blanda per poi diventare decisamente molesti, ma soprattutto dall’aumentare della frenesia del tutto correlata con l’aspetto isometrico della grafica. Paradossalmente era quasi più semplice morire perché si saltava nel vuoto presi dalla foga di fuggire da un nemico che non a causa del contatto con il nemico stesso.

Sinceramente, non sono mai stato bravo a Q*Bert, è uno di quei titoli a cui mi piaceva fare una partita ma non aveva sicuramente su di me l’ascendente di altri giochi come Galaga, Battlezone o Pole Position, appunto. Il grande vantaggio però di avvicinarsi al cabinato del titolo con il pupazzo arancione come protagonista era principalmente legato alla possibilità di condividere un posto come la sala giochi, solitamente popolato da maschi di varie estrazioni sociali, con qualche ragazza, anche se al tempo ero ovviamente un po’ piccolo per pensare di poter “combinare”.

Q*Bert, come i più grandi titoli dell’epoca, è stato ovviamente portato su qualsiasi sistema casalingo, dalle primissime console (ColecoVision, Intellivision, Atari 2600) fino ad approdare sull’AppStore di Apple.

Che dire, alla fine probabilmente Q*Bert ha potuto attraversare quasi indenne otto lustri più per la simpatia del suo protagonista che per il gioco in se, ma è giusto così: una buona caratterizzazione, a volte, vale più di un concept azzeccato.