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Racconti dall'ospizio #14 - Ghouls’n’Ghosts e le schede tombali

Racconti dall’ospizio è una rubrica in cui raccontiamo i giochi del passato con lo sguardo del presente. Lo sguardo di noi vecchietti.

Quasi tutto quello che ho fatto, che faccio e che farò è condizionato dalla paura della morte – o, per lo meno, dallo sforzo cosciente di scendere a patti con la sua ineluttabilità. Allo stesso modo, posso affermare che tutto quello che avrei dovuto fare e non ho fatto, non faccio e non farò è da imputarsi agli aspetti più deteriori della mia persona, che sconsideratamente si concede rimozioni di compiti importantissimi, forse perché, quando il soprappensiero della morte si fa insostenibile, l’animale che mi porto dentro si rituffa impaurito dentro la boscaglia dell’incoscienza.

Coscienza. Incoscienza. Vita. Morte. Nel mezzo del cammino della mia vita, ho sentito il bisogno di un memento. Di una pietra miliare, anzi, tombale, che mi ricordasse costantemente il mio compito, il mio destino, daa dove vengo-oo, dove vado-oh.

Tutto questo solo per imbastire scuse e motivazioni sufficienti ad acquistare una stracazzo di scheda da sala giochi originale di Ghouls’n’Ghosts. Pensa te che testolina contorta.

Però ora è lì, in camera mia, e sembra davvero un monolito, un artefatto alieno, una lapide analogica venata di arcaiche iscrizioni digitali provenienti da chissà quale civiltà sepolta, da chissà quale continente alla deriva. E funziona. No, non solo nel senso che la posso impiegare per giocare effettivamente a Ghouls’n’Ghosts. Funziona come memento che mi aiuta a ricordare da dove vengo-oo. E dove vado-oh. E anche dove sono: a casa mia, con un ingombro in più sul tavolo della cucina e un ingombro in meno nel portafogli.

Per quanto l’hardware sia originale, la scheda faceva in origine girare Street Fighter II’ CE. È stata convertita dal mio vizioso spacciatore.

Va anche specificato, per inciso, che questo mini-catafalco di scheda da sala giochi è solo una fra le lapidi della memoria del mio personale cimitero arcade, che annovera oramai una trentina di esemplari – tutti videogame che ho amato alla follia nei miei anni Ottanta, capolavori di game design che hanno forgiato i miei gusti e le mie inclinazioni creative. Sì, sì, c’è anche Bubble Bobble, insuperabile regalo degli amici per il mio quarantesimo compleanno. No, Super Mario no, ho preferito filologicamente procacciarmelo in versione Famicom, ma non divaghiamo in quella che è già una divagazione. Però ho Pengo e Penguin-Kun Wars, perché la gente tende a sottovalutare l’importanza cosmica di topi, rane e soprattutto pinguini. Insomma, sono sepolto vivo da circuiti stampati che, avendo mediamente trent’anni, non sono esattamente miniaturizzati. Come Fantozzi si ritrovava armadi e comode stracolmi di pane, così la mia casa deborda di robe che, per farvi capire, hanno ciascuna l’ingombro di una scheda madre di un 286. Senza case o chassis, però, così sono anche tragicamente fragili e non sovrapponibili.

Si tratta di acquisti generalmente non troppo costosi: principalmente compro i bootleg, copie d’epoca dei giochi originali spesso create nelle cantine nostrane da ingegneri informatici desiderosi, in pieni anni Ottanta, di arrotondare lo stipendio in maniera sicura e illegale, per poi foraggiare mogli frustrate da questi mariti tutti schede e cantina. Copiavano gli schemi dei circuiti, ci saldavano sopra i processori, le RAM, le ROM, i condensatori ceramici e elettrolitici e quant’altro.

C’è bootleg e bootleg, però. Alcuni sono funzionalmente identici all’originale (dovreste sentire la stereofonia del mio Gyruss,  i vostri chakra più bassi comincerebbero a vorticare come galassie nascenti!). Altri sono da evitare come il mal francese. Di certo, nelle italiche sale giochi, si giocava per la maggior parte su copie pirata, difficilmente distinguibili dagli originali giacché a) custodite da un roveto di cavi all’interno dei cabinati b) e chi diavolo l’ha mai vista una scheda originale, all’epoca, per poter fare un confronto?

Tutto può essere pornografia. Tutto.

Ghouls’n’Ghosts è una scheda che deve essere acquistata originale, per esempio. Perché? Perché l’audio dei bootleg è veramente pessimo su gran parte delle schede appartenenti allo standard Capcom System 1 (CPS1). Oh, non sono riusciti a copiarlo a puntino. Succede. Eravamo agli inizi del mondo a sedici bit. Capcom aveva reso le cose belle complicatielle. Far comunicare i diversi processori tra loro, per i bootlegger, si dimostrò davvero complesso. Rallentamenti del gioco (tipo quando i maiali vomitano acido, non vorrete mica che vomitino in bullet time, poveretti). Audio impastatissimo. Non parliamo nemmeno di quanto fa schifo quello di The Punisher, peeer carità.

E Ghouls’n’Ghosts ha una fra le più struggenti colonne sonore nella storia dei videogiochi. Una serie di mirabili composizioni di Tamayo Kawamoto, già allora una delle più raffinate musiciste che mai avessero prestato la loro sensibilità al mondo dei videogame.

“E allora giòcatelo sul MAME, ciula badula che non sei altro. Non lo conosci il MAME? È un software che tramite emulazione scatena l’erezione del retrogamer e scariki le ROM gratis e” E GRAZIE TANTE no ma GRAZIE TANTE per questo sapido consiglio. Cioè, uno fa tutta questa fatica per seppellire e nel contempo esaltare il proprio fanciullino pascoliano interiore al fine di fondere il significato della vita e della morte in un insieme organico lungo il transito dell’apparente dualità e voi? VOI? Il MAME io lo SO. Ho scritto la tesi di laurea sul MAME, beh, prima del creatore del MAME stesso. (Tra l’altro io anche la spedii prontamente, tipo super fanboy molesto, al leggendario Nicola Salmoria, e lui manco mi citò nella bibliografia della sua. Ci restai male! All’epoca mi deprimevo davvero per cazzate, eh!).

Però guardiamoci in faccia. Il MAME è uno strumento. È il migliore strumento elettronico che io abbia mai utilizzato insieme, boh, al Soundtracker su Amiga e a LSDJ sul Game Boy. Il MAME permette di fare cose fantastiche. Con Fabio Kenobit Bortolotti  organizziamo serate nei locali, col MAME. La gioia retrò permea gli animi di ragazze e ragazzi più giovani sia dei coin-op emulati, sia del MAME stesso, tra un po’. Ma arriva un punto nella vita in cui devi trovare il tuo vinile, il tuo single malt, la tua pipa di terracotta del settecento, quel qualcosa che ti rende degnamente vecchio e noioso, THAT SPECIAL SOMETHING che racconterai a persone che non conosci a una festa ottenendo reazioni dall’incuriosito al “ma questo è un coglioncione” (al “ma perché non usi il MAME”, ça va sans dire).

Ecco, le schede da sala giochi per me sono questo. E ne sono perfettamente, chirurgicamente cosciente. Posso lanciarmi a sostenere che su hardware originale i giochi si apprezzano meglio perché è un tale sbattimento tra schede, cabinati, supergun (l’accrocchio per giocarci a casa senza un cabinato intero, disponendo di arcade stick e un televisore normale). Potrei spiegarvi dell’odore che fanno le schede quando si scaldano, l’odore della cantina di qualcun altro, l’odore del magazzino sul retro della sala giochi, l’odore del cristiddio deve essere saltata una resistenza. Potrei parlarvi della frequenza a 15 hz dei tubi catodici Hantarex e di come minime variazioni di voltaggio possono fare la differenza tra un RAM error e una partita perfetta a Lady Bug. Potrei dirvi che l’estrema fragilità di questi antichi manufatti vi fa palpitare e ricordare che ogni partita potrebbe essere l’ultima, così come ogni respiro. Potrei insomma infarcirvi di una serie di minchiate di altissimo livello che sono allo stesso tempo, appunto, fregnacce e verità d’una profondità poetica, quasi mistica.

È solo quando si attribuisce consapevolmente una valenza simbolica all’effimero che davvero si abbraccia la propria umanità, che si cavalca l’onda del ciclo imperituro dell’esistenza, che si sconfigge la vanità delle vanità accettandone la funzione esperienziale. Quindi mettetevi pure a collezionare Miominipony o i 45 giri de Il Mago, la Fata e la Zucca Bacata. Oppure mettevi a fare a maglia perché lo faceva la nonna. O fatevi l’insegnante di Kundalini Yoga perché se lo faceva il nonno. Ma fatelo con la consapevolezza che è tutto inutile. Allora diventerà utile. Cavalcate il brivido elettrico che scuote la vostra spina dorsale. Connettetevi al vostro passato, a ciò che eravate, respirate il profumo delle vostre primavere d’infanzia, la violenza dell’afa delle vostre estati, trovate il modo più apparentemente assurdo e personale che vi viene in mente, perché sarà solo vostro e sarà ancora più vostro quando gli altri non lo capiranno, e ancora ancora più vostro quando qualcuno, pur non capendone la forma, ne intuirà la funzione. Amate quel qualcuno, perché probabilmente vi ama.

Siate più indulgenti col vostro io passato, per esserlo un po’ meno con quello presente. Non potete cambiare ciò che siete stati, ma potete fare di tutto per lavorare sul presente. Sempre se riuscite ancora a muovervi con la casa piena di miominipony, 45 giri, maglioni e insegnanti di Kundalini Yoga. Può diventare intricato. Ma un po’ di consapevole sofferenza aiuta a mettere a fuoco la gioia.

La potenza di una scritta MADE IN JAPAN stampata su una printed circuit board mi lascia allibito.

Ehi, questa sbrodolata qui sopra sarebbe stata un eccellente finale per il pezzo. Solo che non ho ancora parlato davvero di Ghouls’n’Ghosts, degli ippocastani in fiore del 1989 e del fortunoso recupero della scheda grazie all’ennesimo supereroe mascherato che ho avuto la fortuna di incontrare in questo mondo devastato dalle esplosioni nucleari. Facciamo che, se proprio proprio vi va, ve lo rileggete al termine della parte che segue ed è fatta.

“Ippocastani in fiore/sento l’amore/vedo il mio posto sull’autobus/salgo e timbro il biglietto/sono perfetto/il controllore non mi darà multe”.

Così recita il testo di una delle mie prime canzoni, fortunatamente inedita insieme a qualche altro centinaio di pezzi analogamente ameni. Però sì. Maggio 1989. Ho quindici anni. Ippocastani in fiore in via Rossetti, a Trieste, sull’autobus, terminata scuola. Primavera, le giornate che si allungano e anche chissenefrega perché io ora mica vado a pranzo come sensatamente dovrei fare, no, io faccio un salto in sala giochi. Al “Minicar”. Via Crispi bassa. Mmsì, è presto, guardo giusto se c’è qualche gioco nuovo e schizzo a casa, poi il pomeriggio torno.

Oh.

Ma che è Ghost’n’GoblinNO MIO DIO NO NON È GHOSTS N GOBLINS è i SEGUITO ne parlavano su TIGIEMME giusto il mese scorso dicevano che è bellissimo e mio dio è veramente bellissimo è coloratissimo eppure così cupo ma come fa ah no è che c’è questo nero che serpeggia nei fondali e fa risaltare i colori in primo piano anche se non è che sianNO ASPETTA MA COS ha preso un’ARMATURA D’ORO aspe’ si è sdoppiato sono in due a lanciare coltelli ecco il diavoletto rosso ma ha l’armatura montagne di teschi sullo sfondo ma aspetta io sono arrivato qui che la partita era già iniziata chissà che livello è

“Scusa, che livello è?”

[muore] “Vaffanculo.”

“Sei morto per il terremoto, mica è colpa mia, scusa”

“No, vaffanculo perché non credere di giocare oggi, ho quattromila lire in gettoni e me le spendo tutte qui, vattene.”

Il giocatore sembra motivato. È alto e smilzo, non credo sia fisicamente nocivo, ma la sua antipatia è nondimeno pungente. Chissà, magari potrebbe però essere l’inizio di una straordinaria amicizia in nome della evidente passione che egli già nutre per Ghouls’n’Ghosts appena ivi giunto al Minicar, gioco che io conosco da pochi istanti e che già adoro più di qualsiasi dio di religione monoteista.

 “Te ga capì? Va’ via, mona”

OK, OK. Niente straordinaria amicizia. Ma questo sgodevole personaggio ha pur sempre il controllo del gioco, egli può fungere da Virgilio che, giocando, mi permette di familiarizzare con i livelli e i pattern prima che sia il mio turno. Devo chiamare mia madre, però, mica posso arrivare a pranzo alle sei di pomeriggio: meglio saltarlo del tutto, il pranzo, e restare qui. Estraggo il cellulare e comincio a cercare il numero in memoria, quando mi ricordo che i cellulari sono lungi dall’essere già un prodotto tecnologico di massa, siamo nel 1989. Il dilemma pertanto è: esco e mi infilo nella vicina cabina telefonica vicino al cinema Excelsior, perdendo così la visione del boss di fine livello, e probabilmente anche di una fetta del livello successivo, ma rassicurando mia madre sulla mia esistenza, o viceversa bypasso il momento telefonico e me ne stropiccio nel nome della Cultura Videoludica ovvero della Scimmia Totale per il Gioco più Nuovo e più Figo che Esista e che ha Spawnato Inaspettatamente in una Sala Giochi Provinciale?

Hmm. Non sono abbastanza figo per fare il figo, in questa storia. Mamma. Tuuu Tuuu.

“Dove sei”.

“Eh mi ha invitato a pranzo un amico”

“Chi.”

“Non lo conosci, eee, quello alto e smilzo della quinta G”

“See, see. Minicar. Se almeno tu andassi male in latino potrei arrabbiarmi meglio, ma…”

Credo di aver sempre ritenuto mia madre la migliore delle madri possibili per questa sua capacità, in una sola frase, di redarguire, ironizzare, condannare la mia riprovevole condotta nell’immantinente e lasciarmi intuire come invece, su vasta scala, fossi tutto sommato un figlio amabile a patto che non mi drogassi.

Condensatori piegati come canne al vento. Fermo immagine di una folata antica e raggelante.

RETROCEPTION: realizzo di aver già scritto, quindici anni fa, qualcosa su Ghouls’n’Ghosts. L’ho anche in seguito pubblicato su un sito, credo. Ecco comunque un estratto dell’estratto di un passato ora trapassato che allora era quasi – quasi – fresco:

<< Ghouls’n Ghosts. Ne avevo letto un trafiletto appena qualche mese prima, sul numero 5 dell’edizione italiana di “The Games Machine”. L’articolista aveva visto il coin-op in anteprima, ma già si sbilanciava, scrivendo: “Utilizzando le nuove tecnologie CP, il seguito al famosissimo Ghosts’n Goblins è un gioco a dir poco sconvolgente, ed una notevole variazione dal suo predecessore. Quel che rimane del programma originale è poco più dello stile di gioco e dell’aspetto del personaggio principale, e Ghouls’n Ghosts colpisce soprattutto per le sue meraviglie grafiche, che erano state viste in forma sperimentale in Forgotten Worlds. (…) Ghouls’n Ghosts è decisamente il miglior titolo Capcom mai prodotto (…)”. Frasi da giornalista a caccia di hype? No. In quel momento, a ripensarle, suonavano quasi come un understatement. Gli astanti restavano percossi e attoniti, muti, storditi da tanta bellezza, dalla potenza estetica apparentemente infinita del gioco. Quei rossi lividi, quei blu argentei, quei verdi così brillanti, stagliati contro il cielo cupo e minaccioso del primo livello, sortivano su tutti una fascinazione quasi frastornante, perché in fondo erano i colori del male, belli come il diavolo che danza nel pallido plenilunio. Era quasi come se la bellezza di Ghouls’n Ghosts fosse vissuta come una colpa da tutti noi, nemmeno degni di una simile investitura, e attanagliati dal dramma di una principessa a cui è stata tolta la vita. La drammaticità della missione – penetrare negli Inferi per sconfiggere Lucifero e reclamare l’anima della nostra amata, era sicuramente superiore a quella del primo gioco. La girandola di cambiamenti di dinamica di gioco e di ambientazione non lasciava scampo. Le forze del male si proponevano come tanto più spaventose quanto sapevano esser invisibili – un temporale con un fortissimo vento contrario, un terremoto che fa letteralmente a pezzi un livello… E poi che boss, che immaginazione sincretica, in grado di andare a pescare con stile nei bestiari mitologici europei per poi reinterpretare il tutto con un gusto così coerentemente Capcom>>

Che verbosone, il me di 15 anni fa che parla del me di 25 anni fa. Che imbellettamenti, che voglia di fare bella figura in prosa e di riprodurre con freschezza modernista l’arcaico splendore di Ghouls’n’Ghosts. Quella voglia di comunicare bene. Ora è un po’ scemata. Saranno le centinaia di articoli, recensioni eccetera. O, senza voler fare il cinico giornalista hard boiled (o “hard boiler”, come mi autocorregge Word), è solo che è cambiato il nocciolo della questione. Perché ormai, che i giochini a otto e sedici bit sono fichi ve l’hanno, ve l’abbiamo detto tutti. Ma tipo martellate negli zebedei. Bam, bam, bam, Megadrive. Bam, bam, bam, Konami prima che si svuotasse e andassero tutti in Capcom, circa 1983. Lo sapete a memoria. Hipster demodé nel loro essere demodé per moda collezionano cabinati da sala lussuriosi più vecchi di loro a prezzi che possono permettersi solo quelli più vecchi di loro (i loro genitori). E li sottraggono a ME. Gonfiano i prezzi. OK. Calma. Dicevo. Il nocciolo per me non è più far conoscere i giochi vecchi. Al limite è far intuire, lasciar accarezzare la loro inconoscibilità. È un discorso mistico. È ridicolo. Mistica delle schede PCB - sapendo nel contempo che è un’immane sciocchezza.

Quindi ora attacco la scheda JAMMA di Ghouls’n’Ghosts e faccio una partita. Una sola. E vada come vada. Perché non si può controllare tutto. Non si può controllare niente. Ruotano le lunghe ombre delle schede tombali, a volte siamo nella luce, a volte siamo nell’oscurità. Analogamente, il gettone di una sala giochi che non esiste più ruota in bilico sul proprio taglio. Lo prendo, lo inserisco in una feritoia che è una ferita. Cade in un pozzo senza fine, non sentirò mai il clangore del cassone della gettoniera. Si scoprono le tombe, si levano i morti, i nostri ricordi sono tutti risorti.

Ready.

[Una ripresa improvvisata di una bruttezza immonda che, associata al testo di accompagnamento, si rivela in verità una perfetta apparizione sfocata e spettrale. La veste dei fantasmi del passato che cadendo lascia il gioco immacolato. Comunque sì: fa cagare. Non guardatela].

"È solo quando si attribuisce consapevolmente una valenza simbolica all’effimero che davvero si abbraccia la propria umanità, che si cavalca l’onda del ciclo imperituro dell’esistenza, che si sconfigge la vanità delle vanità accettandone la funzione esperienziale". Non c'è davvero differenza, tra angeli e diavoli, è solo una emanazione dualistica del nostro ego, che è un "misero ruscello senza fonte."

Chi l'avrebbe mai detto, però, che di tutta la droga che girava nelle sale giochi brutte, sporche e cattive della mia infanzia, la droga più inebriante, pericolosa e rivelatrice si sarebbe rivelata proprio quella nascosta dentro i cabinati.

Le schede tombali.