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Racconti dall'Ospizio #151: Rainbow Six, vent'anni fa arrivava il team antiterrorismo di Tom Clancy

Racconti dall’ospizio è una rubrica in cui raccontiamo i giochi del passato con lo sguardo del presente. Lo sguardo di noi vecchietti.

Il mio rapporto con le opere di Tom Clancy nasce tanti anni fa a un cinema estivo. Sono sincero, non conoscevo l’autore americano prima di vedere Caccia a Ottobre Rosso, film campione di incassi con Sean Connery e Alec Baldwin che ricordo di aver visto in seconda visione nel cinema all'aperto del pesino dove andavo al mare. Da lì in poi ho iniziato a recuperare qualche suo libro e continuato a seguire le avventure cinematografiche di Jack Ryan, l’analista della CIA più famoso del cinema. Inutile dire che quando vidi nella vetrina del mio negoziante di fiducia la scatola di cartone di Rainbow Six (che devo avere ancora da qualche parte), decisi di acquistare praticamente alla cieca il titolo di Red Storm Entertainment.

Sì perché nel 1998, vent'anni fa, il primo episodio di quello che sarebbe diventato uno dei brand più famosi del mondo dei videogiochi non era ancora un gioco con il logo Ubisoft stampato sulla confezione, ma era prodotto da Red Storm Entertainment appunto, società fortemente voluta e co-fondata proprio da Tom Clancy. Un caso (di successo) più unico che raro di scrittore/regista che non solo si impegna in prima persona nello sviluppo di videogiochi, ma addirittura arriva a fondare una società per avere il giusto controllo sulle proprietà intellettuali.

Questa genesi fa capire il perché Rainbow Six sia un titolo così complesso, quasi una simulazione di reparti speciali, che sicuramente oggi come oggi interesserebbe una nicchia di utenti. Giusto per rinfrescare la memoria, nel titolo di Red Storm siamo al comando di una squadra speciale multinazionale ingaggiata per combattere un gruppo terroristico che vuole creare caos nelle Olimpiadi di Sydney del 2000.

L’esperienza cinematografica di Clancy saltava subito all'occhio (e alle orecchie) sin dal video iniziale, una intro molto simile a quelle create da Universal o 20th Century FOX. Quello che però faceva rimanere a bocca aperta, e probabilmente faceva anche da barriera insormontabile per chi desiderava un’esperienza di gioco più accessibile, era la dettagliatissima fase di pianificazione prima dell’inizio della missione, che doveva essere affrontata in modo molto preciso e serio se si voleva portare a termine l’obiettivo con il massimo del risultato.

Nella fase di briefing infatti dovevamo pianificare, passo dopo passo, tutti i movimenti dei quattro team impegnati nelle missioni. Per esempio, se si doveva fare irruzione in un edificio era necessario disegnare tutti i tragitti delle squadre e creare delle situazioni, dei punti dove a un nostro ordine la squadra doveva effettuare una determinata azione. Il giocatore comandava in prima persona un solo team per volta, potendo però passare da una squadra all'altra in tempo reale, ma dovendo fare irruzione in una stanza potevamo ordinare ai nostri compagni dell’altro gruppo di creare un diversivo o lanciare una granata stordente, in modo da poter entrare in relativa sicurezza e abbattere i nemici o salvare gli ostaggi.

Perché in Rainbow Six chi moriva, sia dei nostri sia negli ostaggi, era morto. Punto. Non c’era energia che si ricaricava, non c’erano medikit, tutto era come sarebbe stato in una situazione del genere nel mondo reale. Purtroppo, questo approccio più simulativo - o punitivo - verrà riproposto in pochi altri giochi della serie (anche nel primo Ghost Recon per altro), ma la semplificazione di certe dinamiche ha fatto sì che negli anni diventasse tutto più semplice, più immediato. 

Il bello di rischiare veramente di perdere un elemento della squadra faceva sì di approcciare qualsiasi angolo, di aprire qualsiasi porta con una tensione, un’ansia, quasi impossibile da provare oggi, con medikit a ogni metro ed energia che si rigenera nascondendosi sotto un tavolo.

Rainbox six per me è stato un po’ il battesimo del fuoco nel mondo degli sparatutto tattici, e forse quello che ho amato di più insieme al primo Ghost Recon. Ho apprezzato, e non poco, anche titoli diversi come SWAT 4 o il complicatissimo e difficilissimo Operation Flashpoint, però nessuno di questi permetteva una fase di pianificazione così profonda e precisa, in grado di calarci nella testa del comandante di questo gruppo scelto, e non solo nel corpo dei suoi membri più operativi.

Insomma, il primo seminale titolo della squadra Rainbow non era perfetto, ma aveva diversi punti distintivi: alcuni si sono persi nel tempo, altri sono ancora presenti nell’ultima incarnazione, Rainbow Six Siege, oggi in voga più che mai grazie anche al movimento eSports.