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Scontri stellari oltre la terza dimensione, un titolo che dovrebbe bastarvi

Il franchise di Star Wars ha ispirato una marea di prodotti, dato vita a infinite parodie e fatto nascere opere derivative, a volte spudorate nella loro imitazione. Nel mare magnum di produzioni, però, è il caso di soffermarsi su un piccolo film tutto italiano, che negli anni si è trasformato in un vero e proprio cult internazionale: Starcrash, così distribuito all’estero, ma girato e distribuito in madrepatria come Scontri stellari oltre la terza dimensione.

Il film è scritto e diretto da Luigi Cozzi, su suggerimento del suo produttore, Nat Wachsberger, che ha subito intercettato il successo americano del primo Star Wars. Il producer, tornato in italia per parlare con Cozzi, dà quaranta giorni di tempo al regista per tirare su un film e questi, incredibilmente, ci riesce, tra casting e pre-produzione. Grazie al produttore internazionale, Cozzi riesce ad avere Christopher Plummer come super guest star, anche se per poche scene. Per gli italiani, c’è Nadia Cassini, anche lei in un ruolo ridotto, e poi troviamo un trittico di protagonisti: l’inglese Caroline Munro e gli americani Marjoe Gortner e... David Hasselhoff, qui al suo debutto cinematografico. Ma andiamo con ordine, per capire chi interpretino e di cosa parli Scontri stellari.

La trama va via che è un piacere. Siamo nello spazio, in qualche remoto angolo di universo, e osserviamo una pattuglia imperiale che si avvicina a un pianeta ma viene soggiogata da una strana luce rossa, che invade l’astronave e uccide quasi tutto l’equipaggio. Tre navette di salvataggio riescono a decollare, finendo chissà dove. L’impero le vuole ritrovare, dato che l’astronave da cui sono partite stava cercando il nascondiglio del malvagio Conte Zarth Arn, che vuole conquistare l’universo con l’uso di una misteriosa macchina che controlla le menti (responsabile di quella strana luce rossa). A chi rivolgersi, per la pericolosa missione di ricerca? L’imperatore (interpretato da Plummer) sceglie due ladri interstellari, la bella Stella Star (Caroline Munro) e Akton (Marjoe Gortner), dotato di strani poteri, tra cui previsione del futuro e super forza. I due vengono catturati e incarcerati ma, davanti alla possibilità di ricevere la grazia in cambio di aiuto, decidono di accettare la missione. Oltre che trovare il Conte, devono anche ritrovare il figlio disperso dell’Imperatore, Raima, che si rivela poi essere David Hasselhoff (e compare dopo un’ora di film, su una pellicola da novantasei minuti). Nel loro viaggio spaziale, si imbattono in amazzoni (guidate da una poco vestita Nadia Cassini), robot giganti, mostri e persino una tribù di cavernicoli, fino a giungere allo scontro finale con il Conte, nella sua fortezza volante a forma di mano.

Le dita possono anche spostarsi a mo’ di pugno. L’unica astronave della storia del cinema che può diventare un enorme dito medio.

Scontri stellari prende sicuramente molto da Star Wars, da L, il droide che segue i protagonisti, al look di certe grandi navi spaziali da guerra. Ma pesca anche piuttosto abilmente dall’epica classica greca, con alcuni momenti che sanno di Giasone e gli argonauti, anche perché il film fa un grande uso di animazione in stop motion, con giochi di telecamera che fanno sembrare dei giganti i piccoli pupazzi utilizzati. L’addetto agli effetti speciali era infatti Armando Valcauda, un giovane talento che si ispirava ai lavori di Larry Harryhausen, vera leggenda della stop motion. Il film ha quindi un sapore da heroic fantasy d’annata, meno sci-fi tecnologico (Cozzi ha più volte detto che ha pensato a una tecnologia fatta di luci, anche per risparmiare sui costi di realizzazione), con qualche spruzzata di Star Trek. La povertà della pellicola, è ovvio, risalta costantemente a schermo e la differenza di budget rispetto al primo Star Wars è plateale ma il risultato è comunque gradevole e gli attori ci credono talmente tanto che non puoi non volergli bene (soprattutto la Munro).

Il film, comunque, esce, tra una cosa e l’altra, nel 1979. Viene anche fatto passare come film nordamericano e Cozzi viene chiamato Lewis Coates (e così è accreditato nei titoli) perché a detta del produttore, gli americani non guarderebbero mai un film di fantascienza italiano. E dire che nel film c’è un pianeta vulcanico il cui set era l’Etna, il rifugio delle Amazzoni si trova in Puglia e ci sono scene tra i campi sul delta del fiume Po. Tutti gli interni, poi, sono stati girati a Cinecittà, rendendo il film una produzione che ha abbracciato l’intero stivale. L’opzione per un sequel arriva presto ma, per non precisati motivi, si arresta ancora prima che la sceneggiatura venga scritta e Cozzi finisce a fare altro. Quest’unico capitolo resta come esempio di un certo tipo di coraggio misto a volontà, che solo adesso il cinema italiano sembra stia cercando di ritrovare, ma siamo ancora lontani dalla terza dimensione. Qualsiasi cosa intendessero con “terza dimensione”, perché nel film non ve n’è traccia. Mah.

Questo articolo fa parte della Cover Story dedicata a Star Wars, che potete trovare riassunta a questo indirizzo.