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Racconti dall'ospizio #227 - Il danzatore nell'ombra: come Shinobi diventò un'icona arcade

Racconti dall’ospizio è una rubrica in cui raccontiamo i giochi del passato con lo sguardo del presente. Lo sguardo di noi vecchietti.

Il fascino dei ninja, esattamente come quello degli zombi, esula dalla storia contemporanea. In qualsiasi generazione lo si vada a proporre, incuriosisce e attira lo spettatore.

Con una alta dose di carisma, così fece Shinobi nel 1987, quando apparve nelle sale giochi del pianeta, pubblicato da SEGA.

TORIYAAAAAAAAAAAAAAAAA!

Joe Musashi, con i suoi fidi shuriken - o colpi di pistola, doveva avanzare lungo una serie di livelli, salvando degli ostaggi e facendosi largo tra agenti e guardie armate di scimitarre, potendo contare su un singolo utilizzo per ogni livello di una magia “pulisci schermo”, e un attacco melee con la sua katana, che riusciva ad evocare una grande soddisfazione all’atto pratico (nonché a fornire una stratosferica quantità di punti, nel caso si fosse riusciti a usare solo la katana e nessuno shuriken o proiettile in tutto il livello). Ogni due o tre livelli c’era da affrontare un boss enorme, con un piccolo punto debole, e così via fino agli inquietanti stage finali.

La soddisfazione nella sua forma più acerba

Il tutto, condito con ninja dai colori sgargianti e resistenti ai colpi chemancoGoemonIshikawa: sconfiggerli rilasciava una botta di dopamina nel cervello, per quanto magistralmente fosse tarata la loro I.A., e dopo averli visti respingere ogni colpo, finalmente, si piegavano alla nostra katana o alla raffica di proiettili. SEGA aveva già capito tutto e, con un concept di game design semplice e remunerativo, riusciva a raggranellare quantità industriali dei nostri sudati risparmi (o immeritate paghette, a seconda dell’età).

La direzione artistica e concettuale riuscì, con la tecnologia dell’epoca, a creare un piccolo gioiello: la seconda missione, ambientata di notte in un porto, con tanto di agguati da parte di sub e un elicottero come boss finale, catturavano.

Che odio. Che odio!!!

La terza missione iniziava una transizione verso una ambientazione più classica giapponese, con un boss hi-tech protetto da uno stuolo di Buddha elettronici; la quarta missione cominciava a spiegare al giocatore che era il momento di inserire un altro gettone. Pozzi senza fondo in continuazione, uomini rana che tentavano di fartici cadere, nemici posizionati in formazioni sempre più scomode e abbondanti, con un vero e proprio samurai in armatura come boss.

Una impennata di difficoltà per una missione strappagettoni, ma mai quanto l’ultima, infarcita di ogni possibile ostacolo sleale, come ninja rotolanti dall’alto, fossi enormi, piccolissime piattaforme avvolte da burroni, in cui salvare gli ostaggi e schivare le scimitarre boomerang delle loro guardie. Il culmine di tutto ciò era un boss da sconfiggere imparando una coreografia di movimenti perfetta, onde evitare i fulmini emessi dal suo corpo, oltre ai suoi colpi.

Perché non esiste un gioco dedicato al tizio con la scimitarra?

Due anni dopo, nel 1989, arriva il seguito di Shinobi.

Si chiama Shadow Dancer, ha uno stile completamente diverso e una meccanica divertente e innovativa: un cane. Esattamente come per il pastore tedesco inserito in pompa magna e conferenze stampa in Call of Duty, in questo sequel abbiamo un fido cane bianco - di nome Yamato - che ci aiuta nella gestione dei livelli, in aggiunta a tutto il pacchetto del primo gioco.

Tutorial, 1989 edition.

Basta abbassarsi e premere il tasto di attacco per ordinare al cane di attaccare il più vicino nemico davanti a noi, che smette quindi di attaccarci per un breve periodo di tempo, dandoci modo di sconfiggerlo senza correre rischi. Dobbiamo però essere rapidi: se indugiamo troppo, il cane viene ferito, diventa un cucciolo e non possiamo più inviarlo all’attacco; se disinneschiamo una bomba - già, qui non ci sono ostaggi - ripristiniamo la sua forma attiva.

Le ambientazioni sono completamente diverse rispetto a quelle al primo gioco: si passa da un aeroporto preda di un attacco terroristico a palazzi in rovina, quartieri di città che ricordano Detroit in Robocop 2, con un’identità grafica ben definita e dei boss carismatici alla pari di quelli del titolo precedente.

Robocop 2. No asp…

Tutti gli ingredienti della hit arcade erano presenti anche qui: diventare maestri del gioco richiedeva di imparare a memoria le posizioni dei nemici e le coreografie da seguire per battere i boss; tornava il livello bonus con la visuale in prima persona, presente anche nel primo gioco, con una impennata finale di difficoltà che, in caso di successo, forniva un’agognata vita extra; e tornava anche il capannello di persone che si formava dietro al cabinato quando “c’era uno bravo che è arrivato alla quarta missione con un gettone”… Elementi che facevano felici tutti: SEGA, il gestore della sala giochi, gli astanti e il giocatore.

L’illusione di farlo tutto perfetto e pregustare la vita extra, per poi perdere agli ultimi due ninja con una impennata di difficoltà illegale in novantanove paesi.

E adesso, nel 2019, mentre giocherete a Sekiro, avvierò il mio fidato MAME e farò partire Shinobi e Shadow Dancer, con buona pace del gestore della sala giochi che, in cambio della mia sudata banconota da mille lire, mi dava quattro gettoni e tanta felicità.

Questo articolo fa parte della Cover Story dedicata a Devil May Cry e alle pizze in faccia alla giapponese, che potete trovare riassunta a questo indirizzo.