Il ritorno di Toki (non il fratello di Kenshiro, l'altro)
Ho amici che al solo sentire nominare Toki si sburrano nelle braghe. Uno di loro, in particolare, ogni volta che passa a trovarmi, mi chiede di metterglielo, che tradotto significa: collegare il computer alla TV e lanciare il MAME con la ROM. Ho cercato di spiegargli che, volendo, potrebbe farlo girare comodamente anche a casa sua, sul suo PC. Ma non c’è niente da fare, l’operazione è troppo sbatta e in fondo sono io, “quello dei videogame”.
Diversamente dall’amico in ballo, io col gioco dello scimmione ho sempre avuto un rapporto meno fitto. L’ho senz’altro praticato molto su Amiga, attraverso quella che ricordo come un’ottima conversione curata da Ocean France. Tra l’altro, che ci fosse di mezzo Ocean lo (ri)scopro solo ora da Wikipedia, visto che ero fermamente convinto che fosse tutta farina di The Sales Curve. Si vede che facevo confusione con Rodland. E a proposito, quanto era bellino pure Rodland, su Amiga? E Rainbow Islands, Parasol Stars e BC Kid? Pazzesco che le robe tonde migliori per quel computer lì fossero tutte conversioni, con buona pace dei vari Superfrog o Zool che “è meglio di Sonic, loggiuro!” (sì, col cazzo).
Ma sto divagando. Toki, dicevamo, uscito nel 1989 in versione coin-op e noto in Giappone come JuJu Densetsu, oggi è considerato una specie di cult. Soprattutto qui dalle nostre parti, dove all’epoca lo si poteva trovare – originale o meno – in un baretto sì e uno sì.
Dietro lo sviluppo del gioco c’erano le mani di TAD Corporation, le stesse che hanno tirato su Cabal, Blood Bros., Heated Barrel e Legionnaire prima di chiudere i battenti nel 1993, travasando il proprio staff nelle fila di Mitchell Corporation.
Per quanto mi riguarda, nonostante non ci andassi ai pazzi, il coin-op di Toki è legato a una singolare tradizione della mia famiglia. Mia madre, donna pragmatica e piuttosto incline all’ira, ha sempre odiato le feste. Tutta la faccenda di pranzi e cenoni la metteva in ansia da prestazione e, quando ero ragazzino, c’era sempre il momento in cui sbatteva tutti quanti fuori di casa per potersi dedicare ai fornelli.
Se capitava a Natale, mio padre prendeva me e mio fratello e ci trascinava a casa di parenti e amici, ma a Pasqua-con-chi-vuoi le cose si facevano più delicate: tra uno zio al lago e i cugini in montagna, l’unica zona franca era il luna park stagionale. Credo di aver passato tutte le mattine pasquali tra il 1984 e il 1994 a zonzo per le giostre, che erano sempre le stesse, un po’ dimesse e tristi; così come erano sempre uguali i cabinati della piccola sala giochi interna alla fiera. Nel momento del suo massimo splendore, quel baracchino di ghisa ospitava, tra le altre cose, Bomb Jack, Arkanoid e Pac-Man; forse anche un Pang ma sicuro Poker Ladies. Poi Pac-Land, Bonze Adventure, Vigilante, Dynamite Düx e chiaramente Toki.
E tra tutto quel po’ po’ di roba, la mia scelta pasquale era sempre la scimmia. Una tradizione, appunto, come l’uovo di cioccolato e la visione postprandiale di Jesus Christ Superstar, o tipo quella degli ebrei americani che passano il Natale al ristorante cinese.
Durante tutti gli altri giorni dell’anno, invece, quel platform-run ‘n gun lo filavo poco; in fondo, mi pareva pure piuttosto banale, con i suoi sei livelli a tema foresta/ghiaccio/fuoco/eccetera che non uscivano dai cliché dell’epoca. Eppoi non mi piaceva la risposta dei controlli, mi pareva di stare costantemente in lag.
Eppure, per Pasqua ci stava, credo in via di una certa spiritualità (pff... ahahah) emanata da un lore piccolo piccolo, ma zeppo di elementi foklorici provenienti dal buddhismo, dallo shintoismo, dall’induismo ma soprattutto dalle robe sciamaniche precolombiane. E non c’è niente di più pasquale di quelle, anche per via dell’uovo di precolombo.
Nel corso della sua avventura, l’eponimo protagonista, privato della fidanzata e trasformato in scimmione dallo stregone Vookimedlo (che stava chiaramente in fissa con quelle scimmiette di gomma vendute dagli ambulanti, che se le schiacciavi uscivano il coso), si imbatteva in giganteschi macchinari dorati dall’aria ancestrale, in teste di gorilla giganti e fluttuanti, in mani e piedi demoniaci, in mostri sparaocchi, mammut e altre amenità pucciate in una palette di colori particolarmente azzeccata. In via di tutte queste suggestioni e della realizzazione tecnica d’impatto, Toki non passava inosservato pure se sotto sotto era un mezzo legno (ma non quanto Altered Beast).
Lo scorso ventidue novembre, lo scimmione umanoide è tornato: dopo il primo annuncio di un remake su PC da parte del francese Golgoth Studio (vedete: Golgoth, il Golgota, la Pasqua; tutto torna), risalente al 2009, e dopo quasi dieci anni di saliscendi, Microïds ha finalmente portato la barca a destinazione e in esclusiva per Switch. Al momento, Toki è disponibile unicamente in versione fisica e in edizione Retrocollector che, assieme alla cartuccia, agevola un mini cabinato a tema, un fumettino, un paio di stampe e una manciata di adesivi. Su Amazon la trovate a 53,79 sacchi (ma non fatevi sentire da Calcaterra), mentre la versione digitale è prevista per i primi di dicembre.
La direzione artistica del gioco è stata curata da Philippe Dessoly, mentre a Pierre Adane è toccata la testa dello sviluppo. Nonostante entrambi, all'epoca, furono coinvolti nel fortunato port su Amiga, a questo giro il risultato dei loro sforzi pare il vademecum di tutti gli errori da evitare in caso di remake.
Sì, perché se a livello di meccaniche il nuovo Toki è identico a quello classico, la reskin grafica fa rimpiangere certi sgarri di UDON. La dissonanza tra i colori non risparmia nulla, persino i font usati per segnare il punteggio. Soprattutto, senza entrare nel merito di “è sempre meglio il pixel”, la rilettura stilistica disposta da Dessoly non solo tradisce lo spirito dell’originale, ma riesce addirittura a sciuparne il lore. Un lore semplice, lo ribadisco, ma proprio per questo particolarmente vulnerabile. Prendiamo ad esempio le teste di scimmia volanti: se nell’originale evocavano certi spiriti della tradizione folklorica giapponese reinterpretati in salsa precolombiana, qui è bastato aggiungere loro un trancio di colonna vertebrale per far slittare il significato sul gore di bassa lega.
Ma il caso più eclatante è forse il livello finale, dove i fondali a base di tecnologia arcaica sono stati sviliti in un banalissimo ambiente industriale high-tech. Più in generale, dai boss fino ai mattoncini base del tileset, tutto il gioco è andato incontro a un peggioramento. Le suggestioni originali, così riuscite, hanno lasciato il posto a quella che pare la versione splatter dei peggiori cartoni della Cosgrove Hall.
Qui non siamo nemmeno per sbaglio dalle parti del delizioso remake di Wonder Boy III: The Dragon's Trap, ma piuttosto nello stesso recinto di fango dove Wonder Boy Returns grufola assieme alla versione di San Martino cantata da Fiorello.
Insomma, se proprio state in botta nostalgica da Toki, vi conviene senz’altro recuperare l’originale via emulatore, piuttosto che fiondarvi su questo remake. E non tiratemi fuori i feticci inclusi nella versione retail, per amor diddio, ché siamo nel 2018.
Ho giocato a Toki in versione Switch - l’unica disponibile - grazie a un codice fornito dagli sviluppatori, dopodiché ho lanciato su YouTube un playthrough della versione originale per cercare di capire. Ma non ho capito. Toki è disponibile solo su Switch. Come al solito, se acquistate il gioco su Amazon passando dai nostri link, ci fate ricevere una piccola percentuale di quanto spendete, senza sovrapprezzi per voi. Potete farlo su Amazon Italia a questo indirizzo qui o su Amazon UK a quest'altro indirizzo qua.