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The Spectrum Retreat e il suo doppio

Nel corso della mia esperienza con The Spectrum Retreat, ho attraversato una serie di fasi molto diverse tra loro (anche in senso letterale, come vedremo). Il gioco attacca col protagonista, un uomo misterioso di nome Alex, che si sveglia in una stanza d’albergo. Così, secca, senza spiegazioni. E devo ammettere che ho trovato l’approccio ottimo, vuoi per l’ambientazione ispirata, vuoi per le suggestioni à la Shining. Chiunque abbia visto il film di Kubrick almeno una volta non potrà fare a meno di associare le passeggiate in soggettiva lungo i corridoi semivuoti del misterioso Penrose Hotel con le riprese in steadicam alle spalle del piccolo Danny.

Dopo aver provato a raccapezzarmi ed essermi messo un po’ in bolla, sono sceso a visitare la hall dell’albergo. Mi sono lasciando guidare dalle circostanze e ho curiosato un po’ in giro. Ho apprezzato il bizzarro contrasto tra gli arredamenti art déco e la servitù robotica, notando anche la fitta presenza di cerchi concentrici, sfere e altri simboli dal carattere allusivo in riferimento alla ripetizione ciclica del tempo.

In effetti, bastano una manciata di minuti nel Penrose Hotel per avere la sensazione di trovarsi in una dimensione spaziale e temporale alternativa. Una dimensione dove il design industriale, a un certo punto, ha evidentemente puntato sulle linee curve anziché su quelle rette. Perfino lo smartphone in possesso del nostro alter ego è circolare e mi ha ricordato certi particolari perturbanti di It Follows, tipo le l’ereader a forma di conchiglia della tizia carina e occhialuta (tra l’altro, sarebbe pure ora di riguardarlo, It Follows).

REDЯUM

Consumata la colazione – sul tavolo assegnato ad Alex mi attendeva una specie di omelette – ho preso a ricevere telefonate da una donna misteriosa di nome Cooper. Con quella sua voce morbida e sabbiosa (bel doppiaggio!), ma pure con un certo eccesso di zelo, la tizia si è messa a dirmi per filo e per segno dove andare e cosa fare. A farmi notare questo, a farmi riflettere su quello.

Più o meno dopo un quarto d’ora di gioco, ho creduto - a torto - di avere a che fare con l’ennesimo interactive drama alla Gone Home. Carino, ma decisamente derivativo; tra l’altro, con i sottotitoli troppo piccoli e qualche rigidità nell’interfaccia. Vabbè, comunque niente di grave. Abbozzo.

Abbozzo un po’ meno quando noto che il tempo della realtà che circonda me/Alex scorre solo se innescato ad hoc. Fermarsi equivale praticamente a mettere in pausa il gioco, “alla vecchia”. Faccio appena in tempo a storcere il naso - prediligo le esperienze nelle quali il tempo scorre a prescindere dai comportamenti del giocatore, a maggior ragione se provano a raccontare una storia – e ad aprire una porta, per trovarmi catapultato in uno spazio astratto a metà tra le missioni in VR del primo Metal Gear Solid e Portal; nonché immerso in un puzzle game in soggettiva vero e proprio, come Portal, appunto. E mi prendo male, ché non me lo aspettavo, e soprattutto non amo i cambiamenti di stato.

Ormai mi ero abituato alla meccanica da walking simulator e già facevo conto di aprire un sacchetto di popcorn (non è vero: sarebbe stato un tubo di Pringles al gusto di panna acida e cipolla, gergalmente dette “al vomito”) e gustarmi la storia senza troppe menate. Invece, mo’ scopro che mi tocca impegnarmi sul serio, per far quadrare una serie di enigmi logici che non vanno d’accordo con la mia forma mentis. Termino in qualche modo la sessione di prove-puzzle, leggo qualche appunto lasciato in giro da chissà chi; incrocio un paio di indizi e, mentre rispedisco il mio avatar in camera da letto, inizio a sentire una bella puzza di bruciato dietro la sua permanenza al Penrose Hotel.

Uno dei puzzle di The Spectrum Retreat, di quelli che mi hanno fatto uscire pazzo.

Secondo giorno, stessa storia. Sveglio Alex, parte la sezione narrativa, passeggiata, colazione. Risolvo un paio di misteri - letteralmente telefonatissimi - lungo le stanze dell’hotel fino a guadagnare l’accesso al secondo piano. Lì, mi infilo in una nuova tranche di queste “prove”, tanto misteriose quanto apparentemente scisse dalle prime fasi di gioco.

Ancora una volta supero i puzzle più per caso che per talento, a furia di tentativi. E ancora una volta me torno in camera scornato e un po’ confuso dalla natura ibrida di The Spectrum Retreat.

Fortunatamente, al terzo ciclo le cose vanno diversamente. In primo luogo, la faccenda del tempo relativo viene contestualizzata da una buona trovata narrativa. La storia piano piano inizia a farsi davvero composta e intrigante, e alla dimensione metafisica iniziale se ne affianca una di critica sociale - un po’ alla Lanthimos - che non risparmia stoccate all’attuale situazione politica degli Stati Uniti, ma soprattutto alle distorsioni del sistema sanitario americano.

La cosa più importante, però, è che il mio cervello da gallina inizia a ingranare la dialettica dei vari enigmi, a leggere correttamente l’ambiente di gioco; e finalmente mi sblocco.

Gli ambienti del Penrose Hotel sono zeppi di elementi circolari.

Con la frustrazione fuori dalle balle, tutto a un tratto il level design e la costruzione dei puzzle mi paiono bellissimi, raffinati. Dove prima vedevo solo inghippi, ora trovo giustizia. Vuoi vedere che The Spectrum Retreat ha giocato pulito fin dall’inizio e il problema era soprattutto mio? (Sì).

A quel punto, risolta in scioltezza l’ennesima sezione di sfide, si son fatte le tre del mattino, ho riaccompagnato l’avatar a letto e me ne sono andato a dormire pure io il sonno dei giusti. O dei cretini, ché nel tempo che ho impiegato a scalfire la meccanica dei puzzle, un giocatore normodotato - ciao, Roberto - avrebbe potuto serenamente leggere i titoli di coda.

Amen. Cose che capitano. Ora che ho terminato la parte, per così dire, narrativa della recensione, posso passare a quella didascalica (ché il gioco sarà bipolare, ma pure io non scherzo).

Dietro a The Spectrum Retreat c’è il talento del giovane game designer Dan Smith. Dopo essersi guadagnato il Game Making Award nella categoria Young Game Designer dei BAFTA 2016, proprio con un prototipo del videogioco in questione, Dan ha passato i due anni successivi a perfezionare la sua opera. La stessa che, qualche giorno fa, ha raggiunto i negozi digitali di PlayStation 4, Xbox One e PC su pubblicazione di Ripstone.

Come ho già accennato, The Spectrum Retreat monta due anime piuttosto diverse tra loro. C’è tutta la parte da interactive drama (o walking simulator, se siete gente che parla brutto) ambientata tra gli spazi dell’hotel. E poi ci sono le “prove”, che trasferiscono il giocatore in un luogo astratto, quasi mentale, per metterlo faccia a faccia con enigmi costruiti attorno alle particolari proprietà di alcuni blocchi colorati. Le due sezioni si rincorrono attraverso escamotage narrativi e, come dire, psicoanalitici; naturalmente, condividono la stessa interfaccia e la medesima visuale in prima persona. Tuttavia, senza buttarla troppo in sofismi, ‘ste anime scisse sono e scisse restano.

Le sfide sono un escamotage per premiare il giocatore con pezzetti di storia. Piano piano, Alex salirà i piani del misterioso edificio che lo ospita cercando di svelarne la natura, un po’ come in quel bel racconto di Buzzati. Di pari passo, anche gli enigmi si faranno sempre più complessi e a quelle di partenza si aggiungeranno variabili inedite come il teletrasporto o dei ribaltoni di prospettiva.

Volendo mettere i meriti in fila, pur in presenza di una storia interessante e di ambientazioni ispirate, ho preferito su tutto proprio le sezioni puzzle. Certo, The Spectrum Retreat non raggiunge mai le vette (né la complessità, al netto delle mie deficienze iniziali) di un The Witness, ma riesce comunque a disegnare un percorso di gioco solido, coerente, e a far tamburellare le dita come si deve.

Ogni tanto può capitare di bloccarsi (anche a causa di qualche bug, ahimè, perlomeno nella versione PlayStation 4), ma è possibile resettare il livello in qualsiasi momento. E in generale, ripeto, una volta entrati nel mood giusto, vi assicuro che la frustrazione sarà poca, le soddisfazioni tante.

Resta la bizzarria di un gioco dallo schema dicotomico abitato da due anime diverse tra loro, spesso divergenti anche a livello linguistico. Eppure, col fatto che funzionano entrambe piuttosto bene, francamente non saprei nemmeno se rubricare questa scelta come un difetto o una semplice stramberia. Voialtri, però, non state lì imbambolati in attesa che mi risolva. Piuttosto, andate a versare l’obolo per The Specrum Retreat, che merita un sacco.

Ho giocato a The Spectrum Retreat su PlayStation 4 Pro grazie a un codice review gentilmente fornito dagli sviluppatori e l’ho consumato nel giro di una decina di ore (significa che in media ne richiede cinque). Il gioco è disponibile dallo scorso 13 luglio su PlayStation Store, su Microsoft Store e su Steam al prezzo di circa 13 euro, mentre la versione per Switch uscirà durante l’estate.

E non dimenticate la brochure.