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Racconti dall'ospizio #3 - L'importanza di chiamarsi Premoli

Racconti dall’ospizio è una rubrica in cui raccontiamo i giochi del passato con lo sguardo del presente. Lo sguardo di noi vecchietti.

Incredibile dictu: quando indossavo le braghe corte ero bucolicamente ludico, un pallone da calcio e la fida BMX, blu con un coprimanubrio di spugna tricolore, erano lo stretto necessario per passare un pomeriggio all'aria aperta. Un giorno il mio karma fu sconvolto dall'arrivo di una presenza sinistra, che si presentò senza bussare. E non ricevette risposta, perché “non si parla con gli estranei”. Allora decise di bussare senza presentarsi, ma ero troppo furbo per cadere in un simile tranello. Alla fine riuscì ad infilarsi nel soggiorno di casa, proprio sotto il televisore, un teutonico Grundig con diverse primavere alle spalle, sconvolgendo il mio delicato equilibrio psicologico.

Il fedele compagno del gameplay, prima che mi innamorassi delle console,

Figlio di mezzo, vittima del complesso d'inferiorità nei confronti dei suoi fratelli, il Commodore 128 era lì, tozzo, rassicurante nella sua stabilità, con quel trasformatore enorme, rovente dopo alcune ore di attività. Registratore a cassette d'ordinanza, perché i floppy disk da cinque pollici e un quarto erano roba da ricchi, fantascienza, i veri duri amano i nastri, da inserire rigorosamente nello stereo con l'equalizzatore grafico frontale, la sincopata danza di una fila di led gialli. Power to the Ghetto Blaster.

Quanto stile. E quanta mancanza di sobrietà!

La compilation del gameplay era composta da tre brani: la timida conversione di Bubble Bobble, il terrificante porting di OutRun targato Us Gold, al limite del monocromatico, e il meraviglioso International Soccer. Ancora non mi capacito di come Andrew Spencer sia riuscito a inserire tante variabili in pochi byte, un vero miracolo calcistico, illuminante come l'Olanda di Cruyff, elegante come una rovesciata di Van Basten, potente come un tiro rabbioso di Gabriel Omar Batistuta dei bei tempi. A vederlo oggi mette tenerezza, con gli atleti tutti cubettosi, la porta squadrata, il pallone nemmeno rotondo, eppure per gli standard del tempo era sconvolgente. Tanti QuickShot si sacrificarono sull'altare della sfera di cuoio digitale, scardinati con violenza dalle loro ventose dopo una rete sbagliata a porta vuota o un contropiede non concretizzato, si respirava calcio come mai prima di allora. International Soccer non era una simulazione accurata: i falli non implementati, la regola del fuorigioco data per dispersa, ma rispetto a tanti altri concorrenti era dannatamente divertente e questo bastò per trasformarlo in un successo.

Fu vera gioia, ma la felicità non può durare per sempre, le nere tenebre si avvicinavano minacciose.

Dino Dini lo sa. Io francamente me ne infischio.

Ho sempre sognato di avere un amico come Franco Baresi, con il suo sguardo serio, capace di ispirare fiducia in chi lo osserva, e il braccio perennemente alzato. E niente doppi sensi, grazie. È fuorigioco? Certo, guarda Baresi, l'ha segnalato! Chi interroghiamo oggi... Baresi, vedo che ti sei offerto volontario! Mi sono perso a Venezia? Ci pensa Franco, segui la sua mano! È tornato Weah, è tornato Weah e Bares... no, niente, chiedo scusa. Plagiato dal capitano rossonero, caddi in uno dei più incauti acquisti della mia carriera videoludica, una simulazione calcistica con la quale non seppi mai entrare in sintonia, eravamo veramente agli antipodi. Tutto mi sembrava sconclusionato, a partire dalle goffe animazioni dei calciatori fino alle enormi dimensioni del pallone, praticamente grande come il busto di uno degli atleti. Lo scrolling orizzontale incespicava in continuazione, lo sfarfallio a schermo tagliava le retine con l'accetta, rendendo impossibile qualsiasi impostazione di gioco. Franco Baresi World Cup Kick Off, versione nostrana della fatica di Dino Dini, esprimeva il meglio del suo peggio nell'incarnazione per Commodore 64, un bluff senza arte né parte, una truffa legalizzata.

Un giorno, colmo di rabbia, sfogai la mia frustrazione virtuale eliminando qualsiasi traccia di infrazione dalle opzioni e dando inizio ad una mattanza sul verde prato, falli, entrate a gamba tesa, un repertorio di infortuni e dolore. Senza saperlo avevo creato un simulatore di Pasquale Bruno, un'idea che avrei potuto rivendere e farci i miliardi.

O' Animale in uno scatto del secolo scorso.

Quel gioco a dir poco scandaloso segnò la fine della mia infanzia, fu un trauma peggiore de La storia infinita, che non è tale, e della scoperta che Babbo Natale non esiste, una tragedia. Quell'evento fece tabula rasa della mia innocenza, mi consegnò vuoto e vacuo ad un futuro di camicioni di flanella, musica grunge, ciccia, brufoli e niente Kinder Bueno. Tanto io mangiavo le Crazy West e le Goleador.

Uno dei tanti tormentoni delle riviste degli anni '90 riguardava la presunta incapacità della scuola nipponica nel campo delle simulazioni calcistiche: “non ce la faranno mai”, spergiuravano i sedicenti esperti, alimentando nel frattempo la sterile e inutile diatriba fra Kick Off e Sensible Soccer. Ho sempre trovato lo scontro mortalmente noioso, come ogni cosa riguardi il 16 bit Commodore, una “macchina demoniaca ampiamente sopravvalutata”, come disse qualcuno con molta onestà intellettuale. Se proprio devo prendere una posizione in merito, preferisco l'estro di Jon Hare al rigore simulativo dei gorilla di Dino Dini, viva le emozioni, al bando la rigidità e la mancanza di fantasia. Nel giro di qualche anno, questa era del pallone diventò di colpo arcaica, grazie al vento della rivoluzione, proveniente dal Sol Levante. Epoch indicò la via con J.League Excite Stage '94 (da noi conosciuto come Soccer Shootout, pubblicato da Capcom), Konami ne scrisse il manifesto e divenne sinonimo di calcio, quello vero.

L'inizio della fine per la scuola europea.

Estate del '95: caldo, afa, umidità in percentuali bulgare, vestiti incollati alla pelle. Come un pellegrino cammino alla ricerca dell'oggetto del desiderio, ma gran parte dei negozi ha le saracinesche abbassate, “chiuso per ferie”, luglio col male che ti voglio, agosto gameplay mio non ti conosco. Con poche speranze entro in un punto vendita aperto da poco, giro fra gli scaffali con lo sguardo spento, quello di chi è sconfitto, quando all'improvviso l'icona appare di fronte a me: l'ultima copia di International Superstar Soccer, chiunque la tocchi dovrà affrontare la mia ira. Con un balzo felino, nell'ordine dei dieci centimetri, allungo il braccio, prendo la confezione e mi dirigo petto in fuori verso la cassa, faccio girare l'economia con i miei sudati risparmi e inizio il ritorno verso casa. Quell'ora che mi separa dal joypad sembra infinita, leggo con attenzione il manuale per passare il tempo, imprimo nella mia mente le immagini presenti sul retro di copertina, palpitazioni a mille attendo la fermata dell'autobus vicino alla mia dimora.

Una pubblicità così naif che non potevo non inserirla.

Apro la porta, getto i vestiti alla rinfusa in un mucchio, infilo il nuovo acquisto con violenza nel Super Nintendo e spingo il tasto power, il tutto nel tempo stimato di ventidue secondi netti. E rimango basito di fronte allo schermo, come raramente mi era capitato prima di allora. L'esordio fu un vero disastro: con l'Olanda, mio pallino di quegli anni, presi quattro scoppole dalla Svezia, purgato dall'equivalente del tempo di Ibrahimovich. Sulle ali dell'entusiasmo inizio a capire le meccaniche ludiche, rimango abbagliato dalla fisica della sfera, realistica mai come prima di allora, sbrodolo alla visione dei frame d'animazione, vado in visibilio alla prima rovesciata. Mi esalto quando il laconico commentatore, una voce che segnala a malapena i falli e i calci piazzati, caccia un urlo per festeggiare la segnatura, tutto era fin troppo bello per essere vero. Intendiamoci, International Superstar Soccer era ben lontano dalla perfezione: le sforbiciate volanti dei difensori sono quanto di meno realistico ci sia al mondo, le scivolate della durata di mezz'ora, come se il campo fosse cosparso d'olio, erano a dir poco fantasiose e c'era più di una gabola per fare sistematicamente gol. Dettagli, precisazioni di poco conto, la rivoluzione era in atto, il calcio era una questione da samurai e la scuola europea incassò il colpo, tentò una timida reazione e nel giro di qualche anno chiuse i battenti per manifesta inferiorità.

E un po' sento la mancanza di quei momenti: i giochi di calcio di oggi possono fregiarsi di licenze, riproduzioni precise di stemmi, maglie e stadi, c'è spazio per ogni elemento accessorio. Eppure mi sono perso per strada, non mi dedico al genere da anni, ho appeso le scarpette virtuali al chiodo senza rimpianti. Coliuto, Premoli e Galfano sono ricordi indelebili da custodire gelosamente, un minuto in loro compagnia vale più di mille sterili simulazioni pedatorie odierne.