Paperback #33: Soul Eater, un trattato disegnato sull'eccesso negli shonen
Paperback è la nostra rubrica in cui parliamo di libri e fumetti non legati al mondo dei videogiochi. Visto che per quelli legati al mondo dei videogiochi c’è quell’altra.
Smettere di leggere gli shonen, capire di essere ormai troppo adulti per leggere e comprare fumetti giapponesi per maschi in età adolescenziale, è un punto sempre molto triste dell’esistenza. Non tanto per questioni di maturità artistica o, se vogliamo, pure di coerenza narrativa, quanto per la consapevolezza di perdere tempo di fronte a lavori che, in fin dei conti, hanno sempre gli stessi elementi in comune, reiterati fino allo sfinimento. Personalmente, questo pensiero mi è sopraggiunto per la prima volta dopo aver guardato i circa quaranta tankobon di Bleach che avevo in libreria; in tutti quei volumetti, erano stati affrontati appena due archi narrativi, due saghe che si sovrapponevano poi alla perfezione per le dinamiche che li caratterizzavano, cioè i rapimenti di Rukia e Orihime, principali protagoniste femminili, che poi sarebbero state tratte in salvo dall’eroe del manga, Ichigo e il suo spadone. Che a sua volta era l tipico protagonista a metà fra l’underdog che non molla mai e l’inconsapevole prescelto di turno. Dunque, cosa c’era in mezzo a tutti quei capitoli, a parte le scazzottate? Nulla, a parte le scazzottate – e uno sbilanciamento del protagonista talmente sgravato da far rivalutare in un attimo i prodigiosi allenamenti a gravità cento di Goku.
D’altra parte sempre sullo stesso filone fatto di shinigami e spade, in quegli stessi mesi degli anni del liceo stavo leggendo un altro manga, Soul Eater. Di fondo, come già detto, era molto simile a Bleach (più una spruzzata di Harry Potter, un fenomeno in piena all’epoca dell’uscita giapponese di Soul Eater, nel 2003) non solo per l’estetica, ma anche per tutti quei cliché tipici degli shonen (seni prorompenti, allenamenti miracolosi, decessi effettivi centellinati, protagonista mangione e via discorrendo). Eppure, Soul Eater non mi faceva mai staccare gli occhi dalle sue pagine, anche nei momenti di maggiore disaffezione dai manga in generale. Rileggendo quelle pagine, il motivo di quella sensazione mi è forse più chiaro, ed è riconducibile al gusto per l’eccesso che trabocca in ogni componente stereotipica di Soul Eater. Amanti dei seni sconfinati? Ecco una porno-gatta-strega in vasca da bagno nelle primissime pagine. Ragazzini che credono talmente tanto in loro stessi da superare qualsiasi avversità? Check, e si chiama pure Black Star, proprio come certi imbarazzanti indirizzi su hotmail.com. Armi mirabolanti? Sono i protagonisti stessi a diventare delle armi.
Una dialettica dell’eccesso, però, subordinata a un racconto che è prettamente fumettistico, per come riesce a catturare: disegni per lo più bellissimi , con un tocco gotico che va appesantendosi capitolo dopo capitolo; Soul Eater, una volta superati i primi volumi, inizia a inquietare per davvero per certi disegni, dove disagio e stereotipi da shonen convivono in una perfetta armonia. È un’estremizzazione di moltissimi degli elementi del proprio media di riferimento, da cui non si distacca mai, finendo anzi per amplificarne ogni sua componente: il racconto dei (ben) tre protagonisti, incasellato alla perfezione in archi narrativi brevi ma intensissimi, forse fra gli aspetti più riusciti di un manga che si prende sul serio soprattutto quando mette al centro delle pagine le più vistose cazzate rimproverate agli shonen, finendo per ingigantirle fino all’estremo. Riguardando la mia libreria e sfogliando le pagine di Soul Eater, per la prima volta nel rileggere un mio vecchio shonen, non mi è capitato nemmeno per un istante di pensare “minchia, che cazzate leggevo una volta”. Piuttosto: “minchia, che fantastiche cazzate che leggevo una volta”.
Questo articolo fa parte della Cover Story dedicata a Devil May Cry e alle pizze in faccia alla giapponese, che potete trovare riassunta a questo indirizzo.