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Racconti dall'ospizio #15 - Come Luke, come un coniglio

Racconti dall’ospizio è una rubrica in cui raccontiamo i giochi del passato con lo sguardo del presente. Lo sguardo di noi vecchietti.

Tra le tante cose che mi facevano impazzire da giovane e che ora non posso più vedere manco di sfuggita c'è Star Wars. Serio, ero un fanboy, considerando anche che Il ritorno dello Jedi fu uno dei primi film che mio fratello mi portò a vedere al cinema, assieme a I predatori dell'Arca perduta (abbiamo sempre avuto buon gusto in famiglia), e che dormivo col poster de L'Impero colpisce ancora sul letto.

Il troppo stroppia, dicono, così come la visione della nuova trilogia; tra le due cose, vallo a sapere.

Ma negli anni Ottanta andavo pazzo per spade laser e X-Wing vari, e il coin-op Atari era uno dei miei sogni mostruosamente proibiti. La grafica vettoriale a colori velocissima, le voci campionate, l'audio ultragasante pompato dagli amplificatori strategicamente piazzati dietro al sedile, la cloche... Prima di Space Harrier e successiva schiera di bestioni idraulici griffati Yu Suzuki, c'era Star Wars, fidatevi.

Che poi, nella mia sala giochi di fiducia, quel cabinato era rimasto lì per anni, fregandosene delle mode: la classe è eterna e loro lo sapevano.

"Loro" sono/erano i proprietari del Playclub, probabilmente la sala giochi più grossa di Pescara. Ricavata da un parcheggio, era gigantesca, immensa, senza senso, roba che forse prima ci posteggiavano i camion supertamarri di Ginguiser, Daimos e Brivido, e probabilmente avanzava ancora spazio. E aveva tutto e subito, dagli arcade classici ai cabinati più o meno mostruosi. Hard Drivin', Beast Busters, Winning Run, Steel Talons e tutti i giochi Capcom all'uscita: li vedevi sulle riviste specializzate e te ne fregava poco, perché li avevi già giocati al Playclub. Ma Star Wars, fino alla fine, rimaneva lì. Forse incassava duemila lire al mese, nell'epoca dei supermostri idraulici con millemila poligoni che ti salutavano con "Gentlemen, start your engine", esplicito episodio di captatio benevolentiae digitale, ma i proprietari non lo diedero indietro, mai. Lui, parcheggiato solitario e austero vicino a una catasta di flipper, hockey da tavolo e tavoli da ping pong.

Ho già detto che il Playclub era immenso?

Ovviamente, le conversioni per i sistemi casalinghi lasciavano a desiderare; ricordo con affetto un tentativo mozzafiato- considerando l'hardware su cui girava - per ColecoVision a cura della Parker Bros, ma il resto, semplicemente, non ce la faceva. Bisognava attendere i sedici bit per avere delle versioni ben fatte del gioco, ma il wireframe colorato con i caccia Tie che sparavano i nugoli di stellette ("Shoot the fireballs!") non impressionavano più, di fronte a Starglider 2 o a Carrier Command, di certo non senza il cabinato. Su X68000 il gioco non arrivò, o quasi. Perché Star Wars Attack on the Death Star di MNM Software (successivamente Mindware) si ispira all'arcade di Atari, reinterpretando le stesse sequenze giocate in sala giochi senza limitarsi a una copia carbone.

“Look at the size of that thing!”

Prendiamo ad esempio la prima, con la strage dei caccia Tie durante l'avvicinamento all'arma imperiale più amata dai villeggianti su Alderaan: non si controlla più un semplice mirino, bensì l'intero X-Wing, con tanto di strumentazione di bordo. I nemici sono più numerosi e gli scudi energetici che ci tengono interi sono una dozzina, e dovranno bastare fino alla conclusione della missione, senza ricariche tra uno stage e l'altro. Non è affatto male; più che lo Star Wars arcade, pare di giocare ad una versione declinata a fil di ferro di Wing Commander, anche grazie alla possibilità di agganciare i nemici e farli secchi con un siluro protonico, oltre alla non trascurabile libertà di movimento.

La quantità di campionature audio attinte dalla pellicola è considerevolmente aumentata rispetto al collega mangia gettoni, a beneficio dell'immersione per il fan duro & puro,  mentre può accadere che il nemico si metta in coda al nostro caccia, facendoci passare ad una visuale in terza persona (avete presente gli incontri con Von Richtofen in Wings della Cinemaware?) finché non riusciremo a scrollarcelo di dosso o a ricevere una razione di luce pesante, perdendo uno scudo. Ecco, a volte il marrano viene fatto secco da Wedge, ma non ci sperate troppo.

Papà Darth farà la sua comparsa quando avremo fatti secchi abbastanza Tie, giusto il tempo di completare il livello e passare al secondo, eliminando torri di guardia e costruzioni secondarie mentre si dribblano laser e strutture indistruttibili che assomigliano a pali della luce.  Un sacco di pali della luce, ché a Palpatine arrivano certe bollette che levati.

E sono pure rapidi a far fuoco.

Anche qui è possibile muoversi liberamente, per quanto si voli comunque a bassa quota; la stessa cosa avviene nell'ultima sezione, ovviamente ambientata nell'iconico canalone. Qui è una questione di riflessi, mentre ci si muove nervosamente tra anguste pareti, schivando proiettili che arrivano dal fondo e abbattendo torrette poste ad altezze variabili, e complessivamente si tratta del livello più simile a quanto visto in sala giochi, visuali a parte. Sì, ho usato il plurale perché, come valore aggiunto, è possibile attivare un gran numero di inquadrature interne ed esterne in perfetto stile simulatore di volo.

La storia vuole che SEGA avesse intenzione di registrare l'idea del cambio di visuale all'epoca di Virtua Racing, uno scherzetto che richiese cinque anni, tra una trafila e l'altra. Quando la cosa stava per concretizzarsi (e quando l'argomento cominciava a interessare tutti nel 1997, visto il boom della grafica poligonale), una coalizione di sviluppatori, tra cui Nintendo e Konami, presentò in tribunale proprio il nostro Star Wars per X68000 come esempio di arte nota, revocando il brevetto! E se vi ho stuzzicato l'interesse, magari sapere che l'accompagnamento sonoro porta la firma di Yuzo Koshiro potrebbe essere il colpo di grazia, specie dopo aver ascoltato il bellissimo remix del tema della Mos Eisley Cantina durante il caricamento.

Il fatto che il gioco non sia compatibile con il mostruoso X68000 Cyber Stick è un po' un mistero più grande della vita, ma pace.

Pienamente compatibile con Super Hang On, tra tutti. Cioè, capisco Thunderblade…

Attack on the Death Star è una curiosità dal particolare valore storico e, alla prova del tempo, potrebbe erroneamente indurre a pensare che l'X68000 potesse tirare fuori solo del misero wireframe quando, da noi, anche gli otto bit scavavano nel poligono solido della luna Mitral, forti del Freescape di Incentive.

Geograph Seal ci vuole per voi, miscredenti! La sua azione veloce a poligoni solidi coloratissimi, i fondali bitmap animati, la roba che esplode e i nemici che arrivano a frotte, aviotrasportati sul campo di battaglia, nientemeno. È bellissimo: il robot che comandiamo può muoversi liberamente nella vasta arena, sfruttando dislivelli e coperture. Inoltre, in virtù delle sue robuste gambe meccaniche, si permette di balzare in aria e, con una doppio salto, guardare verso il basso, direzionando l'atterraggio con precisione, magari sulla testa di un nemico causando danni massicci.

Death from above.

Se la meccanica appena descritta vi ricorda qualcosa, è perché facevate lo stesso mentre combattevate il Barone Aloha, salvando i Muu Muu alla guida di un coniglio robot in Jumping Flash! all'alba della PSX.

VOI gente di buon gusto, altro che ToShinDen.

Non per niente sono entrambi figli di Exact: Geograph Seal esce nel 1994, un anno prima di Jumping Flash!, rappresentando un banco di prova per motore grafico e meccaniche. Anche senza conigli robot, il carisma è comunque alto: il nostro robot bipede ha a disposizione quattro sistemi d'armamento (mitragliatrice, laser, missili a ricerca e granate) con cui mettere a ferro e fuoco le zone nemiche, eliminando bersagli strategici e combattendo contro giganteschi boss di fine livello. L'interesse blastatorio belligerante, tale da giustificare l'allitterazione delle grandi occasioni, è tenuto alto dai potenziamenti per le varie armi, ben nascosti in ogni missione.

Tanti nemici, tanti poligoni.

Per essere sostanzialmente un arcade, Geograph Seal presenta comunque aspetti che lo rendono più complesso della maggioranza dei titoli per la macchina Sharp, come il surriscaldamento delle armi da tenere d'occhio e la mappa strategica da richiamare per mettere in pausa l'azione, cambiare arma e puntare verso il prossimo bersaglio.

Complessivamente, la presentazione audiovisiva è di ottimo livello: a volte il massacro del campo di battaglia liberamente esplorabile cede il passo a impressionanti sezioni in chiave rail shooter, dove lo scorrimento, sottolineato da veloci bitmap, ben si sposa con la mole e la quantità dei nemici poligonali. Nelle situazioni più coincitate, alzare la velocità a 16mhz aiuta (nei modelli che la supportano, ovvio), ma generalmente la fluidità non delude, così come il ritmo dell'azione. Questa viene anticipata prima di ogni livello da un'introduzione animata che mostra l'ipotetica avanzata verso il boss, con i bersagli descritti da qualche campione intercontinentale di engrish.

Stiloso anche nello schermo dei titoli animato.

Sì, i poligoni mancano di texture e, sì, nelle aree più vaste c'è uno spiacevole effetto nebbia, ma la verticalità dell'azione aveva veramente pochi metri di paragone, all'epoca.

Quindi nessuno ce la fa contro l'X68000? Eh, 'nzomma, un boccone duro da mandare giù c'era, come testimonia un oggetto che ho ricevuto dal Giappone un paio di settimane fa. Ventisei euro, spedizione compresa, per rimanere deluso, ma ne parliamo la prossima volta, se ne avrete voglia.