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System Shock 2 mi ha reso una persona più complicata, ma dai gusti migliori | Racconti dall'ospizio

Racconti dall’ospizio è una rubrica in cui raccontiamo i giochi del passato con lo sguardo del presente. Lo sguardo di noi vecchietti.

Al cavallo del nuovo millennio frequentavo il secondo anno del liceo scientifico e i miei gusti culturali erano in continua evoluzione. Avevo appena scoperto il sacro fuoco del metallo pesante, da pochi anni avevo abbracciato l’amore delle console dopo una fiera infanzia amighista e pcista, e alla mia passione per il calcio avevo da poco affiancato quella per il basket. In quegli anni tumultuosi, però, c’erano sempre state alcune certezze, come il mio non riuscire ad apprezzare i giochi in prima persona, soprattutto quelli in cui si sparava. Neanche Half-Life, con tutta la sua prosopopea narrativa e cinematografica, aveva fatto davvero breccia nel mio cuore, ed ero un po’ lì a fare lo snob come solo un adolescente pieno di sé sa fare.

Nel mentre, proprio mentre Half-Life si gode il meritato successo, da qualche parte nel Massachusetts, Ken Levine e due ex impiegati di Looking Glass Games lavorano al loro primo gioco da indipendenti, come Irrational Games. Il nome dell’azienda calza a pennello, dopotutto alcuni di loro non hanno mai davvero “chiuso” un videogioco, e per quanto alle prese come una nuova avventura, il neonato studio eredita da quello vecchio (che ha problemi economici) un compito abbastanza arduo: sviluppare il seguito di un gioco particolarmente importante, System Shock, inizialmente senza licenza e con l’idea di riutilizzare quanti più elementi possibile da Thief: The Dark Project, perché l’acqua è poca e la papera non galleggia (forse non han detto proprio così a Ken Levine, ma insomma, ci siamo capiti). 

Per fortuna, un accordo con Electronic Arts riesce a evitare enormi giri di parole e salti logici nel giustificare un seguito non ufficiale, e Irrational Games si concentra sul trasformare quel piccolo capolavoro di Dark Engine in un’epopea horror sci-fi. Tutto questo mentre io, con buona probabilità, ero impegnato a combattere il male imperversando sulla Costa della Spada in compagnia di Minsc e Ajantis, perché gli RPG sono troppo più belli di qualsiasi altra cosa.

Quando System Shock 2 arrivò sul mercato, esattamente vent’anni, finii per snobbarlo, salvo poi recuperarlo l’estate successiva grazie a un’opera di scavenging poco legale in compagnia di un compagno di classe dell’epoca, l’unico che condivideva con me la passione per i videogiochi, e a cui devo anche la scoperta di Fallout e di tutta l’estetica cyberpunk prima e sci-fi dopo.

Il mondo non è fatto di soli dardi incantati e draghi, e lo stesso concetto di fantasy inizia a proiettare ombre più lunghe grazie a Thief. Io inizio a nascondermi tra le ombre con Garrett, il mio compagno di classe opta per la Von Braun di System Shock 2, e iniziamo a raccontarci cose su ICQ mentre giochiamo durante la calda (ma meno di oggi) prima estate del nuovo millennio. Ovviamente, una volta completate i rispettivi viaggi, ci scambiamo i giochi, e la giostra riparte.

All’epoca non mi curo manco per niente del legame intimo che c’è tra Thief e System Shock 2, ma apprezzo passivamente un’aria familiare, ma sopratutto resto affascinato dal fatto che, per la prima volta, esplorare un mondo in prima persona mi sembra qualcosa di vibrante e - plot twist - sono sconvolto dal fatto di non dover semplicemente sparare. Per certi versi, tra i ponti oscuri e inquietanti della Van Buren, la costante sensazione di essere in pericolo e la necessità di comprendere prima di subito come sopravvivere in un ambiente così terribilmente ostile, fa esplodere il mio neurone adibito alla glorificazione del gioco di ruolo in senso lato.

La scoperta del concetto stesso di “immersive sim” rende il mio incontro con Thief prima, ma soprattutto con System Shock 2 dopo, una vera e propria epifania. Anche il suo aspetto algido e a tratti spartano mi sembra una scelta di stile (in realtà no, il polygon count sparagnino è frutto di un errore di pianificazione) che contribuisce a creare un costante stato di ansia e terrore, soprattutto in me che sono un noto fifone. Eppure, nonostante ragni giganti, robot assassini, mutanti e la follia di SHODAN, l’IA malvagia con smanie di controllo assoluto il cui faccione campeggia negli artwork del gioco, System Shock 2 mi insegna che la paura può essere fonte di meraviglia se parte di un disegno più grande. La scarsità di risorse, di munizioni e il costante senso di spaesamento nella labirintica selva di cunicoli della nave spaziale, diventano un racconto catartico, e la mia quest per la sopravvivenza è anche quella della scoperta di un nuovo modo di giocare e l’ulteriore definizione di una grammatica fondamentale per il linguaggio dei videogiochi. 

Tra i tanti meriti del gioco di Ken Levine, c’è sicuramente quello di aver trasferito nell’ambiente parte della narrazione, e di aver reso il senso di progresso parte integrante del racconto. Magari rispetto ad altre immersive sim, System Shock 2 è invecchiato peggio tecnicamente, ma fa parte sicuramente di quel manipolo di titoli che bisognerebbe rispolverare per comprendere la storia del mezzo. Senza System Shock 2, banalmente, non avremmo BioShock, ma soprattutto, non potremmo provare le stesse sensazioni di allora con Prey di Arkane Studios. Tra l’altro, visto che la storia si ripete sempre, proprio come Prey anche System Shock 2 all’epoca venne apprezzato dalla critica, ma meno dal pubblico. E oggi, come allora, posso comprenderlo, dal momento che prima dell’estate del Duemila le immersive sim per me erano qualcosa di lontano, incomprensibile, di difficile lettura.

Vent’anni dopo, tra i miei giochi preferiti di tutti i tempi ci sono sicuramente quelli di Arkane Studios, ma non sarebbe così se non fosse per quella calda estate di diciannove anni fa. Ancora oggi, forse, il problema delle immersive sim è che richiedono ai giocatori uno sforzo cognitivo superiore alla media, e non tutti sono disposti a dimenticare sé stessi e le proprie convinzioni per vivere un’esperienza così densa e impegnativa. Forse, nei giochi in prima persona, è semplicemente più facile premere il grilletto e sparare. D’altronde, anche il successo di BioShock è direttamente proporzionale alla sua componente da sparatutto, nonostante ci raccontiamo il contrario. La verità è che non ho una risposta vera e propria, ma so che è colpa di System Shock 2 se oggi soffro ogni volta che a una fiera non ho un nuovo gioco di Arkane Studios da provare. Grazie Ken Levine per avermi condannato a una vita migliore, ma più difficile.