I vestiti nuovi dell'imperatore | Spoiler Zone
Una rubrica in cui parliamo di giochi, film, libri, la qualunque, a posteriori, senza farci alcun problema di spoiler, in questo caso riguardo a Star Wars: L’ascesa di Skywalker. Se non avete ancora "consumato" ciò di cui si parla, statene alla larga, perché qui potremmo svelarvi ciò che non volete sapere!
Con ogni probabilità, quando leggerete questo pezzo sarò già arrivato alla quinta visione di Star Wars: L’ascesa di Skywalker, questo nonostante non sia andato ai pazzi per la chiusura imbastita da J.J. Abrams, e al netto che i fan veri sono altri.
E allora perché? Perché accumulare così tante proiezioni in una manciata di giorni? Perché sono un coglione? Probabile. Anzi, sicuro, ma non solo. La verità è che ancora una volta c’è di mezzo il rito, perché Star Wars, nel bene o nel male, resta uno dei punti cardinali della cultura pop degli ultimi, boh, quarant’anni, e l’uscita di ogni nuovo film della saga costituisce un piccolo grande evento. Un evento di quelli che la gente organizza i gruppi dedicati su WhatsApp, tipo, e che pesca a strascico dai buongiornisti ai nerd più sfessati, senza distinzioni tra destra o sinistra sopra o sotto, nonostante la storia parli effettivamente di quella cosa lì, in quel modo lì. Eppure, oh.
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Tornando al sottoscritto: tra una visione con gli amici vecchi assieme ai quali, bene o male, è partito un po’ tutto; quella con la morosa che fino a qualche anno fa non aveva mai visto uno Star Wars (sembra un cliché, eppure…); quella in lingua originale con gli outcazzari; l’anteprima stampa, la gita a Melzo col capo, per il gusto della super combo su schermo gigante. Come potete vedere, arrivare a cinque è un attimo. Ma perché proprio Star Wars e non, che ne so, Ritorno al futuro, Star Trek, Harry Potter o Il Signore degli anelli, che pure ne condividono radici, taglio e numeri?
La verità è che la saga del regista di Modesto, per tutta una serie di ragioni che vanno a intrecciarsi tra loro, alcune programmate, altre (molte) più o meno casuali, è la cosa più simile a una manifestazione religiosa che sia saltata fuori dalla cultura pop negli ultimi anni.
Partiamo dall’inizio. L’idea di fare una roba sci-fantasy à la Flash Gordon ballava in testa a Lucas ancora prima della lavorazione di American Graffiti. Nel 1971, il nostro aveva messo gli occhi proprio sui diritti del personaggio di Alex Raymond, mollando la presa per limiti di budget e controllo creativo.
Poi, tra il 1973 e il 1974, George se ne uscì con questa sceneggiatura un po’ ingombrante che conteneva già Sith, repubblica e impero, con tanto di backstory dedicate ai vari personaggi. Da lì, dandoci di sottrazioni e compromessi, prese forma il film del 1977, che in caso di successo (spoiler: c’è stato), avrebbe dato il via alla lavorazione di due sequel, con dentro l’addestramento del protagonista e tutto il resto.
In pratica, il primo Star Wars fu un vero e proprio episodio pilota, piantato su una trama verticale ma tranquillamente modulabile in orizzontale, secondo quello che, nelle intenzioni originali del regista, doveva essere un percorso drammaturgico in tre atti di tesi, antitesi e sintesi. La medesima struttura che, nel corso degli anni, ha finito per dare il la a un vero e proprio sistema metrico che attraversa l’ennalogia, dove i film entrano in rima tra loro secondo giochi di tre, o multipli di tre, seguendo la cosiddetta legge della triplicazione, che regola buona parte delle fiabe e dei racconti mitologici, e conseguentemente un sacco di cerimonie sacre.
Questa simmetria ritmica rappresenta il nostro primo gancio verso il mistico. Altri arrivano direttamente dalla tradizione cristiana e da quella ebraica, da cui il lore di Star Wars ha attinto a piene mani (del resto, tipo quasi tutte le religioni in circolazione, si sono fregate roba da quelle venute prima). Se tutta la faccenda dell’equilibrio della forza a base di prescelti e cadute è un cliché, diciamo così, “eucaristico”, e l’intero ordine dei Jedi è stato parzialmente modellato, fino all’epilogo di Episodio III, attorno a quello dei templari, alcune caratteristiche dei nostri fratacchioni, così come quelle dei loro cugini Sith, evocano un immaginario di stampo giudaico evidentemente noto allo sceneggiatore Lawrence Kasdan, che prima de Il risveglio della Forza aveva lavorato a L'Impero colpisce ancora e a Il ritorno dello Jedi, oltre ad essere stato per parecchio in fissa con l’arca dell’alleanza. Immaginario, tornando a bomba, evidentemente noto pure a J.J. Abrams, da sempre orgoglioso delle proprie radici ebraiche.
Uno dei trick più noti tra il fandom, in questo senso, è legato al costume di Darth Vader. Se l’elmo del signore dei Sith rimanda a quello dei samurai in via delle opere di Kurosawa eccetera eccetera, parte della veste ricorda parecchio l’efod, un paramento ebraico indossato dai sacerdoti di alto rango. Come se non bastasse, la leggenda vuole che al centro della piastra di sostentamento vitale sarebbe incisa, in caratteri ebraici arcaici, la seguente maledizione: “Le azioni non saranno perdonate finché egli non lo meriterà”.
Io purtroppo conosco a malapena l’italiano, quindi posso solo riportare le robe che sento come un cagnolino. Però nessuno può impedirmi di fare comparazioni a caso; di notare, ad esempio, come Vader risponda alle caratteristiche simboliche del golem, o che il personaggio del Conte Dooku e quello dell’imperatore evochino tutto un filone di mitologia vampiresca che, tra la fine dell’Ottocento e i primi del Novecento, è stata appiccicata agli ebrei con intenti brutalmente razzisti, e in seguito rielaborata da Hollywood, non si capisce se in buona o cattiva fede.
Pure, sarebbe tanto, tanto carino prendere l’idea dei due rabbi-Sith alla guida di un regime deliberatamente nazista come un sofisticato esempio di satira politica, ma in mancanza di prove, mi tocca puntare sulla casualità pop e pedalare.
È anche vero che quando parliamo di Star Wars, parliamo di una macedonia postmoderna talmente zeppa di roba che cristianesimo e ebraismo sono solo due tra gli ingredienti misticheggianti, a fianco di buddismo, shintoismo e tutta una serie di droghe new age.
Nel frullatore è finita pure un sacco di estetica western, e più che dalle parti della space opera, direi che siamo in zona space fantasy. Soprattutto la trilogia classica, che attinge a piene mani dai lavori di Edgar Rice Burroughs, oltre che dal suddetto Flash Gordon, mentre i pipponi asimoviani entrano in gioco a partire dai prequel, con l’ampliamento della dimensione politica e quel gigantesco omaggio a Trantor che è Coruscant.
Volendolo isolare, però, il nucleo dell’intera saga è immerso fino al collo nei lavori dello storico delle religioni Joseph Campbell, tanto di moda tra gli studenti sballoni della University of Southern California School of Cinematic Arts, tipo John Milius, Steven Spielberg e lo stesso Lucas, naturalmente.
Le ricerche di Campbell sono le stesse che hanno guidato le mani di Christopher Vogler mentre batteva a macchina il suo manuale di sceneggiatura, Il viaggio dell’eroe, che partendo dalle narrazioni mitologiche e folcloriche di cui sopra, ha condensato tutto un sistema mobile di regole e ruoli attanziali per costruire un racconto soddisfacente in tre macro atti: partenza, iniziazione e ritorno.
La trilogia classica di Star Wars rappresenta un’applicazione modello di questi meccanismi, mentre potremmo definire i prequel e i nuovi film come una serie di variazioni sul tema, rigorosamente in rima, e in generale attribuire all’intera opera di Lucas lo stato di mito contemporaneo, che si trasforma in rito nel momento in cui viene lanciata in sala o sullo schermo di casa.
Da questo punto di vista, tanto per tornare al ragionamento da cui siamo partiti, l’uscita di ogni nuovo Star Wars è sempre motivo di aggregazione e, mai come oggi, innesca una liturgia collettiva in cui il tam-tam social affianca, o fa le veci, della chiacchierata appena fuori dalla sala o al bar.
È successo prima, e sta succedendo giusto in questi giorni per L’ascesa di Skywalker: tutti ne parlano e tutti, che sia per amare o per odiare, partecipano; e non sono pochi quelli che tornano in sala per rivedere il film o che si lanciano in recuperoni o maratone.
E così, ripetizione dopo ripetizione, la saga rafforza la propria struttura ritmica. Struttura contenuta in nuce già nelle prime bozze di Lucas e perfettamente chiara a tutti gli autori che ci hanno lavorato. Persino a quel sovversivo cattivone (genio) di Rian Johnson e sicuramente ad Abrams, che ha attaccato e chiuso la nuova trilogia ribadendo in modalità “bigger is better” i passaggi chiave di Una nuova speranza e de Il ritorno dello Jedi, e contemporaneamente agganciato la struttura tragica di Episodio III attraverso il ripescaggio dell’imperatore Palpatine e la sua trasformazione in un vero e proprio deus ex machina.
A farci caso, La vendetta dei Sith è letteralmente una tragedia di stampo classico, in cui il personaggio di Anakin, nel tentativo di esorcizzare la profezia della morte di Padme, finisce per diventarne l’artefice. Allo stesso modo, appartiene alla tragedia il taglio di Episodio IX, così come l’escamotage robotico.
Pare che la gestazione del film sia stata piuttosto tribolata, e in malafede verrebbe da pensare che il redivivo Palpatine sia stato gestito da Abrams e dallo sceneggiatore Chris Terrio in modo da rimediare a tutti quegli aspetti di Episodio VIII che avevano scatenato la parte più chiassosa del fandom. Assieme alla ricomparsa dell’imperatore, infatti, Rey scopre di esserne la nipote, con buona pace delle umili origini, Kylo Ren viene nuovamente retrocesso nella gerarchia dei cattivi, saltano fuori i MacGuffin/tracciatori Sith e, per non farsi mancare niente, pure una poderosa flotta di Star Destroyer in odore di Morte Nera, che la tecnologia non sta mai ferma.
Tutti questi artifici, però, partono appunto da Palpatine, che all’apice del film vediamo calare dall’alto attraverso un meccanismo che ne sottolinea la natura di marionetta al servizio della trama, esattamente come i deus ex machina nelle tragedie di Euripide e compagnia.
Ora, è senz’altro possibile che Abrams, perfettamente conscio della natura dell’escamotage, abbia deciso di legittimare le proprie scelte giocando a carte scoperte (anche se una parte di me spera nella trollata). Resta che visivamente la trovata è azzeccata, e finisce pure per fornire un pavimento metanarrativo ad alcuni dei balzi iperspaziali che mandano avanti il film.
Vale la pena di ricordare, a questo punto, come le tragedie nascano dall’elaborazione e dal fissaggio dei racconti orali della tradizione classica, e che in passato venivano messe in scena durante le feste sacre. In quella sede, la sospensione dell’incredulità da parte dello spettatore diventava così forte che il racconto finiva per essere trascinato nella realtà, al punto che ogni volta era la prima volta. Che se ci pensate, è un po’ quello che succede quando attacchiamo la visione di uno Star Wars a caso, magari proprio durante le feste.
Questo articolo fa parte della Cover Story dedicata a Star Wars, che potete trovare riassunta a questo indirizzo.