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Racconti dall'ospizio #172: Super Mario Bros. 3 e la preadolescenza sentimentale

Racconti dall’ospizio è una rubrica in cui raccontiamo i giochi del passato con lo sguardo del presente. Lo sguardo di noi vecchietti.

Eravamo migliori amici, all’epoca.

Poi, nel 2001, un incidente - era l’estate della maturità - lo portò via; ci eravamo riavvicinati qualche settimana prima, per fare insieme qualche prova scelta di matematica, per prepararci. Un piccolo sprazzo di quello che poteva essere un ritorno all’amicizia più maturo, due diciottenni che vivevano in simbiosi da preadolescenti e forse si stavano ritrovando. Non potrò mai saperlo con certezza ma me lo chiedo spesso.

Durante le scuole medie, ci eravamo allontanati, andavamo nella stessa scuola ma in sezioni completamente differenti, piani diversi, amicizie nuove, crescita diversa… ci eravamo completamente persi.

Durante le elementari, nel quinquennio scolastico 1988-1994, eravamo migliori amici. Sedevamo, inseparabili, vicini allo stesso banco a scuola. Abitavamo a tre minuti di distanza. I nostri balconi erano in contatto visivo e comunicavamo nei modi più improponibili, in questa modalità a vista.

Ci confidavamo di tutto, tutto quello che due preadolescenti possano capire e confidarsi. Giocavamo insieme tantissimo. Pranzavamo l’uno a casa dell’altro, senza che io sappia dire se le vicendevoli genitrici ne fossero contente o meno. Ma probabilmente lo erano, vedendoci così felici di essere inseparabili.

Poi c’era il NES. Il suo NES. Io avevo un Commodore 64, le cassettine pirata dell’edicola, due joystick completamente diversi, le interferenze del cavo antenna del Commodore che davano fastidio e il manuale ufficiale del BASIC allegato nella confezione.

Lui invece aveva fatto tombola, facendosi regalare il Nintendo Entertainment System.

Giocavamo per ore, ore e ore. Dopo pranzo, dopo i compiti, la sera prima di tornare a casa.

Super Mario Bros, Tennis, Soccer, Balloon Fight, Little Nemo, Mario & Yoshi.

Poi, in quel ritorno a scuola del 1991 (o forse dopo il Natale dello stesso anno?), si materializzò a casa sua la cartuccia di Super Mario Bros. 3. Un preambolo: le nostre partite a Super Mario Bros. erano un trionfo del bullismo preadolescenziale.

Immagine abbastanza imbarazzante che riassume una scena molto imbarazzante.

Lui, con Mario, macinava livelli a più non posso, frutto di continuo allenamento da possessore della console (avete presente il piglio e la sicurezza del possessore del Power Glove, con tanto di valigetta, ne Il piccolo grande mago dei videogame? Ecco, era lui col controller in mano).

Io, tristemente e perennemente costretto a usare Luigi, con quella palette dei colori ruotata e la pelle itterica, avevo la difficoltà aggiuntiva di ritrovarmi il gioco in pausa durante i salti sui bottomless pit. Un handicap al contrario, se volete. Il prezzo della nostra amicizia o, più semplicemente, il prezzo di avere nove anni e poter giocare col NES del tuo miglior amico.

Ma Super Mario Bros. 3 non era una occasione di rivalità. Era una collaborazione. Niente batteria tampone, niente guide strategiche, niente let’s play su YouTube. Eravamo solo noi due e il mondo di gioco. E le maledette manine dell’ultimo mondo. E i livelli a scorrimento automatico. E i boss delle fortezze intermedie. E afferrare al volo lo scettro dopo aver sconfitto i boss di fine mondo, nel punto più alto della parabola di salto. Completare i livelli ricordandosi più scorciatoie possibili.

Macinammo complessivamente intere giornate di gioco, non riuscendo mai ad arrivare alla fine, per mancanza di tempo, perché comunque i genitori a un certo punto arrivavano, spegnevano e dicevano “Ora basta videogame, fate qualcos’altro”.

Il trionfo del kitsch, di cui esisteva anche una versione televisiva con Davide Garbolino.

E noi, in risposta sarcasticamente critica a questa imposizione, ci sfondavamo di Spago Spaghetti, che a nove anni puoi ritenere il più bel gioco da tavola della storia, a ragion veduta. Più de L’Isola di Fuoco, che sebbene fosse presente in casa, non riscuoteva successo agli occhi del suo proprietario come lo sbrogliare fili di cotone togliendo pedine a forma di polpette - sulla pizza eh -, jalapeños, funghetti, cipolle e pomodori.

Una sera, che ricordo vividamente, mi svelò la novità. Aveva scoperto (non saprò mai se tutto da solo o, appunto, da Il piccolo grande mago dei videogame), come recuperare uno dei due flauti del primo mondo di gioco. Lui lo chiamava “il fialetto”, non lo scorderò mai. Prima fortezza, già trasformato in Mario Procione, fiore di fuoco accuratamente evitato, ultimo corridoio prima del miniboss, rincorsa ripetuta un paio di volte, volo, sparizione sul soffitto, corsa sulla destra, direzione UP sul controller… ed ecco la stanza segreta con lo scrigno. Col flauto.

Impagabile.

(insert Zelda Jingle here)

Ancor di più lo era il poter accedere ai primi sette mondi senza dover passare tutto il pomeriggio a giocare. Il primo mondo veniva spazzato via dalla nostra memoria muscolare e, appena arrivavamo al secondo, via di flauto. Via di mondo sette. Via di morti infinite per via del picco di difficoltà che sopraggiungeva nel mondo dei tubi. Ma i due giovani ormai decenni avevano ottenuto (e, a ripensarci oggi, mi vengono i brividi per la capacità di Nintendo di progettare tutto questo, per aggirare il problema della batteria tampone) la possibilità di arrivare in poco tempo agli ultimi due mondi, e finalmente ambire a completare quel gioco. Una delle pietre miliari accademiche, che per un bambino di dieci anni diventa da curriculum, da raccontare in giro, a scuola, tra amici.

L’ho trovata solo in versione All-Stars.

Ma non avevamo ancora fatto i conti con le manine, tanto attuali anche ai giorni nostri. Ostacolo di gran lunga peggiore dei livelli a scorrimento automatico pieno di cannoni, carri armati, carri volanti, boss di fine livello tostissimi. Saremmo arrivati mai alla fine del gioco? Avremmo mai salvato Peach dalle grinfie di Bowser?

Non che io mi ricordi.

Non abbiamo mai finito insieme Super Mario Bros. 3, io e Michele.