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Quei pomeriggi tra Silent Hill, PES e MTV | Racconti dall'ospizio

Racconti dall’ospizio è una rubrica in cui raccontiamo i giochi del passato con lo sguardo del presente. Lo sguardo di noi vecchietti.

Possono due survival horror essere tra i giochi preferiti di chi non ha mai (o quasi) giocato un survival horror in vita sua? È il 2003, su MTV passano in heavy rotation Hey Mama dei Black Eyed Peas, In tha Club di 50 Cent, Somewhere I Belong dei Linkin Park ma soprattutto Verofalso di Paolo Meneguzzi, di cui ricordo ancora distintamente la modella protagonista del videoclip perché insomma, va bè, lasciamo stare, non distraetemi. Avevo circa tredici anni, e ero nel pieno di quel periodo infame e putrido dove esplodono contemporaneamente pubertà e problemi psicologici, chiamato anche “scuola media”. Era praticamente la scuola-tipo dei Persona nella mia testa. Una roba demoniaca. Fatto sta che come in altri pessimi periodi della mia vita i videogiochi sono stati un’ancora di salvezza benefica; i primi anni di PS2, gli anni d’oro del grande Game Boy Advance. Da quel punto di vista si stava bene insomma, niente da dire.

Parliamoci chiaro, sembra la location di un film horror. A volte sogno ancora di essere in quelle aule.

Il tutto si concretizzava nel weekend, anche perché in quel periodo mio fratello Ale, di dodici anni più grande, aveva raggiunto il suo picco di presabene videoludica. Giocavamo tutto il pomeriggio, tra partite a PES 3 che potevano diventare anche particolarmente violente, verbalmente e fisicamente, e pericolosissime sfide a “pallina” nella camera dei miei, con una mini palla da calcio gonfiata a 6000 atmosfere, un “campo” di 3 metri per 1 e grandissimi calci sugli stinchi (con vari soprammobili rotti a referto, com’è ovvio), per poi darci una calmata e passare ore di ansia e terrore in silenzio davanti a Silent Hill 3; tapparella abbassata, io sul letto, lui per terra, entrambi a circa un metro e mezzo dalla TV, fluorescenti al buio. Di Silent Hill 3 in sé ho dei ricordi piuttosto vaghi, ma quello che ricordo chiaramente è la condivisione dello spavento, la strizza da co-op asimmetrica dove lui era l’attore e io lo spettatore, seguendo tutto con la soluzione di PS Mania a portata di mano (ma da usare solo in caso di vera emergenza), aspettando solo il prossimo “momento cagarella”.

Adoravo quelle giornate! Del gioco in particolare ricordo che mi ero affezionato molto al personaggio di Heather, empatizzavo parecchio con le sue sfighe e i suoi tormenti che ai miei occhi, in quel periodo così bizzarro, la rendevano particolarmente dolce e senza speranza, molto umana. E in effetti mi è rimasta la fascinazione per quel tipo di personaggio, anche nei miei gusti cinematografici.

Che occhiaie, sorella: ti sono vicino!

Sull’onda dell’entusiasmo, qualche mese dopo, era già il 2004, trovai Silent Hill 2 in versione Platinum, a due spicci. Ne avevo sempre letto come di un capolavoro e, insomma, chi scriveva sulle riviste dell’epoca aveva sicuramente ragione, c’è poco da dire. Il contrasto dell’alternanza PS2-TV era ancora più spiazzante dell’anno precedente, con le vicende del tormentato James Sunderland e la straordinaria colonna sonora di Akiri Yamaoka che bilanciavano Dragostea Din Tei di Haiducii, Yeah! di Usher e Calma e Sangue Freddo di Luca Dirisio, voglio dire (ma forse è meglio se non dico); tutta musica che mi ha sempre fatto molta più paura della nebbia di quella cittadina, per inciso. Semplicemente il secondo capitolo era su un altro livello, rispetto al terzo ma anche a quello che ero abituato a giocare all’epoca (soprattutto JRPG, platform e racing).  Un’opera raffinata, splendidamente sceneggiata e molto avanti sui tempi (e sui temi), di cui ancora non coglievo tutte le sfumature e interpretazioni, confrontandomi e teorizzando con mio fratello mentre, dalla mia posizione di spettatore, mi concentravo sui dettagli.

Un’esperienza che ha piantato nella mia testa il seme di quella che è poi diventata una mia enorme passione, quella per l’horror/thriller psicologico sospeso tra realtà e sogno (delirio), che si sarebbe tradotta anni dopo nel culto di David Lynch, guida spirituale totale della mia vita. Avrei collegato anni dopo Silent Hill 2 a Strade perdute e forse la cosa più sorprendente è che il confronto esalta ancora di più l’opera del Team Silent, capace di dare un’interpretazione assolutamente personale alle tematiche sollevate dal regista statunitense. C’è qualcosa in quella nebbia, in quel racconto di dolore, amore, morte e senso di colpa che rimane quasi insondabile, inafferrabile e terribile; qualcosa che ricordava quegli atroci casi di cronaca che nei primi del 2000 invadevano i TG. Ho sempre trovato che questo capitolo riuscisse a giocare con la mente del giocatore in un modo perfido ed elegantissimo, lasciando che fossero le suggestioni e i sussurri a inquietare e insinuare, molto più che l’azione o la direzione artistica, rendendolo tout court uno dei migliori esempi dell’horror, indipendentemente dal media. Da pelle d’oca.

AAAAARGH PYRAMID HEAD!! Ah no, scusate, immagine sbagliata…

Per carità, io oggi continuo a schivare i survival horror puri con grande agilità, ma sarò sempre grato a Silent Hill 2 di aver condizionato i miei gusti ed essere diventata una di quelle esperienze da portare nel cuore per tutta la vita. Senza soluzione di continuità e sempre più estasiati dalla serie, lo stesso anno iniziammo anche Silent Hill 4: The Room, che per me ha delle idee geniali e concettualmente fortissime, ancora di più a pensarci oggi dopo pandemia e lockdown, con la casa che da rifugio diventa una prigione, la cui unica uscita è verso l’ignoto e l’orrore. Quei cambi di prospettiva, l’appartamento vissuto in soggettiva che dinamicamente evolveva provando a digerirci man mano che il racconto sprofondava nel vivo, la finestra che dai piani alti del condominio mostrava la vita di una normale città scorrere, incurante del disagio del protagonista, nella sua irraggiungibile normalità. Molto suggestivo. Vorrei tanto rigiocarci, anche perché i problemi strutturali del gioco ci hanno portato a perdere un po’ interesse prima della fine, quando stava diventando abbastanza frustrante e macchinoso (passammo a Splinter Cell poi, tutta un’altra roba).

Tutte le cose belle finiscono d’altronde e, in fondo, anche la serie da quel momento è entrata in una lenta spirale involutiva (almeno per quello che percepivo dalle riviste, non avendone più toccato uno), con Konami che riassorbì Team Silent e affidò poi i capitoli successivi, Origins (2007), Homecoming (2008), e Shattered Memories (2009) a Double Helix e Climax (dove il lead designer e scrittore era un certo Sam Barlow, quindi qualcosa di buono c’era), segnando la fase “occidentale” della saga e uno sfruttamento annuale del brand che fece perdere gradualmente interesse al pubblico, almeno fin quando le redini non passarono a Kojima e Del Toro, ma sappiamo bene come andò a finire.

“Senti, Hideo, ci sarebbe questo progetto…”

Per me Silent Hill è l’inizio dell’adolescenza, pomeriggi di serenità in un periodo comunemente complicato, legami fraterni che nonostante l’età, gli scazzi, le vite che diventano sempre più indipendenti non potranno mai essere spezzati. Non sei più quella Konami, certo, ma lo sei stata, quindi grazie per tutta la nebbia e per gli Adriano con 99 di tiro. Ma grazie anche a Meneguzzi e Dirisio, che mi hanno fatto capire l’importanza del tasto “muto” del telecomando.

Questo articolo fa parte della Cover Story dedicata a Konami, che trovate riassunta a questo indirizzo.