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L’Imponente impotenza dei Colossi | Racconti dall’ospizio

Racconti dall’ospizio è una rubrica in cui raccontiamo i giochi del passato con lo sguardo del presente. Lo sguardo di noi vecchietti.

Sembra il tardo pomeriggio di una giornata d’inizio autunno, quelle dove le nuvole fanno da scudo al sole che le illumina di una luce bianca, pura, abbagliante, la natura ancora rigogliosa mentre il cielo comincia a perdere il suo azzurro, come occhi spenti. Quelli di un uomo disperato che guarda il corpo senza vita della sua amata, delicatamente appoggiato su un altare di pietra, accarezzato dalla brezza che culla la pianura davanti ad esso. Una maschera di malinconia e determinazione, un colpo coi tacchi sui fianchi del suo fedele destriero, galoppando verso un destino di cui è totalmente consapevole; contro il volere della propria tribù, accettando il rischio di risvegliare un’entità sigillata, esiliata, umiliata in una terra sconsacrata, per veder esaudito il proprio desidero, distruggendo tutta l’epica effimera dell’eroe senza macchia e lasciando che al suo posto prosperi l’imperfezione morale umana.

Le terre proibite sono luoghi sospesi, dove lasciarsi andare a un flusso di pensiero costante, respirando a pieni polmoni l’aria pungente tipica dei luoghi abbandonati.

Come una Biancaneve di una cultura perduta nello scorrere dei secoli, Mono aspetta, i capelli corvini, la pelle candida, la veste funebre che copre delicatamente il suo corpo esanime. Come si può biasimare Wander? Io al suo posto avrei cercato Satana in persona, disturbandolo mentre beve sangria sulla sua poltrona d’ossa per farmela restituire, perché non c’è bene collettivo che potrebbe asciugare le lacrime di una perdita del genere. Il capolavoro di Ueda negli anni è stato spesso idealizzato come una condanna alle pulsioni perverse dell’uomo, alla sua cieca distruttività, quando per me ne è invece esaltazione, beato sia chi fa a pezzi il mondo per amore. Un Orfeo che vuole riprendersi la sua Euridice senza voltarsi indietro, senza pentimento. Non ho mai provato pietà per i Colossi. Armi biologiche senzienti, artefatti nati dalla magia a protezione dei sedici frammenti in cui Dormin è stato spezzato, imprigionati nei loro corpi perché nessuno osasse liberarli o perisse nel provarci, perdersi e mai più ritrovarsi in questo regno proibito.

Shadow of the Colossus è anche avventura pura, romantica, con un senso dell’eplorazione e del pericolo avvolgente ed esaltante.

Non c’è natura in loro, non c’è anima, o forse c’era prima che ne fossero svuotati per diventare gusci di un occulto potere. Vasi di Pandora. Gigantesche e bellissime, splendide creature create per reagire e opporsi ai desideri più folli degli uomini, in cattività senza possibilità di esistere al di fuori dei loro circoscritti habitat. La spada sacra, rubata al capovillaggio, alzata alla luce del sole per illuminare la via verso queste colonne d’Ercole che solo un piccolo guerriero ha il coraggio di oltrepassare. Intorno a lui resti di civiltà che la terra ha già cominciato a reclamare, altari, templi, città perdute in panorami aspri, laghi artificiali e cascate naturali, foreste rigogliose all’ombra di imponenti canyon. Momenti di totale introspezione, pace, pensiero. La maestosità del paesaggio che vuole incutere costantemente un senso di inferiorità e solitudine, cercando di fiaccare il suo intruso nel morale, incrinargli lo spirito, sussurrandogli nel vento parole di sconforto. «Non ce la farai», «è troppo per te», «stai mettendo in pericolo tutti», «per lei non c’è più niente da fare». Poi il silenzio, mentre il verde si fa oro, la collina muta in duna e l’aria diventa sabbiosa, torbida. La terra trema, un nuovo colosso si palesa.

Il senso di scala è impressionante perché lascia sperimentare tutte le fasi della scalata, dal sentirsi piccoli e indifesi all’essere causa di morte atroce, lasciando spazio solo alla grandezza dell’impresa.

Dal sottosuolo un drago sorge, conquistando il cielo. Le vesciche sul suo ventre gonfie di gas gli permettono di volare, manifestandosi irraggiungibile, divino. Una carezza ad Agro, un cenno d’intesa e poi uno schiocco di redini tese, al galoppo verso il mostro. L’ombra che proietta ne tradisce le dimensioni, eccezionali, spaventose, eppure le mani restano ferme, sicure, una che impugna l’arco, l’altra che incocca la freccia. In apnea, in attesa di quell’istante di vuoto in cui le zampe del cavallo sono tutte sollevate dal terreno. Ora. Le sacche vengono colpite, squarciate liberandone la sostanza al loro interno in una nuvola putrescente. La bestia urla, perde quota, sfiora la sabbia. Wander la punta, le taglia la strada, salta dalla sella per aggrapparsi disperatamente alle ali che ha appoggiato a terra, utilizzandole come quelle di un catamarano in virata. Phalanx, così lo chiamano nelle storie che la tribù si tramanda, riprende slancio, portandosi addosso il suo parassita, velenoso, rabbioso. La scalata è una sfida a Dio, una bestemmia a chi ci ha tolto, strappato, mutilato. Le vie del Signore sono finite. Ne rimane solo una, verso la morte e la dannazione.

La brutalità di un uomo disperato è diversa da quella di un professionista o uno psicopatico (videoludici). Wander mette una forza nei suoi affondi che fa male ai muscoli ed elettrizza i nervi.

A cinquanta metri di altezza, per un attimo, gli occhi di un uomo devastato ritrovano la meraviglia, l’estasi della bellezza, il cuore defibrillato davanti a questa imponente impotenza. Una sensazione di dominio totale nonostante la rivelazione palese della nostra natura di esseri insignificanti che ci lascia dubitanti, bloccati da un senso di vertigine e vuoto. Poi la mano stringe l’elsa, il vento cerca di buttarci giù ma il passo ritorna saldo, un bagliore sotto una pinna dorsale colpisce l’occhio, come la prima volta, dopo essere arrivati sfiniti sulla testa di Valus. I nervi tesi, i brividi, la spada che si alza sul sigillo e poi ricade implacabile. Quel suono orribile. Carne che si lacera e cranio che si spezza. Tormento, condanna. Un fiotto di sangue nero come petrolio che schizza violentissimo dalla ferita, macchiandoci per sempre di un peccato capitale che se fosse necessario reitereremmo mille volte, rinnegando la luce e accogliendo Dormin nel nostro corpo, lasciandoci usare, schiavi, sperando in una promessa flebile. La caduta dei titani è una macabra soddisfazione, il loro peso morto che piomba sulla terra percuotendola fino al nucleo, al midollo. L’uomo ha distrutto ancora una volta qualcosa di più grande e potente di lui. Uno sforzo disumano, muscolare, sfibrante, dove un pad non riesce a mettere abbastanza distanza tra noi e Wander, incapace di anestetizzare certe emozioni, evitare di farci digrignare i denti, sminuirne il senso di scala e d’impresa, fino a quel 2005 praticamente irraggiungibile e dopo solo sfiorato da poche opere elette.

Perché la seconda opera di Ueda è anche quella su cui gli appassionati si sono più ossessionati, fino a cercare nel suo codice anche quello che non esiste? Per le suggestioni che riesce a trasmettere, la sua mitologia sussurrata e mai esplicitata, ben prima che parlare di “lore” fosse cool.

Perché il dramma e la tensione non vanno annacquati come il vino delle peggiori osterie, il racconto ingolfato da ridicole side-quest, la narrazione svilita da gesti meccanici. Shadow of the Colossus diventa grande, enorme e intramontabile grazie a una gestione del ritmo magistrale, lasciando liberi in questa regione ma subliminalmente incanalati verso un nuovo segreto da violare, prendendoci anche il tempo di trottare invece di correre, rilassarci sotto un albero a mangiare un frutto, goderci la maestosità di uno scorcio, osservare con un groppo in gola le colombe che volano intorno alla nostra bella addormentata. Ogni nostro gesto diventa racconto, perché tutto è naturale in un’impresa che si svolge nell’arco di una giornata, terminando con quelle nuvole che finalmente trovano compattezza e decidono di oscurare il sole, caricate dell’energia dei colossi abbattuti, raggi di energia sprigionati dalle carcasse che bucano il cielo. Pioggia, vento, fulmini, freddo. Si aprono i cancelli dell’ultimo sacrario. Occhi fiammeggianti nella tempesta, torre antropomorfa, un monumento alla nostra dannazione.

Guardami.

Il gameplay e l’epica che trovano il loro apice, schivando esplosioni fragorose e ascoltando i suoi lamenti, il battito fuori soglia. L’ultima scalata fino a ritrovarsi aggrappati ai suoi anelli. Malus decide di non attaccarci anche se potrebbe schiacciarci, reprime l’istinto, disobbedisce agli ordini, ci osserva rigirandosi le mani davanti agli occhi curiosi pur nella loro inespressività, quasi ci invita a raggiungere il suo capo avvicinando le dita alla sua spalla, liberandolo da questa non-vita, ridurre la pressione che lo logora dentro, come la caldaia surriscaldata dell’Overlook Hotel, come un cervello asfissiato da un ematoma interno. È in questo istante che la rabbia si trasforma per la prima volta in pietà, di fronte a una creatura plagiata, i piedi ancorati al terreno, prigioniera. Eutanasia e amnistia. Il sacro egoismo di Wander si rivela solo uno strumento per un gesto più alto e nobile, per quanto inconsapevole e consequenziale. Il rituale è terminato. Una parabola che si compie trovando la morte nel cercare di sconfiggerla, rinascendo maledetto tra le braccia dell’amata, senza memoria ma con un paio di corna a ricordargli per sempre cosa dimora in lui, una promessa mantenuta pagando il prezzo dell’isolamento dal resto del mondo, abbandonati dal loro stesso popolo.

Esiliati in un nuovo Eden, l’inizio di una nuova Storia.

Questo articolo fa parte della Cover Story dedicata ai MOSTRI GROSSI, che potete trovare riassunta a questo indirizzo.