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Quackshot era facile ma difficile ma facile ma difficile ma facile ma difficile | Racconti dall'ospizio

Racconti dall’ospizio è una rubrica in cui raccontiamo i giochi del passato con lo sguardo del presente. Lo sguardo di noi vecchietti.

QuackShot o, se preferite, QuackShot Starring Donald Duck o, se preferite, lo scopro ora, I Love Donald Duck: Guruzia Ou no Hihou, fu il secondo in una serie di videogiochi a tema Disney pubblicati da Sega su Mega Drive all'inizio degli anni Novanta. C'erano anche quelli per Master System, ma io il Master System, a quel punto, l'avevo già venduto per comprarmi il Mega Drive e poi me pentii e tanti anni dopo lo ricomprai e sto divagando. Dicevo. Era una serie di tre giochi notevolissimi, clamorosi per qualità grafica, gameplay, battage pubblicitario e accoglienza da parte di critica e pubblico. Volendo, potremmo includere anche la pecora nera, quel Fantasia sempre prodotto da Sega ma sviluppato da Infogrames e venuto fuori un mezzo cesso anche a causa di traversie produttive. Ma facciamo finta di niente. I tre giochi Disney per Mega Drive di quel momento erano quelli che ricordiamo con amore: Castle of Illusion, con protagonista Topolino, Quackshot, con protagonista Paperino, e World of Illusion, con entrambi.

E dei tre, QuackShot era, se non nei fatti, perlomeno nei miei ricordi, quello che mi stava più simpatico, pur essendo il gioco più esile e meno amato dalla critica. Partiamo da quello, i ricordi: prima di rigiocarci in preparazione a questo articolo, per me, QuackShot era un gioco visivamente adorabile, di cui mi era rimasto in testa praticamente solo il livello iniziale, con la città e quella musichetta irresistibile. Ricordavo vagamente il tema avventuroso in stile Indiana Jones, un impianto di gioco sostanzialmente esile e lineare rispetto a quello dei due Illusion e la sensazione che fosse piuttosto facile. Ricordo anche che all’epoca ci giocai tantissimo, condividendo l’esperienza col migliore amico videogiocatore dell’epoca, e che lo finii centomila volte, come del resto era normale, quando i giochi duravano poco e ne avevi pochi. E lo conservo ancora gelosamente sullo scaffale. Fine. Poi, l'altro giorno, l'ho ripreso in mano, perché mi sono reso conto che volevo scrivere questo articolo ma la mia perdita progressiva di memoria rischiava d'impedirmelo.

Solo cuoricini, per le confezioni di una volta.

L'ho anche proposto a mia figlia di quattro anni e mezzo, spiegandole che era un gioco di quando ero ragazzino, che era il gioco di Donald Duck e che dovevo giocarci per, ehm, lavoro. Ha mostrato entusiasmo e abbiamo deciso di procedere. So che mi farò odiare da alcuni ma non avevo voglia di attaccarmi al catodico nello stanzino, quindi ho lasciato stare il Mega Drive e ho tirato fuori il Retron 5, che ho agilmente collegato al plasma, funzionava una crema e mi ha lasciato giocare alla grande, per altro comunque usando il pad originale del Mega Drive. Oltretutto, il save state automatico mi ha salvato la vita quando abbiamo dovuto interrompere per cenare. Fatemi causa.

Ed è stato bellissimo. Io giocavo, riscoprivo un classico della mia pre-adolescenza o giù di lì, tiravo qualche santone nei passaggi più tosti, mi divertivo e chiacchieravo con lei. Lei osservava ammaliata, commentava, mi incoraggiava, mi faceva le paternali, si lanciava in discorsi motivazionali quando morivo troppe volte nello stesso punto e si copriva gli occhi tesissima quando Donald scappava dalle fiamme saltando fra un crepaccio e l'altro. Che meraviglia.

Tra l'altro, rigiocando a QuackShot, mi si è concretizzata fra le sinapsi una considerazione che per qualche motivo già stavo facendo nei giorni scorsi, ripensando al fatto che nei miei ricordi sono facili giochi che molti considerano tosti, come Kid Chameleon o Turrican. Mi era nata quando, una decina di giorni fa, ho giocato un po' a Project X per Amiga su Antstream. Mi sa che all'epoca, la forma mentis sviluppata nella Tana delle tigri dei coin-op e degli 8 bit era tale che giudicavo facile qualsiasi gioco fosse semplicemente possibile finire senza impazzire, magari perché offriva i crediti infiniti o perché, pazzesco, aveva un design che non sfiorasse il sadico. Mentre i giochi che consideravo dalla difficoltà normale erano quelli che mi facevano patire le pene dell'inferno ma in qualche modo riuscivo prima o poi a completare. Infine, i giochi difficili erano quelli per i quali non era nemmeno lontanamente concepibile arrivare in fondo. Sì, mi sa che la categorizzazione era un po' quella. Toh, magari le cose erano un po’ sfumate fra la seconda e la terza categoria, ma penso proprio che tutti i giochi che ricordo come facili fossero tali solo perché ero vittima di una sorta di sindrome di Stoccolma, rapito innamorato dei game designer figli di buona donna, convinto che, se riuscivo a finire un gioco, era per forza di cose troppo facile.

Ci ho ripensato mentre giocavo a QuackShot, anche perché mi sono reso conto di una cosa: ricordandomelo come un gioco facile ed essendo il gioco di Paperino, mi ero immaginato di poter far provare a giocare anche mia figlia, che a quattro anni e mezzo si destreggia abbastanza con Yoshi's Crafted World, ma no. Non credo sarebbe in grado di andare oltre il secondo livello di QuackShot.

E attenzione, non è che sia un gioco impossibile, anzi. A conti fatti, per gli standard da platform 2D contemporaneo, ha un livello di difficoltà assolutamente medio e non presenta neanche particolari legnosità o asperità dell’epoca a cui adattarsi. Si lascia giocare piacevolmente, ha qualche picco di difficoltà che, nell'economia generale, ci sta, ha un solo punto che potremmo qualificare come disonesto, con un pozzo di lava che ti accoglie all'improvviso da fuori dall'inquadratura, e ha una manciata di enigmi piuttosto sfiziosi, certo resi infami dal doverli risolvere mentre ti sta piovendo la morte addosso, ma comunque stimolanti. Poi, sì, la chiave (del considerarlo facile all'epoca, normale oggi) sta anche nel fatto che, con una scelta non scontata per quei tempi, offre dei checkpoint parecchio comodi e i “continua” infiniti, con la sola penalità di dover ripartire dall'inizio del livello quando li si utilizza. Non li ho usati molto, più che altro negli ultimi due livelli, ma tant'è, senza la possibilità di continuare, il bestemmiometro si sarebbe fatto sentire. Suppongo costituissero la concessione obbligatoria al pensiero che, essendo il gioco di Paperino, il pubblico si sarebbe allargato – per età e dimestichezza – al di fuori del target degli smanettoni.

In tutto questo, comunque, devo dire che QuackShot mi ha sorpreso, rispetto ai ricordi, e non solo nella difficoltà. Intanto, come un po' per tutti i migliori giochi per Mega Drive e al di là di ovvie considerazioni legate alla risoluzione, sul piano visivo gli anni pesano quasi solo relativamente ai fondali, abbastanza spogli, mentre i personaggi e le animazioni sono ancora molto accattivanti. Inoltre, la struttura di gioco è meno piatta di quanto ricordassi. L’impostazione da arcade adventure a livelli interconnessi tramite mappa planetaria, con enigmi e “ostacoli” che ti costringono ad abbandonare un livello a metà per cercare un oggetto altrove, è senza dubbio sfiziosa e ben integrata nell’omaggiare Indiana Jones, anche se, nei fatti, si tratta più che altro di una scelta formale, dato che poi il tutto si svolge in maniera molto lineare e guidata, tra l’altro evitando completamente il backtracking. L’azione è però piuttosto variegata, ci sono tante situazioni diverse e una manciata di armi a disposizione e l’inserimento degli enigmi che menzionavo prima costituisce un bel diversivo. Oltretutto, il sistema di controllo è davvero solido e, nella sua semplicità, risulta mooolto meno legnoso rispetto a quelli di tanti colleghi dell’epoca. E ancora: funzionano i boss, funziona l’atmosfera, Paperino è riprodotto alla grande (quando sclera è delizioso) e la sezione finale, che abbandona ogni remora e omaggia spudoratamente le fasi conclusive di Indiana Jones e l’ultima crociata, è una gioia.

Insomma, oh, bene. Mi sono divertito, si è divertita Vanessa e, una volta tanto, non mi sono pentito di aver rimesso mano a qualcosa che amavo da ragazzino.

Questo articolo fa parte della Cover Story dedicata all’escapismo, che potete trovare riassunta a questo indirizzo.