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The Signal State: Salvatore e il segreto di NIM

Se The Signal State fosse uscito dieci anni fa, sarei entrato come ogni mattina nel polveroso laboratorio di fisica della particelle dell’università, avrei salutato Salvatore, il tecnico del laboratorio, e gli avrei detto: “Oh, ma sai che è uscito un gioco in cui devi fare tale e quale le magie che fai tu coi moduli CAMAC e VME?”; e lui mi avrebbe probabilmente risposto: “Bella chiavica, così posso continuare a faticare pure a casa!” mentre scolava il terzo caffè della giornata alle nove e mezza del mattino.

E come dargli torto: la sua era una vita passata fra moduli elettronici di trenta o quarant'anni prima, in angoli oscuri e malsani di un enorme hangar, a concepire, realizzare e ottimizzare complessi sistemi di acquisizione e caratterizzazione di rivelatori di particelle, ovvero gli strumenti che ci permettono di visualizzare e studiare tutti i piccolissimi mattoni di cui è fatta la materia.

Il rivelatore che stavo studiando. Foto non mia ché ho rimosso tutto una volta finito l’esame.

Quando avevamo incontrato Salvatore la prima volta era chiaramente infastidito dalle presenza di tre sbarbatelli nel suo polveroso regno. Aria di sufficienza e un tono di fastidio malcelato nella sua voce mentre ci mostrava questi grossi armadi di acciaio e silicio ognuno contenente decine di scatole metalliche preposte a una determinata funzione. Per chi vuole fare quegli stessi esperimenti oggi la vita è più semplice. Gran parte del trattamento dei dati avviene direttamente sul computer e basta digitalizzare i segnali in qualche modo per poi trovarseli belli organizzati su uno o più file, pronti a lunghe nottate di analisi dati bislacche e spesso inconcludenti. Ma una volta non era così semplice: i computer erano molto limitati in funzionalità, memoria e tempi di reazione quindi tutta, o almeno una parte, del processo di raffinazione dei dati veniva effettuata con questi moduli. Grossi e pesanti moduli metallici dai bordi taglienti come lame, ricolmi di transistori, circuiti integrati, resistenze e condensatori. Questi aggeggi erano così importanti in tanti campi del mondo accademico e industriale che fra gli anni ‘60 e i ‘90 si sono succeduti almeno tre grossi standard, NIM, CAMAC e VME (gli ultimi basati su quello stesso Motorola 68000 che ha fatto impazzire la generazione 16-bit), in parte compatibili fra loro ma ognuno col suo bell’armadio, chiamato rack o crate, in cui infilare rumorosamente questi moduli, con caratteristiche e funzionamento diversi.

Niente di meglio di un bel rack di moduli CAMAC!

Ogni modulo ha tipicamente una sola funzione: c’è quello che somma i segnali, quello che li ritarda, quello che li amplifica, quello in grado di misurare il tempo e così via. Funzioni semplici che quando magistralmente combinate possono creare funzionalità molto complesse e risolvere problemi che prima sembravano insormontabili. 

Non me ne rendevo conto allora, ma sono le caratteristiche di un puzzle. Un puzzle molto specifico e appassionante che gli sviluppatori di The Signal State hanno fatto emergere dal brodo lavorativo che ti fa vedere anche il più interessante dei problemi come l’ennesima scocciatura da toglierti dalle scatole prima di poter tornare a casa. È incredibile come l’attività di collegare questi moduli tra loro tramite cavi coassiali risulti piacevole e coinvolgente una volta calata all’interno di un ambito ludico e liberata dalle morse dei moduli malfunzionanti, cavi rotti che ti fanno impazzire per ore e ferite alle mani. Se vogliamo ben vedere, The Signal State fa per il mondo della fisica delle particelle quello che Space Chem aveva fatto qualche anno fa con la chimica: prendere problemi più o meno reali del mondo scientifico, piallarli e ripulirli un po’, aggiungere un pizzico di fantascienza e voilà, un puzzle game fatto e finito.

E finalmente posso avere tutti i cavi colorati che voglio!

Chissà se Salvatore, dietro una fitta coltre di polvere, fumo e bestemmie per i continui malfunzionamenti, non ci vedesse proprio un The Signal State nel suo lavoro: un eterno, a tratti frustrante ma appassionante puzzle da risolvere per il resto dei suoi giorni. Perché sarà anche stato il mio lavoro per sei mesi, ma lui, beh, presumibilmente lo ha svolto o lo svolgerà fino alla pensione. E al netto del comprensibile fastidio iniziale verso noi matricole, a Salvatore piaceva collegare quei vecchi moduli: sentirli ronzare e schioccare all’accensione, colpirli nel punto giusto per farli funzionare, aprirli e sistemarli continuamente come figli un po’ malandati per vederli poi funzionare perfettamente in sincrono per aprire le porte di nuova scienza.

Son convinto che la soluzione a buona parte dei problemi lavorativi della vita consiste nel trovarsi qualcosa da fare che sia sufficientemente remunerativo e stimolante a lungo termine. Certo, magari ti becchi comunque colleghi stronzi e un management completamente fuori dal mondo, ma almeno la salute mentale è salva. Credo e spero che Salvatore l’avesse capito.