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Lo Sherlock di Guy Ritchie è più rispettoso di quanto si creda

Premessa: in questo articolo ci saranno più premesse che articolo.

Seconda premessa: se mi chiedeste chi è il mio eroe della letteratura d’infanzia/giovanile (ma anche senile, mi sa), non avrei alcun dubbio a rispondere: “Sherlock Holmes”.

Incontrai il residente al 221B Baker Street verso la fine delle elementari, quando nella bibliotechina della mia classe vidi che qualche genitore d’avanguardia aveva lasciato oltre che La Fondazione di Isaac Asimov, Il mastino dei Baskerville. Al tempo ero un lettore precoce (a quattro anni e qualche mese, mio padre e mia madre, estenuati dalla mia continua richiesta di raccontarmi “i Topolini” decisero che avrebbero fatto prima a insegnarmi a leggere) e mi ero già passato molta letteratura per l’infanzia: da Senza famiglia (duh!) a Salgari (già meglio), ma non mi ci ero appassionato.

Benvenuto nel mondo dei grandi

Forse era la distanza del vissuto, forse era la confezione edulcorata, in quelle opere non sentivo fomento. Il mastino dei Baskerville, così come La Fondazione, erano invece edizioni standard, “roba da adulti” e ci rimasi sotto: nel giro di pochi mesi divenni uno squalo consumatore di gialli e fantascienza, scoprii le gioie della tessera della biblioteca e, tempo di finire le medie, avevo esaurito le opere di Conan Doyle e Asimov saltellando tra Agatha Christie e Donald E. Westlake.

Eppure, l’investigatore restava inarrivabile.

Del resto, e qui arriviamo alla TERZA premessa, come poteva non esigere pura ammirazione un personaggio che era tracimato oltre l’opera in una maniera che forse non ha uguali nella storia della letteratura: sopravvissuto persino alla volontà omicida del suo autore che dismise i panni del Dottor Watson per diventare il Dottor Moriarty, pur di farlo fuori.

Un personaggio diventato dominatore del “pubblico dominio” che ne chiese la resurrezione (ben prima che esistessero i social e le petizioni #makeithappen) lo plasmò e gli diede i tratti caratteristici a cui lo associamo ma che, appunto, non si trovano nell’opera originale: la frase apocrifa “Elementare, Watson”, la pipa, la mantellina ed il deerstalker indossati praticamente anche al chiuso, laddove nei libri e persino nelle illustrazioni originali ne fa scarso uso.

L’unica concessione che fece al “pubblico dominio” fu l’accettazione dell’agiografia che gli tolse i vizi socialmente inaccettabili ma coerente corollario di una mente attiva oltre il controllabile: lo strisciante autolesionismo e il consumo di stupefacenti (che, tuttavia, diventeranno addirittura fulcro di una serie apocrifa, oltre a venire abbozzati nei film di Ritchie, giustificati in Piramide di Paura e sdoganati dalla moderna serie televisiva).

E’ davvero difficile trovare un lavoro tanto pervasivo di rielaborazione collettiva finalizzata a confezionare un “supereroe” indipendentemente dalle volontà dei titolari dell’opera. Certamente non successe per i protagonisti omerici o delle chanson de geste i quali, oltre ad essere difficilmente riconducibili a una volontà autoriale univoca, fanno del canone la loro spada e la loro armatura; e nemmeno a James Bond, le cui incarnazioni sono vagliate e approvate da eredi e detentori dei diritti. Qualcosa di simile si trova giusto nelle rielaborazioni a cui sono continuamente soggetti Dracula o il mostro di Frankenstein, ma loro sono, innanzitutto, dei “supervillain” a cui solo occasionalmente è concesso agire da (anti)eroi.

Sherlock Holmes no. Sherlock Holmes è un supereroe.

Prossimo acquisto dell’MCU.

E finalmente inizia l’articolo.

La mia prima reazione uscito dalla visione di Sherlock Holmes - Gioco di ombre fu: “ma che cacchio dicono?”.
Il “loro” sottinteso erano quelli che avevano preso in uggia la reinterpretazione di Guy Ritchie e, soprattutto, l’interpretazione sopra le righe, eccessiva, gigiona, iperdinamica e picaresca di Robert Downey Jr. che, evidentemente, aveva trovato un nuovo “amico immaginario” di cui mimare le gesta di fronte ai suoi compari (cioè tutti noi).

A lui non è piaciuto Sherlock Holmes.

Ero indignato di fronte all’aridità di chi non coglieva la gioia quasi infantile che traspare dalla recitazione di RDJ, così evidentemente grato che dopo Iron Man gli concedano DI NUOVO di giocare a fare l’eroe geniale, ammaliante e sociopatico, da sottoporsi a estenuanti revisioni lessicali pur di colorare con accento british le frasi che snocciola mentre schiva, mena e salta da una parte e dall’altra. Divertimento raddoppiato dalla comodità di Jude Law messo a interpretare se stesso nel fare quello che finge “di non volerne sapere mezza” mentre in realtà non aspetta altro che le cose si incasinino ancora di più.

Non riuscivo a capire quale fosse il problema: era volgare? Popolare”? Commerciale? Alla fine parliamo della riduzione cinematografica di un personaggio nato e cresciuto sulle pagine del The Strand Magazine, pubblicazione destinata alla piccola borghesia/alto proletariato e fatta per essere letta ad alta voce da gente alla buona. Seriously?

RDJ era troppo riccio? Jude Law troppo dinamico come Watson? Un volontario reduce di guerra che ha appena finito di dire che “vuole solo tranquillità” e il secondo dopo segue uno strambo coinquilino sulla scena di un omicidio efferato?

Come direbbe Holmes/Downey, nel suo accento british fasullo ma divertito: “Ri.Di.Co.Lo”.

“Jude? Il signore insinua che noi ci divertiamo mentre lavoriamo!”

Ma, comunque, ognuno liberissimo di difendere la purezza ove la vede. Io, da parte mia mi divertii tantissimo e mi diverto tutt’oggi a ri-vederlo, godendo anche dell’interpretazione gigionesca e sopra le righe di Mark Strong nei panni del satanista suprematista Lord Enry Blackwood e di una Rachel McAdams passabile nei panni di Irene Adler.

Apprezzai anche moltissimo il secondo film ma, nonostante la regia più ferma, la presenza di un Jared Harris praticamente perfetto nei panni di James Moriarty e uno Stephen Fry che è Mycroft Holmes tanto quanto RDJ è Sherlock, sulla lunga distanza le re-visioni sono diventate pesanti: colpa di una storia bucherellata, dell’abuso di Slow-mo/Stop-mo e di una Noomi Rapace che… boh… se non aveva voglia di recitare quella mattina poteva anche dirlo.

Ma se me ne fanno un terzo, non c’è manco da dirlo. Ho già il biglietto in una mano ed il popcorn nell’altra, pronto a vedere Holmes scatenare i suoi poteri mentali e guidare i pugni degli sfortunati avversari esattamente dove vuole lui.

Questo articolo fa parte della Cover Story dedicata ai detective, che potete trovare riassunta a questo indirizzo.