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Taron e la pentola magica è vivo per miracolo

Se qualcuno dovesse decidere di invitarvi a una cena organizzata dai papaveri della The Walt Disney Company, tra gli argomenti da evitare a tavola, a fianco alle accuse di razzismo, nazismo e sciovinismo mosse allo zio Walt, segnatevi anche Taron e la pentola magica.

Proiettato nella sale statunitensi durante l’estate più anni Ottanta della storia - quella del 1985 - il venticinquesimo classico Disney fece flop, incassando nel weekend di apertura appena quattro milioni di dollari e, in generale, finendo per non rivedere nemmeno di striscio i quarantaquattro e rotti milioni spesi in fase di realizzazione. Realizzazione che, tra l’altro, non filò propriamente nel migliore dei modi. Sigla.

L’incubazione di Taron e la pentola magica risale all’inizio degli anni Settanta, quando Disney mise gli occhi, e soprattutto i soldi, sui diritti de Le cronache di Prydain, serie di romanzi fantasy firmata dallo scrittore Lloyd Alexander e ampiamente basata sulla mitologia gallese.

L’idea era buona e in quegli anni, dalle parti di Burbank, si respirava tanta voglia di osare, sperimentare, e magari levarsi dalle balle l’aura di sfiga che da qualche tempo aveva iniziato ad avvolgere le produzioni Disney, confinandole a roba per poppanti. Con Taron si puntava a qualcosa di più dark e maturo, tipo quello che stava facendo Ralph Bakshi con Il signore degli anelli.

Con questa visione per la testa, i vertici Disney, capitanati da Ron Miller, genero di Walt, misero il lavoro nelle mani di Ted Berman e Richard Rich, già colleghi in Red e Toby nemiciamici, affiancati da una nuova guardia di autori che avevano fatto gavetta a fianco dei leggendari “Nine Old Men”, e considerati pronti per spiccare il volo.

Siamo ampiamente in zona Mordor.

Insomma, tutti fecero i compiti a casa animati dalle migliori intenzioni, le stesse che finiscono per lastricare la strada verso l’inferno. Purtroppo, poco dopo la partenza, fra tribolazioni dirigenziali, difficoltà creative e problemi di comunicazione, la lavorazione del film finì per aggrovigliarsi. In ordine sparso: l’idea di optare verso il Super Technirama 70, che non si vedeva in Disney dai tempi de La bella addormentata nel bosco, si scontrò con una serie di errori di valutazione, che finirono per compromettere una parte del lavoro.

Anche in via di questo, nel 1979, alcuni animatori decisero di allontanarsi dal progetto. Tra questi Don Bluth, che, assieme ad altri sedici ex colleghi, andò a fondare la propria casa di produzione, la Don Bluth Productions, lasciando il posto a una manciata di stagisti inesperti tra i quali, per fortuna, c’erano tali John Lasseter e Tim Burton.

Don Bluth che poi, fra le tante cose, ha fatto pure questa.

Le cose non migliorarono con lo sciopero degli animatori, iniziato nel 1982 e andato avanti per quasi tre mesi, ma soprattutto con le dimissioni di Ron Miller, che nel 1984 venne sostituito da Michael Eisner e Frank Wells, che a loro volta nominarono Jeffrey Katzenberg a capo del dipartimento di animazione assieme al nipote del vecchio, Roy.

Ora, è noto che tra la fine degli anni Ottanta e i primi Novanta Katzenberg contribuì con decisione al rilancio dell’azienda, per poi tirare in piedi la DreamWorks assieme Steven Spielberg e David Geffen. Tuttavia, all’epoca dei fatti, il suo curriculum si limitava al cinema in live action.

Quando assistette alla proiezione preliminare di Taron e la pentola magica, rimase contrariato dalla violenza e dai toni cupi del film, arrivando addirittura a detestare il lavoro portato avanti fino a quel momento, e spingendo per ottenere una riedizione del montaggio e la ricostruzione di alcune scene. Peccato solo che, nel campo dell’animazione, soprattutto all’epoca, questo avrebbe significato far ripartire gli artisti dagli storyboard, mettendoseli contro. Il produttore, Joe Hale, cercò di rimediare un compromesso, ma Katzenberg non volle sentire ragioni e finì per supervisionare personalmente un nuovo montaggio, tagliando dodici minuti di film, ovvero tutte quelle scene giudicate troppo violente.

Violento tipo così.

Tutto ciò, oltre che a un impoverimento del progetto di partenza, portò a un ulteriore ritardo sull’uscita del film che, come abbiamo già visto, fu un fiasco talmente clamoroso da rischiare di compromettere il reparto di animazione dell’azienda, che riprese fiato solo dal 1989, con La sirenetta e il successivo rinascimento.

Per diversi anni dopo l’uscita, Disney mise il film sotto tabù, pubblicandone la versione home video solamente sul finire degli anni Novanta, quando Taron e la pentola magica andò incontro a una progressiva rivalutazione da parte degli appassionati, che ne apprezzarono il coraggio e le scelte creative, fino a eleggerlo a cult. A oggi, vale la pena di ricordare che quello resta il primo film animato prodotto a Burbank contenente animazioni in computer grafica, oltre che il primo a sfoggiare un rating PG e senza canzoncine tra le balle.

E pure senza musica, ce n’è!

Venendo al sottoscritto, quando Taron e la pentola magica arrivò in Italia durante le vacanze di Natale del 1986, preceduto da una martellante (per gli standard dell’epoca) campagna pubblicitaria sulle pagine di Topolino, avevo circa nove anni. Nonostante non andassi pazzo per lo sword and sorcery, non potei evitare di sottrarmi al fascino di quella visione: vuoi per i toni lugubri della trama, ma soprattutto per la presenza di un cattivo come Re Cornelius e un’ambientazione che, al netto della fantascienza, costituiva la roba più vicina ai Masters of the Universe che avessi mai visto al cinema.

In virtù dei ricordi, e complice il fatto che da allora non mi è più capitato di incrociarlo, Taron è stato il primo film che ho deciso di guardare su Disney+. Purtroppo, l’ho trovato invecchiato maluccio e con tutti i suoi problemi belli in vista, a partire da certi sfondi, passando per le animazioni, fino a una costruzione del racconto che accusa veramente il peso dei tagli, con passaggi che sembrano tirati via e tutta una serie di momenti fuori registro.

Skeletor, puppa (dico Skeletor perché io, all'epoca, di litch e Dungeons & Dragons non ne sapevo mezza, nonostante E.T.).

Restano intatti il fascino tipico che avvolge le produzioni ambiziose finite male e la potenza di alcune scene, davanti alle quali sale il rimpianto per quello che sarebbe potuto saltar fuori senza tutte le rotture di cazzo.

Questo articolo fa parte della Cover Story “Disney Club”, che potete trovare riassunta a questo indirizzo.