Silent Hill 2, il mio privato Otherworld | Racconti dall'ospizio
Racconti dall’ospizio è una rubrica in cui raccontiamo i giochi del passato con lo sguardo del presente. Lo sguardo di noi vecchietti.
N.B. Questo racconto di celebrazione a vent’anni dalla pubblicazione di Silent Hill 2 (Konami, PlayStation 2, 2001) è disponibile anche in formato audio, narrato dallo stesso autore. È possibile ascoltare l’audioracconto tramite il player integrato in questa pagina.
Durante l’autunno 2004 ho attraversato per la prima volta Silent Hill 2.
Nella mia testa ubriaca di pregiudizio l’opera di Konami era stata relegata in una dimensione estetica targata 2001, per cui da considerare acerba in quanto proveniente da ingenui sviluppatori alle prime armi con una PlayStation 2 ancora tutta da scoprire. La spessa banda argento della mia versione Director’s Cut poi, che circondava la cover nera originale rimpicciolendola e regalandole un’impressione da seconda scelta, contribuiva fortemente al mio bias.
Avevo completamente saltato il primo Silent Hill, e questa seconda iterazione della serie era rimasta ferma lì, da mesi, allineata fra gli altri titoli della mia videoludoteca, polarizzando la mia attenzione da una mensola smaltata di bianco sporco, chiamandomi a sé come un universo che prima o poi avrei dovuto affrontare. Non avevo la minima idea di dove mi avrebbe condotto, tanto meno la mia curiosità al tempo presagiva sentori di quello che poi avrei ricordato come uno shock: l’impatto con un costrutto digitale che faceva delle proiezioni mentali in una dimensione infernale il proprio linguaggio d’arte, nonché la prossimità con personaggi finzionali - intensificata dalla traslazione metaforica dei loro drammi in aberrazioni interattive – erano istanze che mai prima di allora avevo sperimentato.
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Silent Hill 2 era la sporcizia del suo filtro grafico, la patina nervosa che disturbava i suoi ambienti psicotici, la sensazione di rarefazione e di metafisica sospensione data dalla sua nebbia che danzava oltre lo spesso pannello di vetro convesso di un televisore CRT. Silent Hill 2 era il ricettacolo degli irrisolti e dei rimorsi dei suoi personaggi trasformati in punizioni autoinflitte, la repressione sessuale tradotta negli accoppiamenti di manichini disarticolati, la persistenza di memorie colpevoli generanti allucinazioni e concrezioni di mostruosità da affrontare nella forma di nemici fisici e mentali. Infine, Silent Hill 2 era la sua pasta sonora melanconica e umbratile che distillava una tensione capace di esplodere in un incubo rorido di una febbre mesmerizzante, quando tutto si faceva infernale. L’immergermi per la prima volta nel suo universo dava vita a un’avventura estetica morbosa, e al contempo ammaliante.
Ma esiste una consapevolezza che più vividamente ritorna indietro, quando penso al mio primo attraversamento di Silent Hill 2: pur non avendo mai vissuto un’esperienza di mondo buona a comprendere cosa potesse intimamente significare la disperazione che conduce a un omicidio coniugale, in quel periodo io vivevo ambiti di vita nei quali la malattia agiva da oppressore, imprigionando e degenerando ogni cosa.
MY OWN PRIVATE OTHERWORLD
L’autunno 2004 segnava due anni che lavoravo a stretto contatto con una persona che, oltre ad essere il mio datore, aveva sviluppato una malattia che se la stava portando via. Dopo un primo intervento chirurgico che le aveva permesso di rientrare al suo posto di comando, e dopo aver orgogliosamente rifiutato ogni supporto psicologico specializzato, questa persona aveva iniziato a utilizzare gli spazi lavorativi per sfogare il proprio livore esistenziale, obbligando i suoi collaboratori a fronteggiare i suoi sbalzi d’umore, a bere i rigurgiti delle sue rivendicazioni acide, a farsi carico dei suoi stati d’animo alterati all’interno di un luogo in cui tutti erano assunti con contratti di collaborazione periodicamente da riconfermare.
Nel giro di qualche mese avevamo visto questo essere umano trasformarsi come il giorno nella notte: il rispetto, l’affetto e la grande umanità mostrati all’inizio verso i suoi subordinati s’erano trasformati in abusi, umiliazioni, diffamazioni, ricatti psicologici e professionali. A tutti era divenuto evidente come le sue trasformazioni caratteriali, le sue direttive isteriche e le sue pretese nevrotiche provenissero da una mente ciclotimica, fuori ormai da ogni grazia e stabilità. Ma che un luogo di lavoro venisse sfruttato come uno spazio di sfogo e rivendicazione personali non scalfiva minimamente un consiglio di amministrazione il quale, preoccupato solo di non assumersi responsabilità dirette e di continuare a vedersi garantiti i propri tornaconti privati, permetteva a tale persona di accentrare ogni potere e di perseverare nell’esercitare un principio di controllo malato.
Col passare dei mesi la prossimità e l’intimità con le disforie di questa persona erano divenute sfiancanti. Una sua diffidenza, il minimo sospetto verso qualcuno erano sufficienti per condurre a una ritorsione, a un ricatto personale. Così come una parola captata, una risata echeggiante dietro una porta, un vestito a sua detta troppo rivelatore o uno sguardo male interpretato generavano in lei scenari mentali che potevano sfociare nella diffamazione, nella distruzione reputazionale, sino alla non-riconferma o alla rescissione di contratto. Sballottati tra le responsabilità professionali e le sue macchinazioni malate, non era difficile vedere frotte di collaboratori precari aggirarsi tra le stanze come gatti terrorizzati.
A volte, spinto da uno slancio di umanità, nell’assistere a questa persona che malediceva l’universo creato per poi esplodere tra livore e lacrime, mi ritrovavo solo con lei, nel suo ufficio, alla ricerca delle parole giuste per confortarla. Trascinato da forti sentimenti di pietà, un pomeriggio mi ero naturalmente ritrovato a stringerle una mano, ad avanzare un gesto fisico di contatto per farle sentire la mia vicinanza e per calmarla, ritrovandomi anch’io a lacrimare.
Ciò di cui al tempo non mi rendevo conto era come il mio piccolo posto di lavoro fosse divenuto la materializzazione dell’Otherworld di Silent Hill, un piano di esistenza generato da una malattia subdola, che infettava la realtà. Era un’invasione di una dimensione da parte di un’altra dimensione, un limbo modellato dalla mente di un essere umano che dava vita - come poi avrei trattato in una delle riflessioni presenti nel volume #2 di Ludenz, Memorie - ad uno sconfinamento psichico.
Nell’autunno del 2004, diviso tra la giustificazione, l’umana comprensione e lo sfinimento mentale, in qualità di impiegato per una piccola impresa (esattamente come il nostro James Sunderland) sentivo di stare per crollare. L’esperienza di vita che registravo a lavoro era divenuta il contatto sensibile, umano e antropomorfizzante che stabilivo con le narrazioni messe su da Silent Hill 2. Nessun’altra iterazione della saga di Konami avrebbe mai più aperto un rapporto così intimo con parti esperienziali della mia biografia personale. Così come nessun’altra esperienza psicologica di sopravvivenza all’orrore avrebbe mai più tracciato un allineamento così epidermico tra la mia vita fisica e quella vissuta in una dimensione digitale.
Il medium che permetteva questa connessione era un’opera videoludica giapponese permeata di malattia - patologica, traslata nella carne - di cui era intrisa ogni sua parte. Tornando dall’ufficio, chiudendomi nel buio della mia stanza e attraversandola, io sguazzavo in questa malattia, incorporavo questa malattia, realizzavo James Sunderland quale simulacro circondato da un’oppressione che prima o poi sarebbe esplosa, data la sua incapacità di ammettere, incamerare e sostenere la coscienza di ciò che aveva compiuto. Il protagonista omicida di Silent Hill 2 era per me un individuo umanamente impossibilitato a continuare a gestire e sopportare segretamente tutto lo schifo che nella sua negazione in malafede aveva ingurgitato.
Io conoscevo ciò che il videogioco non mostrava, ma che psicologicamente su di lui operava. Lo conoscevo per similitudine epidermica, per istanza empatica, quando a lavoro, nel tentativo di giustificare ciò che accadeva e mettere in gioco la mia umanità, puntualmente venivo bruciato da una rivendicazione acida. Lo conoscevo quando gentilmente chiedevo il permesso di uscire dall’ufficio per chiudermi in bagno, così da poter aprire una finestra e respirare durante un attacco di panico. Lo conoscevo quando dopo una diffamazione, una brutta umiliazione ricevuta o dopo l’ennesima minaccia di rescissione di contratto, nei miei colleghi vedevo i segni dello sfinimento mentale.
Era forse per questo che, durante le mie sessioni di gioco, c’erano momenti in cui il viaggio attraverso James - così come dentro gli altri personaggi che promuovevano istanze empatiche nei videogiocatori affinché potessero proiettarvisi - mi risultava a tratti fastidioso, troppo intimo e privato. L’avere una pistola o un fucile carichi di munizioni, fronteggiare l’orrore o addirittura pensare di risolvere tutta la malattia con un’arma, era semplicemente un’istanza idiosincratica, che non funzionava. Facendomi largo tra gli appartamenti Wood Side e l’Ospedale Brookhaven, tra la prigione Toluca sino al fatidico sfociare al Lake View Hotel, tanto erano prossime alla realtà psicologica della mia vita che dentro me ero giunto a pensare che certe istanze umane semplicemente non avrebbero dovuto essere giocate. Che certi drammi interiori di individui che accusano abusi, ossessioni, complessi, psicosi e disturbi post traumatici, avrebbero dovuto essere seguiti da specialisti della mente, e non lasciati - ludicamente - maneggiare da chi non aveva l’esperienza (umana) di gestire la materia (umana) di cui erano plasmati.
Nell’autunno del 2004 io attraversavo Silent Hill 2 proiettandovi l’insostenibile dramma psicologico e umano nel quale ero infognato a lavoro, rimandando il giorno in cui tutto sarebbe esploso. Come in fondo durante quel periodo era già accaduto a molti di quei collaboratori che alla fine s’erano arresi, costretti a strozzare, a soffocare, a uccidere anni di relazione professionale tagliandosi fuori da tutto, licenziandosi o lasciandosi licenziare, al fine di preservare la sanità mentale ancor prima della propria dignità umana e professionale.
È stato sul finire dello stesso anno quando anch’io, pseudo-James Sunderland vivente in questa dimensione materiale, alla fine ho abdicato. Nessun finale Leave, Rebirth, Dog o Ufo al termine della mia avventura professionale. Nessun sentimento di vendetta, nessuno infine è stato fatto fuori, fisicamente parlando. Ma molte delle cose che in anni di relazione umana e lavorativa avevo costruito e curato con dedizione e amore sono morte dentro, soffocate per insostenibilità.
A vent’anni dalla sua pubblicazione posso dire che è stato questo il mio Silent Hill 2. Un’opera che a buon diritto posso definire il mio Otherworld privato.