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Samurai Gourmet sono io fra trent’anni

Samurai Gourmet sono io fra trent’anni: in pensione, libero di vivere la città a orari “impossibili”, camminando piano, godendo di ogni passo, senza meta, disordinato, mentre intorno il formicaio urbano si muove frenetico, replicando gli stessi movimenti ogni ventiquattr’ore. Un ristorantino all’angolo, sembra proprio carino, pieno di impiegati ma un posticino si trova, «si sieda pure!». L’orologio batte un’ora che non mi interessa, non ho impegni, solo cose nuove da provare, tempo da recuperare, sapori, ritmi da reimpostare e quella sensazione: quella che si prova quando da bambino si sogna di dover andare a scuola, per poi svegliarsi e ricordarsi di essere nel pieno delle vacanze estive, una bolla d’ansia che scoppia, puff. E poi avrei proprio voglia di una birretta ghiacciata per riequilibrare la temperatura, riordinare i pensieri, lasciarli scivolare giù nello stomaco mentre la gola comincia a pizzicare e un “aaaahhhh” liberatorio esce dalla bocca, un po’ sgraziato ma pieno di piacere. Questa è vita!

Non ho mai visto qualcuno bere birra con così tanto gusto in vita mia (anche perché non bevo allo specchio di solito). Questa non è recitazione, è pura goduria!

È esattamente così che mi immagino la vita da pensionato, mi accontenterei anche di una baby-pensione, non ho tutta questa voglia di invecchiare, basta non lavorare più. Mi porta via troppo tempo, troppa energia, la trovo una cosa così volgare, ultimamente, soprattutto dopo la pandemia. Ed è proprio in quei giorni di binge watching e impossibilità di uscire che ho incontrato Takeshi Kasumi e Samurai Gourmet, serie TV giapponese del 2017 prodotta da Netflix e ispirata all’omonimo manga. Giappone, pensione, cibo. Tre delle mie cose preferite in assoluto. Un signore sulla sessantina, neo-pensionato e un po’ spaesato, impreparato a questa nuova routine senza vincoli, senza orari, senza stress, dopo una vita dedicata alla zaibatsu di turno. Un samurai senza padrone, come quello che gli appare ogni tanto come un sogno ad occhi aperti, un buzzurro d’altri tempi che lo istiga a comportarsi in maniera meno educata, riverente, a lasciarsi un po’ andare ai vizi della vita, bere e mangiare soprattutto.

La prima puntata è di una dolcezza disarmante, con lui che trova questo localino tipico, zeppo di salaryman e si fa un sacco di menate sul fatto che bere birra a mezzogiorno possa dare l’impressione di essere un alcolizzato nullafacente. Cioè ma vi rendete conto della tenerezza? Io questi dilemmi non me li faccio neanche alla quarta pinta! Ma poi si decide, fa il grande passo, ordina una bella “biru” da 66 e si sgola il primo bicchiere alla goccia, godendoselo come fosse il primo orgasmo, tutto al rallentatore, con dei close up sul nettare dorato che istigano la salivazione. È lì che inizia la sua nuova vita, raccontata da una regia gustativa praticamente perfetta, che esalta ogni piatto, colore, morso, gusto e sorso, creando una perfetta ibridazione tra cinema di finzione e documentario culinario, giocando coi ritmi e le inquadrature, aprendo lo stomaco e liquefacendo i sentimenti (persino quando ordina degli spaghetti “napoletani” cucinati con peperoni e bacon, chiedendo pure formaggio grattugiato e TABASCO, un disastro!). Itadakimasu!

Un tipico napoletano quando gli raccontano la ricetta degli spaghetti napoletani alla giapponese.

Samurai Gourmet ha un modo così gentile e spontaneo di emozionare, mettendo in scena piccoli piaceri e le piccole disavventure, sprofondando ogni tanto insieme al suo protagonista nei ricordi di giovinezza, come in una particolare puntata-capolavoro, tutta in parallelo tra passato e presente che racconta 1:1 l’emozione che riesce a sprigionare un sapore, un profumo legato a un particolare episodio della vita, abbassando subito i battiti del cuore e finendo con la testa tra le nuvole, leggeri, malinconici, felici. Il cibo diventa un conduttore per lo spirito, che si distacca dal corpo, contempla, realizza e ascende grazie a quell’esperienza così intensa, praticamente mistica, nei suoi occhi la pace dei sensi, l’illuminazione, la gratitudine per la bontà di un piatto cucinato rispettando rituali ed esaltando la materia. C’è veramente una dimensione spirituale molto intima, sottolineata dai dialoghi con se stesso e da una colonna sonora che in quei momenti si fa rilassantissima, morbida, giusto qualche nota di chitarra acustica pizzicata con discrezione. Poi non si risparmia certo quell’umorismo un po’ kitsch, tipicamente giapponese, con un sacco di facce buffe e situazioni surreali o che sembrano tali, figlie di una cultura e di comportamenti così esotici e lontani dai nostri modi occidentali.

L’essere un’opera giapponese poi manda fuori giri definitivamente il mio senso critico, secondo la regola per cui anche il film giapponese più brutto è comunque bellissimo, per il solo fatto di essere giapponese, appunto. Però sono abbastanza sicuro che Samurai Gourmet sia splendido sul serio. Tutte queste sensazioni sono poi incredibilmente impreziosite da quello strato di autenticità tipico dei documentari, con tutte le sequenze dei ristoranti girate in loco, presso veri locali (potete trovarli tutti qua) e con gran parte del personale reale in scena.

Fare la comparsa in un film solo perché gli hanno detto che i pranzi sono deliziosi? Questa è l’essenza dello state of mind da pensionato di Tekshi.

Tutto questo permette di concentrarsi sui dettagli, dalle texture dei piatti all’arredamento dei ristoranti, ma anche sui gesti e sui suoni di un racconto piccolo, circoscritto, quotidiano e per questo capace di coinvolgere tutti i sensi. È così facile perdersi per quelle strade, desiderare di essere seduti a quei tavoli, facendo propri i pensieri di Takeshi, empatizzando totalmente con lui, adorabile nella sua timidezza, spesso fin troppo ossequioso con le persone che incontra, timido e decisamente poco coraggioso, tutto il contrario del samurai che vorrebbe essere, un po’ preso in giro dalla moglie, molto più estroversa e rilassata, che lo sprona continuamente ad uscire, fare cose, trovarsi hobby. E piano piano ci prende la mano, evolve, scopre di non aver ancora raggiunto la sua “forma definitiva”. Poi per me è facile prendermi bene, mi rivedo molto nel personaggio, non tanto a livello prettamente caratteriale quanto nel modo che ha di guardarsi intorno con meraviglia, pur nella città che conosce da sessant’anni e passa, cercando sempre la soddisfazione gastro-spirituale.

È così bello vedere una persona che sta bene, che domina la scena col suo buonumore, facendo sorridere chi lo osserva nei suoi momenti di meritato relax. Samurai Gourmet è un toccasana, è quel ristorante-rifugio che un po’ tutti abbiamo, dove sappiamo che andiamo a stare da dio, sereni, coccolati, quali che siano i problemi che sono fuori dalla porta. Opere del genere sono inestimabili, tanto quanto mangiare bene.

Questo articolo fa parte della Cover Story dedicata al cibo, che trovate riassunta a questo indirizzo.