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Lo scandaloso The Suffering | Racconti dall'ospizio

Racconti dall’ospizio è una rubrica in cui raccontiamo i giochi del passato con lo sguardo del presente. Lo sguardo di noi vecchietti.

Sono passati quasi vent’anni ma me lo ricordo come se fosse ieri. Ai tempi lavoravo su PSM e in quei giorni eravamo ancora lì nei nostri uffici di Future Media Italy, in via Asiago, a Milano. Un giorno, si presentarono, PR italiano e rappresentante internazionale di Midway Games, uniti per vincere, con l’intenzione di mostrarci e farci provare un nuovo gioco, tale The Suffering. Non avevamo la minima idea di cosa fosse, ci venne spiegato che era un mix di azione e avventura dal taglio horror, venne inserito il disco e mi misi a giocare. E di quel pomeriggio ricordo un aspetto in particolare: le risate. The Suffering, dovete capire, aveva questa caratteristica all’epoca ancora bizzarra, vista con prepotenza forse solo in The Getaway: le parolacce in italiano! Pazzesco, eh? Le matte risate! Lo so, è infantile, ma che ci dobbiamo fare, eravamo anche poco più che ventenni.

Ed eravamo in piena era PlayStation 2, l’approccio cinematografico e il tentativo di rendere le cose più adulte che, di fondo, erano penetrati nel mondo dei videogiochi fin dai primi anni Novanta stavano ormai prendendo sempre più piede e inevitabilmente c’erano anche conseguenze del genere. The Suffering raccontava la storia di un condannato a morte per l’omicidio di moglie e figli che cercava di scappare da una prigione invasa da presenze demoniache, il tutto mentre affrontava la sua stessa psiche, cercando di ricordare se fosse veramente colpevole o no (e con tre possibili “verità” svelate sul finale in base a come ci si comportava durante l’avventura). Tutto questo veniva messo in scena attraverso un gioco horror dallo spirito pulp, pure un po’ trash, da film di serie B, che proponeva in realtà anche un racconto interessante, temi adulti e qualche colpo di scena azzeccato ma allo stesso tempo buttava tutto in caciara con un approccio brutalissimo alla violenza, un taglio costantemente tamarro e sopra le righe e un livello di turpiloquio forse inedito nei videogiochi. E ancora più inedito se ne facciamo una questione di localizzazione italiana.

Quella versione di anteprima che mi fecero provare in redazione era già provvista del doppiaggio nella nostra lingua e ricordo chiaramente il capannello di persone che pian piano si formò attorno a me, mentre tutti ascoltavamo quel fiorire di imprecazioni fuori misura e… beh… ridevamo senza respiro. Ricordo anche, altrettanto chiaramente, il volto perplesso dell’uomo Midway internazionale, che davvero non riusciva a capire se stessimo ridendo del gioco, col gioco, per il gioco… de che? Perché capiamoci, The Suffering aveva i suoi momenti puramente horror, che miravano a far salire la tensione, e aveva le sue svolte drammatiche pesanti, ma era anche e soprattutto un gioco d’azione selvaggio, sanguinario, sopra le righe, pesantemente zarro e con diverse esagerazioni, senza dubbio consapevoli di generare sorrisi. Ma forse ridevamo oltre quanto uno si potesse aspettare.

E allora gli spiegai. Gli spiegai che non stavamo ridendo del gioco e non stavamo nemmeno necessariamente ridendo della localizzazione, era solo che davvero non ci era mai capitato di sentir volare così tanti organi genitali e colleghi assortiti giocando a qualcosa, che forse solo The Getaway poteva sperare di giocare in quello stesso campionato e che, a un primo impatto, la cosa risultava buffa. Ci stava, eh, andava benissimo nel contesto del gioco. Ma era davvero strano, a modo suo nuovo, quindi in fondo positivo. Insomma, lo tranquillizzai. Ah, quanti ricordi.

Il design dei mostri era delicatissimo.

In seguito, mi occupai di recensire The Suffering e successivamente anche il seguito. E ne conservo tutto sommato un buon ricordo, per quel suo mix assurdo concepito dal designer Richard Rouse III, mosso dal desiderio di mescolare l’azione di Devil May Cry, l’orrore di Resident Evil e il world building di Half-Life, pucciando il tutto nelle sue suggestioni cinematografiche preferite, da Shining in poi. E secondo me ci sta pure un pizzico di Silent Hill, dai. Ad ogni modo, da questo paciugo veniva fuori il classico “di tutto un po’” che non poteva aspirare ai livelli massimi delle sue componenti ma funzionava come frullatone divertente, ricco di sorprese e capace di stupire qua e là, nei momenti migliori di quelle stesse componenti.

Ad abbassarne un po’ le ambizioni ci pensava quello che abbassava le ambizioni di tanti giochi occidentali del periodo e che avrebbe visto un primo cambio di rotta con l’uscita di God of War (o perlomeno io la vedo così): non c’erano la cura per il dettaglio, la pulizia estetica, la rifinitura che si trovava invece in produzioni giapponesi accostabili per “proporzioni”. Me lo ricordo chiaro, quando ci dicevamo che questo o quell’altro buon gioco americano sarebbe venuto fuori eccellente se l’avessero affidato a Konami o Capcom per fargli dare una ripulita. Che roba assurda, a ripensarci oggi, eh? E insomma, non saprei dire esattamente cosa scrissi nelle rispettive recensioni ma comunque ho un ricordo positivo, per quanto certamente non entusiasta, dei due The Suffering. Magari ricordo male. Vai a sapere.

Questo articolo fa parte della Cover Story dedicata all’escapismo, che potete trovare riassunta a questo indirizzo.