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Tra le maschere che un uomo può indossare ricordiamo Majora

L’ascensore è opprimente. Non è mai bello consegnare un pezzo in ritardo. Tanto più se hai appena cominciato questo mestiere. L’ascensore che mi porta al quinto piano, verso la redazione, è troppo lento. O forse è troppo alto il palazzo. Spazio. Tempo. Velocità. Sono agitato come per una interrogazione di fisica al liceo. Ma non sono al liceo. Questo, per divertente che sia, è un lavoro. E io sono in ritardo con la consegna. Non ho ancora avuto occasione di dare una buona impressione ed eccomi qui, a dover cavare un’impressione appena accettabile - dissimulando il fatto che sono in ritardo. Come si può trasformare una cattiva impressione in un successo? È impossibile. Limitare i danni, questa è la parola chiave. Devo mettere su la mia Maschera Paracula. Puntare sul “è bravo anche se non si applica”. A scuola funzionava. Magari funziona anche adesso, chissà.

Ding. Quinto piano. Le porte si aprono. Vengo sopraffatto da una pungente inquietudine. Quella propria dei sogni che non sono proprio incubi, ma ci vanno vicino. La reception è come la ricordo dall’ultima volta che sono venuto in redazione, ma… La luce è flebile, a volerla proprio chiamare “luce”. C’è una penombra malsana di polvere. Come se fossero passati anni.

Mi sforzo di guardare nella penombra. Oltre al banco della segreteria vedo gli scaffali solitamente straripanti di riviste in bella mostra: sono completamente spogli. Le girevoli sono abbandonate sparse, a casaccio. Nessuna traccia dei computer. Non c’è anima viva. Cosa sta succedendo?

Avanzo nello spazio reso irreale dall’inspiegabile mutamento. Un trasloco? E non mi hanno avvertito? Eppure qualcuno il portone me l’ha aperto. Mi muovo come ipnotizzato nella sala sgombra e impolverata. Non sono io a comandare i miei piedi, che incedono con una lentezza estenuante: sono piuttosto loro a muoversi, trascinando me come fossi un fardello di inconcepibile mole. Forse dovrei smettere di fare merenda a base di bloody mary, col pretesto di dare al mio ruolo di collaboratore freelance un’aria dandy. Scrivo per riviste di videogiochi, mica sono Baudelaire. Che peraltro difficilmente ha mai assaggiato qualcosa di leggero quanto un bloody mary, se tanto mi dà tan-

“Ehilà!”

Sobbalzo con tale veemenza da perdere una delle mie proverbiali tre vite – ma almeno riacquisto il controllo del mio corpo. Mi volto di scatto. A pochi metri da me, appoggiato proprio al banco della reception, c’è un uomo. Indefinibile in tutto e per tutto, grigio come la penombra, mi osserva con un ghigno indecifrabile. “Siamo in ritardo, eh!” mi apostrofa, e non riesco a stabilire se mi stia prendendo in giro o rimproverando. Né, avendolo mai visto prima, sono in grado di determinare se sia al corrente della mia situazione di recensore ritardatario o se mi abbia letto nel pensiero.

Occaspita! Chi è?

“Letto nel pensiero, letto nel pensiero!” aggiunge, come se fosse la cosa più normale del mondo. Nonostante il coccolone che mi ha fatto prendere solo pochi secondi prima, per qualche ragione la presenza dell’uomo mi dà una qualche forma di distorta tranquillità: nella sua mera esistenza leggo i segni di una possibile spiegazione di cosa sta succedendo. Visto che si tratta di una situazione atipica, è meglio tentare di districarne l’atipicità stando al gioco. Forse, in questo modo avrò una qualche risposta.

“Mi scusi, sono qui per consegnare una recensione per la rivista, ma… ” “Ahh, la casa editrice, eh?” mi interrompe con voce piatta ma perentoria. “Le ripeto, lei è in ritardo, in ritardo!” La mancanza di definizione grafica dell’uomo mi inibisce dall’avvicinarmi.

Abbozzo un “In che senso sono… ” ma di nuovo mi stronca sul nascere. “Bravo. ‘In che senso’ è la domanda giusta. Non che lei abbia posto il quesito con la benché minima idea di quello che sta chiedendo. Ma non è mia intenzione tenerla ulteriormente sulle spine. Lei non è semplicemente in ritardo con la consegna del pezzo. Lei è in ritardo su tutta la linea, se crede di venire qui e trovare una casa editrice, una redazione, delle riviste stampate. Mi permetta di fare una domanda io a lei: in che anno siamo?”

“In che anno… siamo? Nel 2000, è… ovvio… ” Sono completamente imbambolato. L’uomo indefinito mi ha in pugno. E lo sa, tanto concede un risolino sinistro e addirittura una qualche inflessione nella voce. Lombarda, giustamente. “See, nel 2000. Il problema di voi giovani è che non ascoltate gli anziani quando vi dicono: chi ha tempo non aspetti tempo. E sa perché non ascoltate gli anziani? Perché siete sempre impegnati a fare dell’altro. ‘La vita è quello che succede mentre sei impegnato a fare dell’altro’. Lo sa chi l’ha detto?”

“Ehm, credo John Lennon”. Comincio a capire. Dev’essere uno scherzo. Si sa che il clima redazionale è foriero di incredibili goliardate. Certo, uno scherzo un po’ impegnativo, sgomberare un’intera casa editrice, per piccola che sia. Magari è un esperimento etnografico, qualsiasi cosa voglia dire. La mia ragazza studia queste cose e me ne parla sempre. Mentre io cerco di giocare e scrivere recensioni, quindi mi restano brandelli di discorso e poco più. Ma in quei casi metto la Maschera del Fidanzato che Sa Ascoltare e me la cavo.

Già, maschere.

Ironicamente, sono qui proprio per consegnare la recensione di The Legend of Zelda: Majora’s Mask. Nell’ultimo mese di maschere ne ho viste parecchie. Si tratta quindi solo di capire come stare al gioco e quale maschera indossare con questo signore grigio e indefinito. Che poi, a guardarlo bene, mi ricorda qualcuno. Magari è il portinaio del piano terra? O l’uomo delle pulizie? Chiunque sia, sembra molto più vecchio di quanto mi ricordassi, come se avesse…

“Quindici anni in più, eh? Ecco, ecco che comincia a capire” Resto di sasso. Mi ha letto nel pensiero di nuovo. Ma no, non diciamo sciocchezze. Se è uno scherzo ordito dalla redazione - e se lo è è davvero ben congegnato - è palese che le mie reazioni siano prevedibili proprio come quelle di chiunque si trovi a reagire al medesimo contesto. Costui sa tutto, sa che sono qui a consegnare il pezzo, sa di cosa si tratta. Pensavo di venire qui a fare una figuraccia per Majora in ritardo, e invece devo ingegnarmi per vincere un match di improvvisazione teatrale o qualcosa del genere. Va bene. Indosso la Maschera del Discepolo Arguto che non si lascia cogliere in fallo dal Maestro. Tocca a me.

“D’accordo, signor Indefinito. Supponiamo che questo non sia il 2000 ma il 2015. E che io sia così stordito da essermi presentato qui con la mia bella recensione di Majora’s Mask in ritardo di quindici anni. E che lei, chiunque lei sia, naturalmente, sia qui casualmente a farmi la morale sul tempo che passa citando Lennon mentre si muove nell’alveo filosofico di Time dei Pink Floyd. Be’, ma guardi che le citazioni rock semi-colte sul tempo le so fare anch’io, sa? Senta qui cosa canta Lou Reed:

La mia imitazione di Lou Reed lascia sempre un po’ a desiderare, tanto che non biasimo Sig. Indefinito per essersi portato le mani al volto. Forse devo aspettarmi da parte sua un “cucù”, per far sprofondare questa farsa definitivamente nel dadaismo. E invece ecco che comincia a ridere. Ridere di gusto. Pian piano nel suo arco la risata cambia voce, diventando familiare, riconoscibilissima.

“Vaffanculo, Riccardo” esclamo, “sapevo che era uno scherzo! Siete una massa di cialtroni!”

Ma tu guarda.

È il caporedattore, Riccardo. Il mio mentore. Si toglie le mani dalla faccia ed è lui, il suo sorriso scioglie di colpo ogni mio dubbio, la sua risata mi contagia e sto per saltargli in groppa per scaricare la tensione accumulata durante la messincena. Solo che tutto questo non succede. La mia risata si strozza nel momento in cui maggiormente avrei bisogno di lasciarla andare, e lasciarmi andare con essa. Guardo meglio Riccardo. Il suo viso… è il suo viso, ma è come se avesse…

“Quindici anni in più, Andre”.

Le forze mi abbandonano. Mi lascio cadere in ginocchio, le spalle assumono la postura di una gruccia di fil di ferro spiegazzata. Appoggio il culo nella polvere. Una postura che rappresenta il mio stato d’animo più di qualsivoglia metafora.

“Be’, realtà è una parola un po’ grossa, Andre. Siamo d’accordo, se questa fosse la realtà, sarebbe un bel problema. Tu arrivi qui bel bello convinto di essere nel 2000 con una recensione blandamente in ritardo. Invece no, siamo nel 2015. Vorrebbe dire che sei pazzo, o che bevi troppi bloody mary. Possibilità da non escludere. Ma non sono le sole. Magari stai dormendo. Magari sei svenuto in ascensore. Magari sei al computer e stai scrivendo tutto questo, ed è proprio tutto ciò che stai scrivendo che hai l’ardimento di chiamare ‘recensione di Majora’s Mask’. Anche se a me non sembrerebbe proprio una recensione, in tal caso. La chiamerei piuttosto una rappresentazione. Sì, una rappresentazione allegorica in cui cerchi di ficcare a forza i tuoi pensieri sul gioco.

“Penso sia effettivamente così” sibilo con un filo di voce, la bocca praticamente chiusa.

“E visto che è un procedimento parecchio ambizioso, per non dire spudoratamente velleitario, hai summonato il simulacro del tuo Maestro, cioè io, per trovare la forza necessaria a legittimarti in questo tentativo. Ma io non direi mai ‘summonato’, cazzo, Babich, ma per chi mi hai preso?”

“Lo so, ma non è facile reggersi sulle proprie gambe in un tentativo del genere, uno si appiglia dove può e…” nemmeno più apro la bocca, tanto il mio gioco è oramai scoperto. La maschera dello Scrittore da Quattro Soldi è a terra.

“Allo stesso modo infarcisci il tutto di citazioni rock blandamente collegate al tema della ‘recensione’, che è un espediente vecchio di quarant’anni, altro che quindici anni! Cristo, te l’ho sempre detto che sei un giovane vecchio. E in tre lustri non ti sei evoluto di una virgola!”

“Così però annoiamo i lettori, Riccardo”

“E basta con questo pluralia maiestatis. In questa rappresentazione, tutti gli autori sono interpretati da te. Se dici ‘noi’, stai sempre parlando di te. Te che indossi la maschera del tuo Maestro, te che indossi la maschera di Te... Potremmo stare qui all’infinito a toglierci maschere, e non arriveremmo mai in fondo. È un bug dell’essere umano, santa pazienza, mai userei davvero il termine ‘bug’ in questo modo!”

“Però nella rappresentazione – in qualsiasi rappresentazione - le maschere sono necessarie, no? Senza prendere le parti, senza recitare i diversi personaggi, non si genererebbe quella tensione che avvince lo spettatore, che ne ghermisce l’attenzione e l’anima” abbozzo, sapendo che qualsiasi cosa dirò sarà usata contro di me.

“Vabbe’, è dopo il rock arriviamo direttamente al teatro shakespeariano, o peggio, alla tragedia greca. Devi parlare di un videogioco del 2015, o mi sbaglio?” Riccardo, anche in qualità di simulacro partorito dalla mia mente, non molla la presa.

“Sì”, provo a spiegare, “Majora’s Mask 3D è un gioco per 3DS del 2015. Ma è anche un gioco per Nintendo 64 di fine 2000. L’ascensore voleva essere una specie di cunicolo di Alice all’incontrario che univa il mondo del 2000, ciò che io ero nel 2000, al mondo del 2015, ciò che sono oggi. L’uomo grigio era una specie di Bianconiglio ingrigito, nelle mie intenzioni. Una celebrazione del paradosso di un gioco che, a distanza di quindici anni, riesce a risultarmi ancora più meraviglioso ora che allora. Un po’ per la piega che ha preso il mondo dei videogame, un po’ per la piega che ho preso io”.

Silenzio. Ho smesso di fissare Riccardo ormai da un po’, il viso chino verso la Maschera dello Scrittore sul pavimento. Infine alzo nuovamente lo sguardo. Non è più Riccardo. L’uomo indefinibile ha indossato una nuova maschera, quella dello Psicanalista. Vorrei che non fosse così, vorrei essermi impegnato un po’ di più, ma è innegabilmente uguale a Carl Gustav Jung.

Ma uguale, eh!

Jung mi fa cenno di continuare. Mi scruta, ma con benevolenza. Non ne ho la certezza matematica, ma temo sia la benevolenza di chi, alla fine della chiacchierata, intascherà una cospicua parcella. Decisamente superiore al compenso di una recensione di Majora’s Mask pubblicata nel 2000 (per non dire nel 2015).

Che devo fare? Continuo. “Dunque. Nel 2000 stavo con una ragazza. Quella dell’etnografia di cui ragionavo prima tra me e me. Una ragazza molto curiosa. Appassionata nell’adolescenza di avventure punta e clicca per PC, era rimasta folgorata quando mi presentai a casa sua col Nintendo 64 e Ocarina of Time, per me, in quel momento, il più grande videogame di tutti i tempi. Anche a lei, abituata alle dinamiche LucasArts, Ocarina parve un balzo in avanti notevolissimo. L’elemento action non era un problema, se la cavava egregiamente. Mi rigiocai con lei Ocarina poco prima che venisse pubblicato Majora’s Mask. La nostra ‘cornice di fruizione’, come avrei detto all’epoca, era più che ideale. Abitava in un appartamento sullo stesso pianerottolo di quello dei suoi genitori, persone discrete e affabili. Forte della mia impareggiabile Maschera di Fidanzato in Casa, passavo diversi giorni di fila, se non settimane, a casa sua. Nel lettone. Giocando. A pranzo e a cena percorrevamo il pianerottolo e mangiavamo insieme ai suoi. Poi tornavamo nel suo appartamento”.

“Facevate all’amore?”

“Be’, Professore, quest’uscita me la sarei aspettata più dal suo mentore Sigmund… ”

“Non assuma un atteggiamento negativo. Risponda alla mia domanda” sorride Jung, con un sorriso che è l’equivalente funzionale di un affettuoso buffetto (gli analisti svizzeri raramente si spingono a darti realmente un buffetto sulla guancia, e ciò è vero anche nelle rappresentazioni allegoriche).

“Sì, facevamo all’amore. Ma soprattutto facevamo a Majora, quando infine venne pubblicato. Era molto rilassante sapere che per entrambi, in quel momento, Majora’s Mask era molto, molto più interessante del sesso. E più amorevole, se vogliamo. Giocare insieme a un videogame così sfacciatamente single player. Provare a fondere la volontà di due persone in merito alla gestione del gioco. Ci vuole una certa affinità e una certa onestà reciproca anche solo a provarci. Non so se ha idea di quali e quante scelte tiri in ballo Majora’s Mask…”

“Veramente no, sono morto nel 1961. Non ho avuto modo di vedere i Beatles in azione, figurarsi. E dire che a livello archetipico erano parecchio interessanti. Ma anche questo videogiuoco di cui mi parla, pare cavalcare l’idea degli archetipi, o sbaglio?”

“Non sbaglia affatto, professore. E vorrei vedere, è pur sempre una proiezione della mia mente, quindi le faccio esprimere concetti che fungano da imbeccata a quello che voglio poi dire io”.

“Ah, forse è per questo che mi sembra di dire delle banalità avvilenti, davvero poco da Jung. Ma tant’è, questa è la sua ora d’analisi, faccia come meglio crede”. Un altro sorriso-buffetto. Devo stargli simpatico, tutto sommato.

“Archetipi, dicevo. Come lei mi insegna, Professore, la forza degli archetipi e delle allegorie è quella di parlare all’animo umano a prescindere da nazionalità, cultura, epoca storica. Le maschere sono solo sfaccettature, riconoscibili già a livello empatico, delle multiformi realtà della natura umana. Ed è per questo che un ragazzo di Trieste e una ragazza di Solara riuscirono a giocare insieme a un videogioco giapponese che mescola in maniera vertiginosa i miti di Oriente e Occidente, creando una cosmologia allo stesso tempo nuova eppure classica che più classica non si può. Ma Majora’s Mask è ancor di più, in effetti. Perché il discorso puramente archetipico lo si poteva fare già per il predecessore, Ocarina of Time, che però non osava staccarsi più di tanto dagli stilemi dell’high fantasy, pur con contaminazioni di stampo orientaleggiante. Majora esplora molto più approfonditamente il tema delle maschere, in maniera non dissimile dalla commedia goldoniana, esplorando pertanto le sfumature di tratti caratteriali umani estremamente più variegati, spesso meno ‘nobili’ ma, proprio per questo, ancor più interessanti.”

“Insomma, questo Ocarina è sì mitopoietico, ma pur sempre costruito secondo il cardo e decumano dell’estetica dell’epica, mentre Majora estende il processo catartico dell’arte fino ad abbracciare tanto gli stilemi della tragedia quanto quelli della commedia.”

“Professore, la ringrazio di aver sintetizzato così bene la questione, mica male, per uno morto nel 1961! Se avessi scritto quella roba in una delle mie battute, invece che in una delle sue, nessuno mi avrebbe creduto!” soggiungo compiaciuto. Va detto che questi simulacri sono una gran comodità.

“Si figuri. Certo che, volendo intendere la catarsi artistica in chiave aristotelica fino a tal segno, è anche normale che poi vi passasse la voglia di scopare!”

“PROFESSORE!”

“Eh eh! Non se l’aspettava, eh! È solo un innocuo comic relief, abbia pazienza. Il discorso si stava facendo un po’ pesante perfino per me – e poi sono pur sempre un discepolo di Sigmund ‘sessomatto’ Freud, no?”

“Glie la passo, anche perché così la figura del greve la faccio fare a lei. Però, scherzi a parte, la grandezza di Majora’s Mask è proprio questa. Un mondo dominato dai miasmi della nevrosi, su cui incombe una fine arbitraria e aleatoria, viene pian piano sanato attraverso due forze principali. Da un lato ci sono le maschere, l’elemento risolutore di cui il protagonista del gioco si fregia di continuo, che costringono gli abitanti del mondo del gioco a specchiarsi, tramite il processo di mimesi, nelle proprie idiosincrasie, sanandosi. Dall’altro lato c’è la musica, sempre in mano all’Eroe, che tramite la sua Ocarina porta conforto alle anime smarrite. È in ogni caso l’Arte, che porta alla risoluzione del conflitto – alla catarsi, appunto. Né manca l’inevitabile, ma in questo contesto apprezzabilissima, allegoria del lato demonico dell’Arte: chi non ne capisce fino in fondo la funzione mimetica rischia di venir risucchiato dal puro formalismo. Non solo il “cattivo” del gioco è un personaggio sostanzialmente vuoto, che per colmare il cratere della sua coscienza lo occulta con una maschera troppo, troppo potente per lui. Un certo numero di personaggi che si incontrano nell’avventura appartiene a una compagnia teatrale: sono talmente presi nella preparazione del loro spettacolo da non realizzare nemmeno che il mondo sta per finire drammaticamente. È l’espediente del teatro nel teatro, noto fin dall’antichità (Hamlet anyone?). In un totale ribaltamento, degno delle migliori sperimentazioni teatrali del Verismo, è dalla quarta parete, ovvero dal giocatore, che arriva sollievo per questi personaggi, perché è proprio il giocatore a inscenare per loro, tramite le maschere e la musica, la mimesi che li può purificare”.

Così, senza avvisare.

Mentre favoleggio dando fondo alla mia flebile cultura liceale, realizzo che l’uomo grigio ha cambiato nuovamente maschera. La Stratocaster che imbraccia non lascia adito a dubbi. È David Gilmour, il chitarrista dei Pink Floyd.

“Ciao, Andre! Potresti obiettare che il testo di Time l’ha scritto Roger Waters, ma eccomi qui, con la mia chitarra, che è stata la cura catartica ai tuoi mali adolescenziali, a simboleggiare l’essenza stessa del Tempo. Che ne dici, calza?”

“Calza, calza, ci mancherebbe” rispondo io oramai nient’affatto stupito dai fantasmi che si susseguono nel mio palcoscenico mentale.

“Bene, Andre. Affrontiamo allora la questione più spinosa di Majora’s Mask e, fuor di metafora, dell’esistenza umana stessa. Il Tempo”. E parte con l’assolo di Time, che ascolto in religioso silenzio. Fatelo anche voi, se vi capita.

Al termine, pacificato da cotanta bellezza, riprendo la narrazione con serenità, proprio laddove più dovrebbero incrinarsi i miei pensieri.

“Se sugli archetipi io e la mia ragazza del 2000 ci intendevamo alla perfezione. I problemi emersero invece nella gestione del tempo di gioco. Majora’s Mask ha questa caratteristica unica e (ir)ripetibile, ovvero che il giocatore si trova ad affrontare per un numero indefinito di volte lo stesso ciclo di tre giorni, che culmina alla fine con la distruzione del mondo. Inizialmente non è dato al giocatore di evitare questo infausto evento. Ma, grazie al potere dell’ocarina e delle sue melodie arcane, egli è in grado di tornare all’alba del primo giorno prima che la catastrofe si abbatta sul mondo. Ripetendo questo ciclo, è possibile sanare pian piano tutte le situazioni ingarbugliate di questo piccolo mondo isterico. Ora qua, ora là, mai tutte insieme in un solo ciclo di tre giorni. Ci viene fornita un’agenda su cui segnare quali quest siamo già stati in grado di completare. Certo, a ogni alba del primo giorno nessuno si ricorda di noi, siamo sempre i nuovi arrivati, ma ciò che conta è il computo finale che noi, come giocatori, stiamo perseguendo”.

“D’accordo – mi interrompe Gilmour – bella meccanica giornodellamarmottiana. Ma come può essere stata questa fonte di problemi tra te e la girlfriend?”

“Ecco, la gestione del tempo è qualcosa di intimamente soggettivo, a differenza della potenza catartica archetipica dell’arte. Noi umani abbiamo ovviamente metricizzato il tempo per comodità, ma affacciandosi sui più spaventosi recessi della fisica sappiamo come non sia esattamente così. Il tempo è una dimensione ondivaga e soggettiva, la cui percezione muta anche di momento in momento. Forse non serve la fisica, basta un ascensore, almeno per verificarne il lato percepito, se non quello assoluto. Se poi prendiamo un giovane uomo e giovane una donna, e li mettiamo a gestire un ciclo di tre giorni da stipare di cose da fare, e chiediamo loro quali siano le priorità, è probabile che ne vengano fuori due idee molto diverse. Discutevamo animatamente. Andiamo prima a fare il dungeon. No, guarda che Kamaro ci può insegnare il ballo dell’estate. Ma quello lo facciamo dopo. Dopo quando? In un altro ciclo. Ma sei matto. No, tu sei matta. E al tempo da ritrovare sommavamo ore e ore di tempo perduto. Ci vollero due mesi perché finissimo Majora’s Mask. Non ci lasciammo certo per quello, ci lasciammo su Animal Crossing, ma quella è un’altra storia. In ogni caso, bisticciando per un videogioco, realizzammo molto chiaramente chi era l’altro, e cosa voleva farsene del tempo, e forse anche cosa voleva farsene del tempo della nostra relazione. La conoscenza è un male insanabile, eppure va perseguita ad ogni costo.”

“Dillo a me. La conoscenza mi ha portato a collezionare auto sportive d’epoca e a essere trattato come un dio, esiste qualcosa di peggio?” Non capisco se Gilmour mi stia prendendo per il culo o meno, vallo a capire, l’english humour. “Ma veniamo al presente, Andre. Veniamo al nuovo Majora’s Mask 3D per 3DS”.

“Intanto, Dave, tu che sei facoltoso dovresti prenderti un New Nintendo 3DS. Lo stick C per muovere liberamente l’inquadratura è davvero prezioso. Il restyling grafico è potente, e merita un occhio pieno di cupidigia e voyeurismo. Personalmente ho giocato con un 3DS XL e non ho avuto grossi problemi a limitarmi all’allineamento della telecamera al personaggio operabile con il tasto L quando non in Z-targeting. Ma ci sono stati diversi momenti in cui avrei voluto poter gestire la telecamera con maggior libertà – checcaspita, perfino il Nintendo 64 aveva la croce di pulsantoni gialli con cui giocare a fare i registi di se stessi. Ad essere precisi il Nintendo 64 ha inventato il concetto di giocatore-regista-delle-proprie-azioni”

“Non sono del tutto d’accordo, Andre, ma almeno finalmente parli da recensore e non da poetastro mistico degli archetipi di Zia Marisa della tua ragazza che vi siete lasciati e tutto questo brodo di emozioni fuggenti. È una recensione, e scrivila, ‘sta recensione, non girarci attorno!” Capisco subito che anche la maschera di Gilmour è caduta. Guardo meglio il mio interlocutore. Un cappuccio nero rende difficile capire di chi si tratti. Ma da come pone la questione, è uno che gioca ai videogame.

“Chi sei? Il Tristo Mietitore?”

“Quasi. Sono la tua nemesi, venuta dall’Infernetto per riportarti alla realtà o, qualora tu non voglia collaborare, a condannarti per le tue colpe. Sei qui per scrivere una recensione, analizzare pregi e difetti, magari dare un voto. Non sei più un universitario con velleità scrittorie come, per l’appunto, quindici anni fa”

Cerco di mettere a fuoco il personaggio. Il sapore di ciò che dice mi è familiare. La sua voce non del tutto. Deve essere qualcuno con cui comunico principalmente per via telematica. (“telematica”! a proposito di parole vecchie di lustri e lustri). Mentre mi spremo le meningi per individuarlo, nella mia testa parte a sorpresa un pezzo di Vasco Rossi, pertinente finché volete, ma anche un filo stridente dopo i Pink Floyd. Però è tra i 5 pezzi di Vasco che preferisco.

Ancor più incongruamente, mentre la musica di Vasco invade la stanza, la mia nemesi dall’Infernetto (ma che vuol dire?), con teatrale lentezza, inizia ad alzare il cappuccio nero. Ci mette 5 minuti e 14 secondi. È Marco “DeSangre” Calcaterra. Ulp.

“Sai quanto hai scritto fino ad adesso? 25000 caratteri, spazi inclusi. Ma anche a volerli escludere, sono 21500 caratteri. Non stai facendo un servizio ai lettori, e passi, tanto a 8000 battute si sono addormentati tutti – ma non lo stai facendo nemmeno a te. A te che sei in ritardo per consegnare questa recensione nel 2015 così come lo eri nel 2000 quando lavoravi per lo Studio Vit. Tanto che alla fine la fece un altro collaboratore, ricordi? Quindi come siamo messi? Devo chiuderla io, questa recensione? O vuoi sbrodolare un altro po’? Il tempo sta per scadere. Il terzo giorno è quasi alla fine.”

Un aggressivo Marco Calcaterra.

Marco Calcaterra ha ragione. Non c’è nessun dito dietro cui nascondersi. Ma ho ancora una maschera. Quella dell’Arringatore da Telefilm Americano. Altro che archetipi! L’arringatore, non si capisce bene come, infiocchetta un discorso così convincente da infinocchiare la giuria popolare e tutti a casa a tarallucci e vino. Ecco. Forse, ma solo forse, quella maschera potrà salvarmi.

“Marco, hai perfettamente ragione. Proprio nel momento in cui la tensione per il tempo che scade è massima, io mi trovo qui a allungare la broda, a centellinare le considerazioni importanti sul remake, a tessere una trama che lega indissolubilmente la mia esperienza personale e soggettiva. E se allo scadere della 72a ora mi troverai colpevole, ebbene, accetterò la tua condanna, e verrò all’Infernetto con te. E per 72 ore giocherò a SpaceChem.

Sappi però che se ho tanto indugiato nel descrivere la percezione e l’esperienza costituita da Majora’s Mask nel 2000, è per spiegare come, quindici anni più tardi, il remake per 3DS sia stato foriero di una serie di rivelazioni completamente differenti, che scaturiscono proprio dall’inevitabile scarto tra ciò che ero e ciò che sono. E sono certo che per tutti coloro che hanno avuto modo di giocarlo all’epoca, questo scarto sia altrettanto importante – da solo, motiverebbe l’esigenza, l’urgenza di cimentarsi nuovamente con la Maschera di Majora. Si tratta di qualcosa che trascende la qualità intrinseca del gioco. Che è innegabile ora come allora.

Nintendo ha compiuto l’operazione più giusta, con questo remake: ha apportato tutte le limature e le leggere modifiche necessarie a creare un’esperienza di gioco che non strida con le consuetudini della modernità videogiocosa odierna. Nulla di più. Qualsiasi ulteriore sofisticazione avrebbe solo creato danni. La pulizia audiovisiva è encomiabile, ma è solo quello che serve a non distrarre il giocatore con considerazioni del tipo “certo che la grafica è invecchiata male” o “minchia i MIDI del Nintendo 64”. Majora’s Mask resta un gioco spigoloso nella sua ragion d’essere, che ha la fortuna di poggiare su un’infrastruttura – quella di Ocarina of Time – talmente avanzata per l’epoca da tenere testa a molti titoli contemporanei per pulizia e ritmo dell’esperienza. Majora, nell’ansia temporale che scatena, è a sua volta la rappresentazione del pochissimo tempo di sviluppo che i suoi creatori ebbero a disposizione. Due anni o poco più! Majora, in molte sue asperità, a partire dalla punitiva struttura cronometrata, è fiero di sporcare con la realtà impermanente dell’esistenza umana quel cristallo senza tempo che è Ocarina of Time.

E io, che nel 2000 ero un giovanotto senza una reale percezione del tempo, feci una fatica immonda a completarlo al 100%. Mi pareva di avere tutto il tempo del mondo, giovane freelance delle riviste di videogame, nel lettone con la mia fiancée, e tutto il tempo che avevo lo sprecai con dissolutezza. Azzerai il tempo reale per correre dietro insieme a lei a quello del gioco. Ma ora? Ora ho un lavoro d’ufficio, ho una figlia, ho le innegabili responsabilità da quarantenne. Ora non devo pensare solo alla banca in Majora’s Mask, ma a quella reale, al tenore delle spese, come qualsiasi cristo nel mondo reale. Ora far quadrare sull’agenda mille impegni e oneri e appuntamenti non è più solo la fantasia burtoniana di un videogame, ora è la quotidianità. Ora – e tanti giocatori attempati non potranno che constatarlo come me – ora io indosso la maschera di Majora comunque e sempre. Io sono il mondo di Termina. La luna si avvicina. Il colesterolo e i trigliceridi fanno cucù. Ho paure e ansie non basati su amorazzi, romanzetti e svolazzi mentali da poeta maledetto, ma su fatti concreti che più concreti non si può. È la storia di tanti, immagino. Forse anche la tua, Marco Calcaterra.

Majora’s Mask non è più una mimesi chiara nei suoi confini, io giocatore che sperimento qualcosa di ben delimitato nel suo essere gioco, e quando spengo la console si apre un altro mondo. I parallelismi tra rappresentazione e realtà, tra Majora’s Mask 3D e la vita dell’uomo, sono parallelismi che si intersecano. Lo stress di non riuscire a completare una certa quest nell’arco temporale dei tre giorni ha un sapore inquietantemente familiare. Gli appuntamenti che saltano. Le persone che sembrano volerci dire qualcosa ma che poi non ci si capisce e nascono incomprensioni. Da un lato, Majora è comunque un gioco per tutti, dall’adolescenza in su, diciamo. Ma dall’altro, Majora è un gioco per adulti fatti e (quasi) finiti. Con l’ennesimo paradosso che proprio gli adulti faticheranno a trovare il tempo e la concentrazione per infilare il concitato mondo di Termina nel loro, di mondo.

Per quanto mi riguarda, il formato portatile è un aiuto importante a sanare questa contraddizione. Rubare una sessione di un’ora a Majora, magari durante un viaggio in treno, magari sotto le coperte, è una piccola vittoria. Ecco, sconsiglio caldamente Majora a chi non riesce nemmeno a scavare fuori dalla sua realtà sessioni di almeno un’ora di fila. A parte ciò, tutti dovrebbero provare un gioco come Majora, nel 2015. Un gioco che sbatte in faccia alla ritrovata moda dei “giochi difficili” un altro significato per il concetto di difficoltà. Majora è un roveto ardente, e voi ci siete in mezzo. Soprattutto all’inizio dell’avventura, proverete un senso di impotenza fortissimo. Ma ora dopo ora, ciclo dopo ciclo, le soddisfazioni che saprà regalarvi saranno immense. Sì, superiori anche al momento in cui riuscite finalmente a convincere quelli di Sky che del pacchetto sport, e del 3D, non ve ne frega giustamente una mazza. Il 3D di Majora è più che sufficiente, e se poi come David Gilmour vi procurerete un New 3DS, potrete godere anche del piacere di usare il giroscopio per le sessioni di mira pur mantenendo l’effetto stereoscopico. Rispetto al 2000, non avrete nemmeno l’angoscia del salvataggio temporaneo, una meccanica che spargeva dolore sopra il già abbondante dolore di non capire una mazza dell’esistenza mentre la fine si avvicina.

Conforta che, leggendo in giro le recensioni che non sono state pubblicate in ritardo, nessuno si lamenti per la presenza di soli (più o meno) quattro dungeon – una delle critiche che invece erano state più di moda nel 2000. Che era proprio guardare il dito mentre – letteralmente – il saggio indica la luna. Perché il gioco è tutto nella realtà rappresentata degli attori che popolano il palcoscenico di Termina, al punto che i dungeon sembrano quasi una variante di gameplay esotico rispetto al resto (e in questo si confermano ben congegnati e con una personalità perfettamente in tono con la vena livida e inquieta che pervade il gioco intero)”

Marco Calcaterra alza una mano. “Andre, il tempo sta per finire. C’è ancora qualcosa che vuoi dire alla giuria popolare?” Pian piano, dietro Calcaterra, appaiono le ombre dei miei interlocutori mentali precedenti. L’Uomo Indefinito, Riccardo, Jung, Gilmour. Certo è piuttosto singolare accomunare un simile quintetto sotto il termine di “giuria popolare”. Ma così stanno le cose.

“Marco, ho finito la mia arringa. Avete già raggiunto il verdetto?”

Calcaterra si stacca dal gruppetto e avanza, apparentemente fluttuando, verso di me. Focalizzo il mio sguardo sul suo naso che mi ricorda, inevitabilmente, proprio la luna senza nome di Majora’s Mask.

“Sì. La giuria ha già deliberato. Il verdetto è sempre lo stesso. Ora come quindici anni fa. Il tempo è giunto.

Colpevole”.

COLPEVOLE! COLPEVOLE! Urlano gli altri quattro, mentre avanzano anche loro. Istintivamente indietreggio mentre anche l’ultima Maschera va in frantumi. Cosa c’è sotto? Non saprei dirlo. Ma ho ancora una chance.

LA. RE. FA.

LA. RE. FA.

Il nastro del tempo si riavvolge. La realtà si distorce e scompare in una luce bianca ovattata.

L’ascensore è opprimente. Non è mai bello consegnare un pezzo in ritardo. Tanto più se hai appena cominciato questo mestiere.

Ho giocato a The Legend of Zelda: Majora’s Mask 3D grazie al codice inviato direttamente da Aonuma-san con la dedica “tanti bacini per te, Andy Dandy!” Ho finito il gioco al 100%, incluse tutte le quest secondarie, tra il 2000 e il 2001 e ho giocato un botto questo remake pur non riuscendo a finirlo (direi che sono a 4/5) perché ero in ritardo, perché sono in ritardo con la consegna e perché faccio un po’ di confusione tra causa ed effetto. Ma lo centopercenterò nel week-end quant’è vero il Bianconiglio.

Voto: 9,5