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The Blood of Wolves, yakuza vintage

Scorrendo la pagina IMDB di Kazuya Shiraishi, si ha l'impressione di un regista intenzionato a diventare una specie di nuovo Takashi Miike.  Attivo dal 2009, ha infatti già mostrato discreta versatilità tematica e di genere e sta aumentando sempre più la produttività, con una media di circa due regie all'anno e addirittura tre film nel 2018: Sunny, un thriller sul rapimento di una professoressa delle superiori; The Blood of Wolves, un omaggio ai classici polizieschi sugli yakuza ambientato negli anni Ottanta; Dare to Stop Us, un biopic su Koji Wakamatsu, regista "bad boy" degli anni Sessanta. Insomma, spara e smitraglia in tutte le direzioni. Purtroppo non so come vada di solito, dato che quello di ieri sera è stato il nostro primo incontro, ma The Blood of Wolves non è niente male.

Il film è un omaggio dichiarato al filone dei film sulla yakuza, che dominava le sale giapponesi qualche decennio fa ma è oggi relegato all'autorialità rigorosa di Kitano, a quella folle di Miike e a poco altro. In particolare, parola del regista, la fonte d'ispirazione diretta è la serie di film nota in occidente come The Yakuza Papers, molto popolare quarant'anni fa o giù di lì. Ambientato negli anni Ottanta, il film racconta della rivalità fra due bande in quel di Hiroshima, mostrandola attraverso il filtro di una coppia di poliziotti in stile Training Day: c'è il navigato che viaggia costantemente sulla linea di demarcazione fra eroe e criminale (un fantastico Kôji Yakusho, che sembra una versione marcia e giapponese dell'Al Pacino poliziotto) e c'è la recluta fresca di università che non sa come gestire il suo mentore fuori di testa. Tramite loro, viene raccontato un conflitto prossimo all'esplosione, infarcendolo via via di sottotrame melodrammatiche, lacrime maschie e lampi di violenza sanguinaria.

È, forse, un po' deficitario sul piano dell'azione, che avrebbe potuto dare quella marcia in più, ma è evidente che si tratta di una scelta voluta, per un film che mira ad affrontare l'argomento partendo in maniera familiare, col classico approccio umoristico e dissacrante da cinema orientale, per scivolare piano piano sempre più nel torbido, nel melodramma, nel grigio infinito che avvolge criminali e poliziotti mescolandoli in un unico minestrone. Il viaggio personale del giovane che scopre come gira davvero il mondo assume quindi un sapore amarissimo e violento, in cui nulla è come sembra, le rivelazioni bruciano fortissimo e per aggrapparsi a un po' di speranza bisogna rispettare le proprie convinzioni mentre all'apparenza le si tradisce. Il paradosso è che un film che si apriva raccontando fra le risate una visione quasi nichilista si conclude con un finale amaro, immerso nel sangue ma quasi consolatorio.