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Affinita’ e divergenze tra Battiato e Masanobu Endo: The Tower of Druaga

Nell’antica città di Uruk, in epoche perdute della memoria, regnò Gilgamesh: colui che tutto intravide. L’eroe a cui i misteri furono manifesti. Estraete la tavoletta di lapislazzuli e leggetela, la storia di quest’uomo che patì sofferenze di ogni genere. Cercò la vita eterna, raggiunse Utnapishtim ‘il Lontano’, e la completa saggezza. Per due terzi divino e per un terzo mortale, come sole possente, invincibile, regnava in Uruk, città dalle mura ben salde, e soverchiava tiranno i suoi sudditi contrariando gli Dei. E gli Dei convennero di dargli un avversario, pari in forza e bellezza: in terra precipitarono una stilla di firmamento…ed ecco sorgere Enkidu, figlio del silenzio, saetta di Ninurta, delle umane cose ignaro.

Enkidu, reso umano dall’abbraccio di donna (una sacerdotessa del tempio di Ishtar), verso Uruk si avvia a sfidare Gilgamesh che ne divina nel sogno le mosse e gli intenti. L’incontro è scontro d’astri tremendo, e tremano le mura e sussultano i telai delle porte allo schianto dei corpi avvinghiati alla lotta. Soggiace infine Enkidu, e Gilgamesh vittorioso l’abbraccio gli tende, suggello d’eterna amicizia. Terribile prova ora attende i due amici: nella remota foresta labirinto trapunto di cedri, ove il viaggio si fa passo di danza, sta Humbaba potenza del male, terrore di umani.

Tutto questo, naturalmente, se il Gilgamesh di cui stiamo parlando fosse quello epico assiro-babilonese, nei paragrafi precedenti mirabilmente introdotto a noi mortali da Franco Battiato. Battiato era preso parecchio bene da ‘sta roba, e come non esserlo quando sei alla ricerca delle costanti della natura umana? Eccolo quindi prodigare tutti i suoi sforzi nella traslazione operistica del poema epico vecchio di tremila anni, nel 1992 - opera accolta dal sostanziale disinteresse delle masse, che anche prima del social si dilettavano a scorreggiare qui e ora senza un perché, chiedendo a Battiato al massimo di fare il Battiato early 80’s e stacce. Che Dio li abbia in gloria. Tutti.

(Che poi rileggete quell’ìncipit: ma non vedete Bronson e Tetsuo Hara? Non sentite l’eterna forza dell’epica? Non lo volete subito tradotto in anime? Adesso sto sognando una roba tipo Interstella ma che mette assieme Battiato e Testsuo Hara invece che i Daft Punk e Leiji Matsumoto, forse è tempo di bere un bicchierone di potassio e magnesio).

Qualche anno prima, ma non tremila, appena un decennio prima, nel 1982, Masanobu Endo era già un game designer acclamatissimo in patria grazie al botto che aveva fatto con Xevious. Quello Xevious. Lo shooter a scorrimento verticale che ha praticamente plasmato gli shooter a scorrimento per come li conosciamo ancora oggi. Il gioco che ha fatto guadagnare così tanti soldi a Namco che de bbotto venne eretta immantinente una nuova sede, chiamata giustamente “Xevious Building”. Anche Battiato in quegli anni se la passava strabene ed era pronto a viaggiare verso orizzonti perduti e mondi lontanissimi, e si sarebbe intrippato non poco col romanzo fantascientifico in cui Endo spiegava con dettaglio il lore di Xevious - un’attenzione inusitata per l’epoca, in ambito videoludico.

Sbrigate le faccende obbligatorie dello pseudo-seguito, Super Xevious, Endo decise di voltare pagina. Da par suo, Namco ebbe l’acume di non costringerlo a fare shooter per tutta la vita, anzi, gli diede carta bianca. E così nacque The Tower of Druaga, l’incipit di quella che è universalmente nota come la Babilonian Castle Saga, che dall’epopea classica babilonese di cui sopra prende praticamente tutto. 

Endo stava in fissa con Wizardry, come praticamente tutta la sua generazione di designer nipponici. Endo però lavorava per Namco e sviluppava coin-op, non per Sir-Tech su Apple II, ergo doveva trovare una formula che unisse l’avventura ruolistica all’immediatezza della sala giochi. Come se avesse dovuto inventare l’arcade RPG, in buona sostanza. Tenetevi forte: The Tower of Druaga è in effetti il primo arcade RPG della storia, perlomeno se consideriamo “arcade” nella sua accezione più pura di “gioco da sala giochi”. Solo a un pazzo poteva venir in mente una cosa del genere. Un gioco lento, spartano (OK, babilonese, ma avete capito), spietato, tutto basato su una serie sempre più intricata di livelli secondari di comprensione. Tower of Druaga, ora come allora, richiede una pazienza e una memoria fuori parametro, con dei segreti talmente esoterici da esigere una dedizione totale. Al punto che il gioco non è nemmeno completabile senza conoscerli tutti. Bad ending? Check. Malus che sembrano bonus? Check. Oggetti nascosti da prendere nel giusto ordine sennò invalidi l’intera partita? Check. Tutto ciò partendo comunque dall’assunto che siate dei manici a destreggiarvi in un labirinto zeppo di nemici che Pac-Man a confronto è il giardinetto con le siepi di Gardaland. E con un solo joystick a quattro direzioni più un pulsante, a riprova che il genio deve essere minimale, non minimarket.

Potrebbe venirvi un sospetto, a questo punto. Ma com’è che, se ‘sto Tower of Druaga è così importante importantissimo voi non l’avete mai sentito nominare, o perlomeno non ci avete mai giocato? Non è che Babich ci sta perculando? Nossignore. È solo che siamo nati in Occidente, ahinoi, e ci sono delle cose che a livello di massa da noi non “cliccano”, un po’ come il Gilgamesh di Battiato. Xevious è un’opera chiaramente pop - Atari lo ha distribuito in Occidente e ci ha fatto un botto di soldi. Druaga fu un disastro ai playtest nelle sale statunitensi, passò praticamente inosservato. Onore al merito e all’incoscienza di una società italiana, la Sidam, che ne acquisì i diritti per la distribuzione nelle sale italiane, anche là senza grande successo..

E allora cosa successe in Oriente? Successe che the Tower of Druaga sbancò. Nei Game Center non si parlava d’altro. Un’ossessione comunitaria, il gioco di cui parlavano tutti, quello che vai a scuola e dici agli amici “raga non avete idea di che gioco c’è nel konbini davanti alla metro di Kichijoji, dovete troppo venire a giocarci”. L’intuizione di Endo è legata al contesto di fruizione. In un game center, parte del gioco è osservare gli altri giocare. E Druaga è tutto basato su quello. “Uhh, che palle, tutto questo girovagare per ‘sto labirinto…" ma poi vedi giocare uno che ha iniziato l’iniziazione druaghesca il giorno prima, e scopri che se al primo livello uccidi tre slime verdi appare un baule con dentro una piccozza che consente di sfondare le pareti. “Sì, vabbe’, ma ‘sta velocità da latte alle ginocchia…” ma poi scopri dal tizio di prima che se al secondo piano della Torre sconfiggi almeno due slime neri, più minacciosi di quelli verdi, appare un baule con dentro gli Stivali Alati che raddoppiano la velocità. “OK, ma non è possibile che mi colpiscono una volta e muoio…” Stavolta lo scopri da te, magari, che uno dei cavalieri blu del terzo piano, una volta sconfitto eccetera eccetera. Prima di rendertene conto, ti ritrovavi invischiato in una meccanica che sistematicamente abbatteva le tue lamentele e resistenze, se eri abbastanza bravo da capire come fare. Spade più potenti! Armature scintillanti! Elmi della madonna babilonese (Ishtar, più o meno, ndA)! Druaga ha tutto. E se all’inizio è palese che il power up nascosto del piano successivo sia sempre legato al nuovo nemico o al nuovo ingrediente di gioco lì introdotto, i segreti si fanno man mano più esoterici, al punto che è fondamentale comunicare tra giocatori, andare in sale giochi lontane dal proprio quartiere, esplorare il network dei giocatori quando il WWW ancora non aveva spaccato la magia e il mistero dei videogame.

Magia e mistero che ci fanno tornare allo scenario scelto da Endo: al di là del fatto che poi nel gioco è un brulicare di tipici nemici da high fantasy D&D, l’appigliarsi alla cosmogonia assiro-babilonese ammanta The Tower of Druaga di un’emozione arcana, perfettamente in tono con la dinamica di gioco. Rileggete ancora l’intro battiatesca, l’evocatività del mito: cerco di figurarmi la “foresta labirinto trapunto di cedri”, un po’ ci riesco, un po’ no, ma sembra un posto fregno in cui avventurarsi. Come una manciata di parole, così una manciata di pixel e codice scatenarono l’immaginazione dei giocatori nipponici, da sempre attenti ad accogliere le sfide, deliziati dall’eviscerare meccaniche rese ad arte oscure da designer bizantini. Giapponesi. Bizantini nel senso… ooh, avete capito. Assiri, babilonesi, bizantini, è un casino qua. In Battiato come in Endo, il mito entra nel pop, e non c’è niente di più naturale: il mito è composto in parti variabili di spirito del tempo e spirito del popolo, e si lascia esplorare a livelli differenti a seconda della vostra natura e inclinazione. Per dire che se poi non andate oltre il terzo stage di Druaga pazienza, ce ne faremo una ragione.

Fatto sta che aThe Tower of Druaga ci giocarono tutti, in Giappone. Figuriamoci che a ogni nuova conversione su un sistema casalingo, i giocatori andavano in brodo di giuggiole nello scoprire che Namco aveva cambiato i requisiti per far apparire i tesori nascosti, di piano in piano (solitamente in versioni speciali chiamate Another Tower, ma alle volte anche così, a muzzo, per far impazzire la gente). Soprattutto ci giocarono i game designer più importanti del momento: Shigeru Miyamoto, Ryuichi Nishizawa, Fukio Mitsuji, per dirne tre. Quei tre, partendo da Druaga e altre influenze, forgiarono la saga di Zelda, la saga di Wonder Boy/Monster World, la saga di Bubble Bobble. Quelli sì che li conoscete. E metto la firma che cia ha giocato Hidetaka Miyazaki, per dire. E Sakurai. Diciamo che avete conosciuto Druaga per interposto designer. Ma ormai Druaga è disciolto in mille rivoli di ispirazione in ogniddove, statece. 

Masanobu Endo, forse vedendo che come dipendente Namco lo Xevious Building se l’era fatto Namco e non lui, decise di mettersi in proprio. E fare quello che gli andava. Ovvero anche poco, a volte meno a fuoco, ma sicuramente sempre di testa sua, con i benefici sulla salute che ciò comporta. Potrei citarvi i tanti titoli strambi che compongono la Babilonian Castle Saga, con con astrusi cambi di dinamica di gioco, scintille di genio e momenti in cui, come si dice, “Endo, non mi sei arrivato”. Ma non lo farò, soprattutto dopo aver detto che non li citavo: ricadrei in quella stucchevole figura retorica detta preterizione. 

Lode a Endo. E a Battiato, tirato per la giacchetta in questo discorso, che probabilmente mi perseguiterà nei sogni con un epico quesito: “Babich, ma che mminchia dici?”