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Sono figo e salvo il mondo a cazzotti: la Telenovela di Menare secondo SNK

In principio, lo sappiamo tutti, fu Street Fighter II: The World Warriors con M. Bison (sì, sì, la storia sul fatto che il nome era Vega e Bison era il pugile e poi si misero di mezzo gli avvocati la sappiamo tutti, andiamo avanti) e il suo geniale piano di conquistare il mondo trapiantando la sua anima nel corpo del più forte picchiatore dello stesso.

Aspettate a giudicarlo il piano più stupido mai sentito.

Bison… Vega… coso… qual era il tuo problema? Parliamone.

No, ad essere onesti, in principio fu Street Fighter, il primo, anche se nell’Italia di quel tempo era più facile avvistare il Bigfoot che un cabinato in sala giochi che ti raccontasse la storia di Ryu e Ken che sfidavano i campioni del mondo con la forza dei loro pugni e l’arroganza dei loro sopracciglioni. Ma, se volessimo essere sincerissimi, probabilmente il principio fu Yie Ar Kung-Fu, con la schermata fissa e undici maestri di arti marziali da sconfiggere ancora, e ancora, e ancora (ah, i bei videogiochi di una volta, in cui la fine non arrivava mai ma, semplicemente, ad ogni giro aumentava il “clock”, fino a che il giocatore arrivava alla memoria muscolare… e all’autismo). Oppure il principio fu Karate Champ, con i due gemelli Bianco e Rosso (gli stessi esatti colori che poi presero Ryu e Ken) a sfondarsi di calci girati e pugni allo sterno per le grazie di un cumulo di pixel in forma di ragazza?

La realtà è che fin da Breakout, con il suo cabinato che ci faceva credere che una barretta su cui fare rimbalzare un circolino per far scomparire altre barrette fosse un galeotto che cercava di evadere spaccando i mattoni della prigione, fare cose nei videogiochi non è mai bastato, bisognava fare cose “con una storia”.

Nel caso non mi credeste (courtesy of: The International Arcade Museum).

Lo capì Capcom con Ryu e Ken, nel treddì lo ha capito Namco con l’eterna telenovela della famiglia Mishima, ma se lo chiedete a me (chiedetemelo!), chi perfezionò questa formula arrivando a vere e proprie epiche, con tanto di opposizioni tra famiglie, nemici giurati, agnizioni, travestimenti, coppie dichiarate, di fatto e in eterno corteggiamento è stata SNK.

L’inizio è, diciamocelo, abbastanza anonimo. Persino io ricordo a malapena un paio di partite con il primo Fatal Fury, selezionabile fra tre giochi (gli altri due erano, quasi sempre, Metal Slug e Super Sidekicks o WindJammers) in un singolo cabinato circondato da tre, quattro, cinque cabinati di Street Fighter II, originali o taroccati. La sfida, del resto, era impari: tre personaggi selezionabili contro gli otto del campione Capcom. A onor del vero, gli sprite più grandi e le mosse speciali più spettacolari potevano attirare, ma al prezzo di una risposta legnosa e una hitbox a cui non ci si riusciva ad abituare.

Non so quanti riuscirono a seguire (e portare) la storia fino all’epilogo: i fratelli Bogard e l’amico kickboxer Joe Higashi riescono ad affrontare il machiavellico e stiloso Geese Howard e il colpo finale si traduce in un colpo di grazia: Howard precipita da un parapetto del suo palazzo.

Ma sarà andata davvero così? Noi di Voyager…

Io non fui tra quelli: scoprii l’epilogo anni dopo e la storia che mi raccontarono era diversa… ma non anticipiamo.

Nonostante tutto, l’anno dopo, SNK raddoppia e rilancia. Da una parte, rincorre Capcom sulla strada della multiselezione, con la sua serie ammiraglia: Fatal Fury II aggiunge cinque personaggi selezionabili, ciascuno con il suo stile, ai tre eroi della prima serie, e ben quattro boss finali (uno in più degli odiati rivali, se vogliamo vedere). Dall’altra, rilancia con sprite grandi, anzi enormi, e curati e grandi effetti speciali: Art of Fighting fa un grosso passo indietro, tornando a soli due personaggi selezionabili con mosse praticamente identiche, quasi un ritorno a Karate Champ, ma introduce appunto sprite enormi e dettagliati, supermosse a potenza variabile a seconda di quanto il personaggio sia “carico” e persino la possibilità di danneggiare a sberloni la faccia dell’avversario e, infine, i suoi stessi vestiti. Ulteriori aggiunte di pregio sono la postura di concentrazione con cui i personaggi si caricano, gli stilosi sfottò con cui si può scaricare l’avversario e lo screen-shake a seguito di una super andata a pieno segno. Arrivano anche le “Desperation Move”: per la prima volta nella storia dei videogiochi, essere messi con le spalle al muro si trasforma nel momento giusto per ribaltare la situazione.

In entrambi i giochi si rilancia anche sul lato narrativo: Wolfgang Krauser, il boss di Fatal Fury II introdotto da una cut-scene epica (per i tempi) sulle note della Messa da Requiem di Mozart, è il fratellastro di Geese Howard ed è solo curioso di affrontare l’uomo che lo ha sconfitto; Mr. Karate, il boss segreto di Art of Fighting, si rivela essere il maestro di Ryo (e suo padre) e Robert, costretto ad affrontarli per salvare sua figlia Yuri (e sorella di Ryo).

Minestre di pugni!!

Le motivazioni a combattere, da questo momento, diventano sempre di meno una “faccenda personale” e sempre di più il risultato di una complicata rete di relazioni, che si espande in trame e sottotrame su cui si avverte pesantemente l’influenza dei manga e degli anime.

Passa un anno e il “modello SNK” si definisce nei suoi aspetti fondamentali. Nel 1993 esce Samurai Spirits/Samurai Showdown e a quel punto la “Telenovela di menare” è realtà. Non è solo questione puramente narrativa: certo, i personaggi hanno tutti una loro storia e una loro motivazione “forte” per squartare l’avversario, la cutscene che introduce il boss finale si allunga e con essa anche il filmato finale ed i suoi eventuali twist, ma a fare la differenza è l’impegno speso nel dare ai personaggi uno “stile” e una riconoscibilità che non siano solo nelle tecniche usate. Capcom aveva dato ai suoi eroi una caratterizzazione minima e specifica: i personaggi indossano abiti da combattimento tipici della rispettiva arte marziale oppure, come Zangief e Cammy, il minimo abbigliamento da ginnasta. Non hanno vestiti, hanno “divise”.

SNK aveva già cominciato ad allontanarsi da questa strada con il gilet di pelle di Robert(o) Garcia (italiano mutato in ispanoamericano dalla solita traslitterazione frettolosa), il giubbotto smanicato e cappellino di Terry Bogart, lo stilosissimo tight di King. Per non parlare della divisa da hooligan hard core di Billy Kane o il cappotto pellicciato+catenazza oro “gangsta” di Mr. Big.

Ma con Samurai Showdown l’intuizione si consolida e ogni personaggio deve raccontare una storia già solo presentandosi: Haomaru, Ukyo e Jubei sono presi paro paro dalla tradizione dei film chambara (motivo per cui, probabilmente, la SNK non ha mai citato per plagio la Namco per Mitsurugi di Soul Calibur… nonostante sia praticamente il gemello di Haomaru fin nelle tecniche), la tenera Nakoruru indossa gli abiti degli Ainu (abitanti delle isole settentrionali del Giappone, considerati i veri “nativi” e, proprio come i nativi indiani, ritenuti più “a contatto” con la natura). Se poi non basta, le pose di vittoria da sole “raccontano storie”, a cominciare da Ukyo, modellato sugli “spadaccini fragili e letali”, che ad ogni sfogo di tosse tubercolotica viene soccorso da una zelante fidanzata.

Anche per il malvagio, non basta più che persegua genericamente la dominazione del mondo, ma deve essere, minimo, emanazione della storia stessa del Giappone: Shiro Tokisada Amakusa, ronin convertito e martire cattolico che risorge assetato di vendetta per opera di un demone. Colpo di scena!

Zazzere improponibili fin dal 1993.

Sono troppo ardito a dire che se la potenza del Neo Geo attirò il giocatore con una fluidità e una risposta ai comandi mai provata prima nel 2D, fu però il character design sviluppato a tutto tondo da SNK a fidelizzarlo?

Passa un anno e la nuova puntata di questa telenovela appiccica i suoi fedeli spettatori allo schermo con la forza di un cazzotto. Nel 1994 compare nelle sale giochi The King of Fighters ‘94, quello che, idealmente, sarebbe il terzo capitolo di Fatal Fury ma si rivela essere tutto un altro pianeta. Chi c’era sa cosa significò: per la prima volta, combattimenti uno contro uno con squadre di tre personaggi, ciascuno con le sue caratteristiche, il suo stile, le sue motivazioni. SNK sa di potersi permettere già l’autocelebrazione e imbottisce il gioco di citazioni alle sue creazioni più famose. Dal predecessore Fatal Fury riprende il trio composto dai fratelli Bogart e l’eterno amico Joe Higashi e lo presenta come il “Team Italia” (ehr… ). Takuma “Mr. Karate” Sakazaki, Ryo e Robert si presentano con i colori del Messico, lasciandosi alle spalle Art of Fighting. Mai Shiranui da Fatal Fury, Yuri Sakazaki e King da Art of Fighting animano il “Women Team”. Ma l’autocelebrazione non finisce così facilmente: dal classico sparatutto Ikari Warriors arrivano gli sparacazzotti Ralf e Clark, comandati dal glaciale colonnello Heidern, dal platform Psycho Soldiers arrivano Athena Asamiya e Sie Kensou, impegnati a controllare il vecchio alcolista Chin Gentsai (uno dei tanti vecchi con statistiche completamente sbroccate dei rullakartoni). Ancora da Fatal Fury 2, fa la comparsa il maestro di Tae-kwon-do Kim Kaphwan, impegnato a redimere due ex galeotti.

La conferma che ormai l’arte di menare ha sposato la narrazione l’abbiamo però nel team protagonista del gioco (e della serie), composto da “normali liceali giapponesi”: l’abbocco ai lettori dei manga shonen è evidente nella figura di Kyo Kusanagi, dal caschetto scuro ordinato alle scarpe immacolate, passando per la divisa scura con bottoni e polsini a vista. Anche qua, il torneo per decidere chi sia “il più forte al mondo” nasconde un losco piano e un ennesimo genitore si deve prendere la responsabilità di fare da motivazione per distribuire sberle: in questo caso è Saishu Kusanagi, padre di Kyo, manipolato dal vero boss: Rugal. Anche in questo gioco, le pose, le frasi post vittoria “personalizzate” a seconda di chi sia vincitore e sconfitto e le introduzioni e gli epiloghi agli scontri con semi-boss e boss pennellano la narrazione.

E proprio come in uno shonen manga (o una telenovela) si raffinano gli “archi narrativi”. Per quattro edizioni su quattro anni (King of Fighter ‘94-95-96-97), i giocatori assistono all’arco della guerra soprannaturale mossa dai detentori del potere di (nientedimenoche) Yamata no Orochi: il leggendario dragone ad otto teste sconfitto dall’eroe semi-dio Susano-o e da cui avrebbe estratto la spada Kusanagi, uno dei tre tesori sacri delle leggende, assieme alla gemma di Yasakani e allo specchio di Yata.

Di nuovo, i riferimenti al mito sono impregnati nei personaggi: il malvagio Rugal, sconfitto nel ‘94, riappare nel ‘95, potenziato dall’energia di Orochi, ma ne viene distrutto anche grazie alla partecipazione di Yori Yagami, ultimo erede degli Yasakani e portatore di una faida famigliare verso i Kusanagi. Nel ‘96, il King of Fighters viene organizzato da Chizuru Kagura, discendente degli Yata e detentrice del potere dello specchio, ma a sua insaputa, dietro le quinte, si muove il boss finale Goenitz, discendente diretto di Orochi, che ha manovrato le pornosegret… ehr… assistenti del defunto Rugal per far scontrare i tre eredi sacri, Kusanagi, Yagami e Kagura con la dormiente discendente perduta di Orochi: Leona, adottata da Heidern e scortata da Ralf e Clark.

La resa dei conti arriva nel ‘97: scendono in campo gli ultimi (?) tre discendenti di Orochi in un King of Fighters da loro stessi organizzato per, nell’ordine, eliminare i tre eredi sacri, far risvegliare la follia in Yagami o Leona (che fungeranno, a seconda delle squadre, da semi-boss), assorbire l’energia dei lottatori più forti del mondo e risvegliare Orochi in persona. Praticamente, mirano a prendere un intero stormo di piccioni con una fava e, senza troppe sorprese per nessuno, ottengono in cambio una gragnuola di mazzate. Complice della faccenda è anche il nuovo personaggio “strizzata d’occhio al pubblico”, Shingo Yabuki: un “normale studente giapponese” che, a forza di vedere i combattimenti di Kyo Kusanagi, contando solo sulle sue pesanti manone e sulla fanatica dedizione, decide di diventare come lui.

Dopo la pausa del ‘98, un semplice competitivo “antologico” senza trama, nel ‘99 inizia il nuovo arco narrativo della perfida organizzazione “Nest”, il cui piano rivoluzionario è conquistare il mondo grazie alla forza dei Pugni nelle Mani comodamente convogliata in un cannone satellitare. Non chiedete… i miei ricordi sono un po’ confusi. Nonostante lo stile “nuovo millennio” del nuovo protagonista, K’ , esattamente come per le telenovele o gli shonen di combattimento, i giocatori capiscono che se si vuole restare si resta per le mazzate, che la cosa comincia a invecchiare in fretta. Non aiuta certo il fatto che si vada consolidando la (pessima) abitudine di dare ai boss finali specifiche così ridicolmente sleali da renderne evidente la natura di “consumagettoni”, consegnando al mondo dei meme il termine “SNK boss” .

Ma come ogni bravo produttore di telefil… ehr, videogiochi, SNK non ha investito tutti i suoi talenti di menare in un solo titolo. Derubata del titolo King of Fighters, la serie Fatal Fury continua separatamente, producendo il pregevole Fatal Fury 3: Real Bout e il bellissimo (parere non soggettivo ma certificato da una commissione indipendente composta dalle più alte autorità nel settore del calcestruzzo) Garou: Mark of the Wolves.

Due sono i tratti che li caratterizzano come prodotti della grande “SNK Novelas Inc.”. Innanzitutto, recuperano il sistema “a punteggio” introdotto dai primi due episodi, che assegnava a fine incontro una valutazione, condizionata da tempo impiegato a concludere il round, energia residua, lunghezza delle combo. Una media alta permette di accedere al boss segreto che, però, non è solo più un bonus ma l’accesso al “vero finale” della storia del personaggio. Ergo, se si vuole vedere come va a finire la storia, “ragazzino, giù il gettone!”. La seconda è la continuazione delle storie di padri, figli, fratelli. Limitatamente in Fatal Fury 3, in cui il “protagonista”, più che lo sfruttato Terry Bogart, sembra essere il grosso e simpatico pugile “working class hero” Franco Bash, alla ricerca del figlioletto rapito. Molto, molto di più in Mark of The Wolves, in cui fanno la comparsa i due figli di Kim Kaphwan, uno perfettino come il padre e l’altro debosciato ma buono, il migliore allievo del Dojo Kyokugen-Ryu dei Sakazaki, l’allievo di Andy e Mai, e sopratutto lo stiloso Rock Howard, figlio di Geese Howard adottato da Terry Bogart e di cui il “vero” boss finale è zio per parte di madre. Ovviamente.

Abbiamo anche il primo caso di cui io abbia notizia di “retcon” nei videogiochi action:

E ora a cosa devo credere? A cosa devo credere?!

Ma, del resto, non stupisce molto. Il “deceduto” Geese aveva continuato a comparire come erba grama nei vari The King of Fighters, sia come “mandante” dell’“Evil Team”, che come suo membro effettivo, assieme a Krauzer e Mr. Big.

Il pinnacolo di tutta questa commistione di trovate di gameplay, stile e narrazione, valore aggiunto che permetterà al 2D di resistere alle bordate del 3D più a lungo di quanto ci si sarebbe aspettati, se lo chiedete a me (chiedetemelo!!), lo si raggiunge nel 1998, mentre The King of Fighters si prende, appunto, quel suo primo “anno sabbatico”.

Stile!

SNK pubblica “The Last Blade: Bakumatsu no Roman”, altra serie di picchiaduro 2D con i personaggi armati. Ma rispetto al fratello maggiore/rivale e al contemporaneo concorrente Guilty Gear, fin dal nome The Last Blade, chiarisce di voler fare la storia. Anzi la Storia.

Il “Romanzo del Bakumatsu”, ovvero il periodo di guerra civile che portò alla formazione del Giappone moderno più o meno nello stesso decennio in cui si ebbe anche la nostra unità, contrariamente alla generica “ambientazione con samurai”, investe molto di più sull’ambientazione. È il suo valore narrativo. Mentre in Samurai Showdown i personaggi erano vari e variopinti, stranieri o proprio alieni, The Last Blade veste i suoi personaggi con una maggiore attenzione, concedendosi pochissime eccezioni (una loli-sacerdotessa scintoista, un contadino rodomontesco). Abbiamo: un samurai che veste gli abiti, e il famoso e devastante stile di scherma, della pattuglia Shinsengumi; un frequentatore dei bordelli e delle case da gioco che combatte con una spada di legno, non avendo rango di samurai; giovani samurai in abiti borghesi del tempo; nel secondo episodio, troviamo una giovane spadaccina esperta di Iaido, che indossa il tipico mix autoctono-occidentale del tempo; il boss finale, Setsuna, indossa un abito militare moderno, influenzato dall’occidentalizzazione.

Per quanto mi riguarda, giunsi per la storia e rimasi per le mazzate: stupendamente coreografate, variopinte, emozionanti e tecnicamente impegnative.

Purtroppo, l’epoca del 2D stava volgendo al termine: resistere alla potenza e alla profondità (in più di un senso) di Tekken, Virtua Fighter, Soul Calibur e Dead or Alive diventava sempre più difficile. Complice il successo (anche meritato) del modello Arc System Works, che, nel nuovo panorama dominato dalle console domestiche, spingeva pesantemente sulla spettacolarità, sacrificando la continuità narrativa guadagnata gettone su gettone, i picchiaduro 2D (ma anche 3D, a ben pensarci) divennero una sorta di giano bifronte. Da una parte, grande attenzione a fornire decine di varianti da memorizzare per annichilire avversari umani nel PvP, dall’altra, poco più che “Visual Novel di menare” nel single player, con un livello di difficoltà facilmente aggirabile grazie alla memorizzazione di quei due, tre pattern utili a garantire la vittoria sicura contro una intelligenza artificiale sempre meno “cattiva”.

Questo articolo fa parte della Cover Story dedicata a Devil May Cry e alle pizze in faccia alla giapponese, che potete trovare riassunta a questo indirizzo.