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Parliamo di “quel momento” in Resident Evil Village | Spoiler Zone

Una rubrica in cui parliamo di giochi, film, libri, la qualunque, a posteriori, senza farci alcun problema di spoiler. Se non avete ancora "consumato" ciò di cui si parla, in questo caso Resident Evil Village, statene alla larga, perché qui potremmo svelarvi ciò che non volete sapere!

Quando nel 2015 Konami strappò via la demo di P.T. dallo store di PlayStation ormai era troppo tardi. Quell’oretta da incubo nei corridoi di una casa qualsiasi era già entrata nel mito. Era già un’icona. Non succede spesso, anzi non succede quasi mai, che un videogioco, un film, un libro, una canzone riesca a imprimersi immediatamente nell’immaginario collettivo. Di solito è il tempo che fa da giudice, che permette all’opera di crescere, come una piantina che deve mettere le radici prima di diventare un albero maestoso. Invece no: P.T. era un progetto nato albero. Un albero immenso. Togliere quell’esperienza al pubblico era servito solo a consegnarla alla storia con ancora più forza. Bastò poco perché l’albero iniziasse a dare frutti: 2016, Layers of Fear e Allison Road. 2020, Visage. In mezzo, 2017, Resident Evil 7: Biohazard, con un’inedita visuale in prima persona e un incipit interamente costruito su telefoni squillanti, porte che si aprono su corridoi bui e rumori ostili. E poi, a mettere la ciliegina sulla torta, 2021, Resident Evil Village.

Nei primi momenti del nuovo viaggio di Ethan c’è uno scorcio del castello Dimitrescu che sembra uscito da un Castlevania qualsiasi e, a un certo punto dell’avventura, un’inquadratura di Chris Redfield che fuma una sigaretta sembra scappata da un Metal Gear Solid. Non lo so quanto fossero intese queste continue citazioni ai titoli Konami presenti nell’ultimo Resident Evil, ma quello che so per certo è che “quel momento” di cui dobbiamo parlare è volutamente un riferimento all’ormai mitica demo di P.T., il Silent Hill segreto di Hideo Kojima, Guillermo Del Toro e Junji Ito.

Due righe per coloro che non conoscono P.T. sono doverose. Si tratta di un progetto che ha mandato in pappa il cervello a un sacco di gente, me compreso. Ci ho scritto anche un lunghissimo dossier che approfondiva l’intera vicenda. P.T. era un incubo ambientato tra i corridoi di una casa americana prigioniera di un loop: si attraversava un corridoio, si usciva dalla cantina e si finiva di nuovo all’inizio del corridoio e così via per decine e decine di iterazioni. Solo che ogni volta il corridoio cambiava: una volta era illuminato di rosso, una volta era totalmente buio, una volta la porta del bagno si apriva e nel lavandino trovavi un feto mostruoso che piangeva. Un’altra volta una finestra veniva giù con un gran fracasso, il telefono squillava all’improvviso e la radio cominciava a parlare con te, con il giocatore, e ti diceva: “voltati, è dietro di te”. Qualche volta, se eri abbastanza veloce o abbastanza avventato, riuscivi a vedere Il fantasma di una donna che ti osservava dal piano di sopra. Un’esperienza terrorizzante, probabilmente la più spaventosa da moltissimo tempo. Forse, azzarderei, tra le più spaventose di sempre. Ed era bastato un corridoio mezzo buio, un telefono, una radio e un paio di porte che sbattono.

P.T. è stato per il mercato dei videogiochi horror quello che La notte dei morti viventi di Romero è stato per cinema di genere: improvvisamente non c’era bisogno di budget stratosferici, di tecnologie incredibili o di mostri orribili per spaventare il pubblico. Una lezione che i piccoli sviluppatori hanno ascoltato per bene e che soprattutto ha ascoltato Capcom che fino a quel momento era andata proprio in direzione contraria con i suoi Resident Evil, inseguendo una svolta action che pian piano aveva divorato l’horror.

Probabilmente è anche grazie a P.T. che Resident Evil è risorto. La prima parte di Resident Evil VII è sapientemente costruita su una sensazione di impotenza di fronte all’ignoto simile a quella trasmessa dalla demo di Kojima. Con lo stesso spirito deve essere stata ideata la sezione più riuscita dell’ultimo Resident Evil Village. Si tratta ovviamente di “Casa Beneviento”, la villa di una medium capace di possedere e animare le sue bambole. E d’accordo, in questo caso il budget fa la differenza, perché Casa Beneviento è semplicemente splendida da vedere e da esplorare e anche per questo motivo è un palcoscenico perfetto per mettere in scena lo spettacolo che gli sviluppatori hanno preparato in modo tanto certosino. Le assi di legno che scricchiolano al piano di sopra, l’orologio che ticchetta, il silenzio rotto solo dallo scrosciare attutito della cascata che incornicia la casa. Giocatelo con un buon paio di cuffie e la tensione vi rosicchierà lo stomaco. Quadri appesi alle pareti, mezzibusti austeri e poi, ovviamente, le bambole.

Le bambole di porcellana sono un cliché, un po’ come i ragni e i pagliacci, ma funzionano perché ognuno di noi ha un qualche ricordo spaventoso legato alle bambole. Il mio è quando da bambino mi raccontarono che per realizzare le testoline delle bambole si usavano i calchi dei neonati morti. Non so se è vero o no e non voglio saperlo ma comunque è una storia che mi mette i brividi. Tanto basta.

Tutto sommato la casa nei primi momenti non fa paura. Si tratta di una villa elegante, accogliente, illuminata dai raggi del sole che filtrano dalle ampie finestre. Poi si scende nel seminterrato e a quel punto il gioco comincia a pescare a piene mani dalla famosa demo: i corridoi si fanno bui, i quadri alle pareti sinistri, porte chiuse che sbattono, una radio che si accende da sola. Basta davvero poco per far precipitare la situazione e in men che non si dica Ethan viene disarmato, le poche luci che ravvivavano le stanze sono ormai quasi del tutto andate. L’unica compagnia è una bambola di legno stesa su un tavolo come un cadavere sul lettino dell’autopsia. Nel momento in cui torniamo sui nostri passi e cerchiamo di focalizzare lo sguardo al di là della tenebra impenetrabile che inghiotte il corridoio, ecco arrivare un vagito familiare. Un bambino, o almeno così sembra. “È quel feto nel lavandino” mi suggerisce il cervello. “Quello di P.T.”. Non faccio nemmeno in tempo a formulare il pensiero che qualcosa comincia a emergere dal buio.

Solo che sono passati sei anni dalla demo e quel bambino mostruoso è cresciuto: è diventato un gigante deforme, un demone neonato che striscia in direzione di Ethan. Bocca sdentata, gli occhi ancora chiusi, le gambe molli, le braccia che si protendono in avanti per afferrarti. Se inavvertitamente si sbaglia strada e si finisce spalle al muro, si va incontro a una delle animazioni di morte più raccapriccianti che mi sia capitato di vedere in un Resident Evil: l’enorme feto ti afferra e ti ingoia vivo. L’ultima cosa che vedi è quella voragine che si spalanca e comincia a risucchiarti al suo interno. Per evitare di fare questa brutta fine inizia una letale partita a nascondino, un inseguimento degno dei vostri peggiori incubi. Per almeno un’oretta buona, giocherete a Silent Hills, come sarebbe stato se fosse mai uscito, se fosse mai esistito. 

Per chi vi scrive “quel momento” di Resident Evil Village vale il prezzo del biglietto. Il gioco non è brillante per tutta la sua durata (lo è per più di metà, con questo splendido picco proprio in mezzo al suo svolgimento) e presto l’equilibrio tra tensione e azione si spezza virando totalmente in direzione della seconda componente. Ma cavolo, che bel regalo Capcom, grazie di cuore.

Posso senz’altro dire che P.T. sia il progetto che più di ogni altro rimpiango di non poter giocare. Che soffro pensando che sia finito come quel feto nel lavandino, partorito, abbandonato e poi dimenticato. Una creatura dell’orrore piagnucolante, destinata a diventare grande ma senza aver mai avuto la possibilità di esprimersi. Ecco, rivedere quel feto cresciuto, vederlo vivo, sanguinante, affamato, mi ha riempito di gioia. E mi ha fatto cagare sotto dalla paura, che è una sensazione che avevo totalmente dimenticato in Resident Evil. Quindi, Capcom, grazie due volte.