Sembra un film
Oggi, se dici a un videogioco che sembra un film, quello s’offende e capace che ti mena. Ma qualche decennio fa era forse fra i complimenti più grossi che gli si potessero fare, perché “sembrare un film” significava trascendere i limiti di pixel e bip bip per provare a raggiungere nuove vette. O forse lo era per me, che ero cresciuto appassionandomi a videogiochi e film mano nella mano e vedevo, più o meno inconsciamente, una forma d’arte matura e completa nella mano sinistra e una ancora largamente in divenire in quella destra. Fatto sta che, quando mi sono messo a pensare a momenti memorabili che avrei potuto raccontare qua dentro, in più di un caso si trattava di momenti in cui ho detto, a me stesso o a un qualche amico, proprio quella frase lì, “Sembra un film”.
Del mio momento memorabile per eccellenza, il primo che m’è venuto in mente quando mi son chiesto se avessi qualcosa da scrivere per questa Cover Story, ho già in qualche modo parlato qua, oltre ad averne sicuramente chiacchierato in centomila podcast (tipo questo, ma non solo) e ad averlo menzionato altrove. Però, oh, è il mio momento memorabile per eccellenza. Che faccio, posso esimermi? No, non posso.
Un po’ tutto Another World è il trionfo del “Sembra un film”. Oddio, no, tutto è un’esagerazione, ma i momenti dal taglio incredibilmente cinematografico, che raccontano sfruttando montaggio, inquadrature, composizione, giochi tra sfondo e primo piano, sono davvero tantissimi e sono tra l’altro quasi tutti perfettamente integrati col gheimplei. Perché sì, c’è quella sequenza introduttiva che all’epoca era tecnicamente pazzesca e oggi rimane comunque super suggestiva, ma il gioco è pieno di passaggi in cui attorno a te succede di tutto e gli strumenti del cinema vengono integrati e riplasmati secondo una nuova forma, più propria del videogioco, seguendo un percorso lanciato da Jordan Mechner e proseguito qui da Eric Chahi. Tutta la parte conclusiva, con gli inseguimenti nella città, l’arena, i due protagonisti che continuano a separarsi e reincontrarsi e quel finale così toccante, è un vero trionfo di narrazione integrata all’azione di gioco. Ma il mio momento memorabile sta prima.
Una volta superata la parte iniziale, coi tentacoli, i vermetti infami e il panterone, il protagonista Lester Chaykin si ritrova catturato dalle creature umanoidi che popolano il pianeta e rinchiuso in una gabbia. Senza che il gioco ti dia alcuna indicazione, inizi a muovere la gabbia avanti e indietro fino a farla cadere, recuperi una pistola e sperimenti con il suo funzionamento, capendo piano piano dove devi andare, come puoi fare a difenderti e che genere di rapporto potrai instaurare con quell’altro alieno che sembra essere anche lui un reietto della società dominante sul pianeta. E se in tante cose Another World è invecchiato, nella sua capacità di comunicarti quel che ti deve comunicare, sia sul piano narrativo che su quello delle regole di gioco, è ancora fenomenale.
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Ma insomma, prosegui verso destra, arrivi in fondo a questo lungo corridoio e ti ritrovi in una stanza con un’ascensore. Il proseguimento dell’avventura si trova al piano di sotto, ma puoi anche decidere di salire e trovare una stanza con una piccola finestrella. Se ti avvicini alla finestrella, parte una breve cutscene che mostra una panoramica sulla città sottostante. È un momento splendido, tremendamente evocativo, che ti fa immaginare e sognare le mille meraviglie di questo mondo alieno. E, volendo, visto l’anno in cui questo gioco è uscito, è anche metaforicamente una finestra sul futuro del videogioco, una promessa di tutto ciò che potrebbe e potrà arrivare negli anni a venire.
Volendo essere pessimisti, potremmo dire che in entrambi i casi si tratta di una promessa non mantenuta, perché poi nel gioco quella città la visiti a malapena e il mondo dei videogiochi non ha fatto necessariamente i passi avanti che magari all’epoca ci immaginavamo. Ma io non voglio essere pessimista, secondo me molte promesse sono state e continueranno ad essere mantenute, tanto dal gioco, quanto dal settore dei videogiochi. E in ogni caso, il punto è l’incredibile senso di meraviglia che quel momento dava. Lo adoravo. Lo adoravo al punto che se venivo ucciso poco dopo e ripartivo dal checkpoint della gabbia, arrivavo all’ascensore, tornavo di sopra e riguardavo dalla finestra. Anche se non serviva a nulla. Perché ci tenevo che quel momento avvenisse nella mia partita. Ogni volta che rigiocavo ad Another World lo facevo. L’ho rifatto anche quando ci ho giocato qualche anno fa con la riedizione su Switch. Che bello!
OK, wow, ho deciso di parlare di tre cose perché temevo che un articolo solo sulla finestra di Another World sarebbe stato breve. #einvece Ma insomma, ormai siamo in ballo, balliamo. In quel momento lì, all’inizio degli anni Novanta, “Sembra un film” era una cosa desiderabile, una cosa a cui ambire, perché segnava un passo evolutivo nel medium. Significava uno smarcarsi dal fatto che solo dieci anni prima nei videogiochi al massimo sparavi agli alieni pixellosi, significava andare oltre i limiti tecnologici che per tanti anni avevano circoscritto la narrazione interattiva a lunghe lasagne di testo, talvolta relegate addirittura al manuale, perché nel gioco non c’era spazio. Ecco, improvvisamente (si fa per dire), ci si poteva permettere di raccontare davvero storie attraverso l’interazione, invece che negli spazi lasciati liberi fra un pezzetto interattivo e l’altro, e di farlo adottando tecniche narrative, estetiche, di movimento pescate da altre forme espressive. E questo portava anche al tentativo di raccontare storie più complesse, ambiziose e di farlo magari anche in generi che in passato non potevano permetterselo.
Ma il secondo momento memorabile che non mi esce dalla memoria e a cui sono aggrappato con tutto l’affetto del mondo arriva da un genere che invece la narrazione l’ha sempre messa al centro, quello delle avventure grafiche. Gabriel Knight: Sins of the Fathers, uscito un paio d’anni dopo Another World, era la creazione di Jane Jensen, game designer che aveva iniziato collaborando a vari altri giochi Sierra e co-firmando con Roberta Williams il più bel King’s Quest di sempre (il sesto). In Gabriel Knight Jane dava sfogo alle sue passioni e tirava fuori questa roba incredibile, mescolando suggestioni horror, lavoro di ricerca e documentazione, afflato romantico e avventura investigativa.
Fra i mille pregi di quel gioco c'era un'attenzione pazzesca al dettaglio, ai piccoli elementi caratterizzanti che davano corpo, sostanza ai personaggi, all'ambientazione. Bersi un caffè e leggere il giornale in avvio di giornata, incontrare il mimo al parco, indagare fra le cianfrusaglie nella soffitta della nonna, essere immersi in quella colonna sonora così evocativa e gustarsi quei piccoli momenti di narrazione così ben coreografati, costruiti, messi in scena. Son qui che ne scrivo e mi passano davanti agli occhi le immagini, le animazioni, mentre sento nelle orecchie la colonna sonora. Che bellezza.
Ecco, in Gabriel Knight a un certo punto la tua strada si incrocia con quella di Malia Gedde. La intravedi per la prima volta attraverso il finestrino di un'auto, un momento assolutamente "Sembra un film", e poi vai a casa sua. Il maggiordomo ti fa entrare, ti porta in salotto e ti dice di aspettare lì. Ecco, mentre sei lì che, appunto, aspetti, Gabriel si alza, passeggia per la stanza, fa ciondolare le mani, osserva i libri, si esibisce in tre o quattro animazioni sicuramente semplicissime ma che la potenza suggestiva di quegli anni mi fa ricordare come molto di più. E soprattutto, ricordo chiaramente di aver commentato quella scena con il mio miglior amico videogiocatore dell'epoca usando quelle parole, "Sembra un film".
Da qui, il passo successivo più ovvio sarebbe forse tuffarsi nella fase Full Motion Video del settore, menzionando qualcosa fra i vari Phantasmagoria, Under a Killing Moon, Wing Commander o, certo, Gabriel Knight II, che utilizzavano attori e riprese "live action" per raccontare le loro storie quando non proprio per mettere in scena il gheimplei. Ma la verità è che, anche se sono tutti giochi più o meno meritevoli, sarebbe impossibile dire di loro "Sembra un film" senza appiccicarci un "E grazie al cazzo". Il punto del discorso, per me, sta proprio in quelle cose che dicevo sopra, nel modo in cui il videogioco riesce a integrare e rendere proprie le tecniche del cinema reinventandole attraverso l'interazione. E quindi no.
E quindi saltiamo invece al 1996, che per me è un po' il punto d'arrivo e di non ritorno per tutto questo discorso. Nel 1996 esce Resident Evil, che è un gioco a cui sono particolarmente affezionato per motivi, come dire, extradiegetici (che ho menzionato brevemente qui). Ma ci sono affezionato pure perché credo sia l'ultimo gioco a cui ho applicato il trattamento "Ti finisco dodici volte perché voglio essere sicuro di aver visto tutto ma anche perché proprio mi ci diverto" che era così tipico delle mie abitudini fino a qualche anno prima, ma che col gonfiarsi delle dimensioni dei giochi avrei abbandonato. E ci sono affezionato anche perché è il gioco che, per carità, pur indubbiamente pescando a piene mani da Alone in the Dark, lanciò nella stratosfera il genere horror. E a me il genere horror piace.
Ma insomma, il fatto è che è anche l'ultimo gioco per il quale, sempre chiacchierando con il solito amico, m'è capitato di esclamare "Sembra un film!". E certo non per quel filmato introduttivo pacchianissimo, no. Siamo sempre lì: Resident Evil ti faceva sentire dentro a un film per come trattava la materia interattiva, per la gestione delle inquadrature, lo sviluppo del racconto, i tempi dei suoi momenti topici, le trovate narrative. Non sembrava letteralmente un film, perché i ritmi e le modalità del racconto erano diversi, ma ti dava proprio quella sensazione di essere il protagonista di un action horror di serie B. Potrei menzionare i momenti chiave che ricordiamo tutti, l'ingresso nella magione, il primo incontro con uno zombi, i cani che sfondano le finestre... Ma il punto non sono le singole scene, è la sensazione generale, l'esperienza che quel gioco sapeva regalarti. Resident Evil faceva con il gheimplei e con la grafica poligonale quello che i giochi menzionati sopra facevano con i filmati, gli attori, i set reali. Faceva qualcosa che prima del 1996 non si era praticamente mai visto, non in quella maniera. E oggi può sembrare goffo, ma lo sembra tanto quanto faceva sembrare goffo tutto ciò che era venuto prima.
Ed era fichissimo.
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Ma fu anche, come detto, il punto d'arrivo di questo discorso. Perché con l'era PlayStation, il mezzo tecnologico aveva superato i limiti imposti dalle generazioni precedenti e a quel punto, immediatamente, accostare "E grazie al cazzo" a "Sembra un film" divenne automatico. Se con Resident Evil c'era stato stupore, qualsiasi gioco successivo che facesse quelle cose, anche quando le faceva in maniera ancora più insistita come Metal Gear Solid, non era più sorprendente, era normale, un sapore acquisito. Al limite si poteva discutere di quanto lo facesse bene.
Non credo mi sia più capitato di pensare che un gioco sembrasse un film, perlomeno non in quei termini. E di lì a breve, "Sembra un film" smise di essere un qualcosa a cui ambire, la concretizzazione dell'idea che con i videogiochi si potesse fare qualcosa di più. Divenne rapidamente routine, quindi poi qualcosa di abusato e infine massima offesa possibile, il nemico contro cui fior di editoriali sulle riviste e talk alla GDC puntavano il dito.
Però, per me, "Sembra un film" ha significato per tanto tempo "Momento memorabile".
Questo articolo fa parte della Cover Story dedicata ai "Momenti memorabili", che potete trovare riassunta a questo indirizzo qui.