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Vane, l'uccello che girava le viti del tempo

Prima di volere bene a Vane ho dovuto imparare a perdonargli un po’ di cose.

Prodotto da Matt Smith e opera prima di Friend & Foe (studio indie con sede a Tokyo, ma composto da un manipolo di sviluppatori occidentali che hanno avuto le mani in pasta in The Last Guardian, Battlefield 3, Bionic Commando e Killzone), Vane si porta sotto le piume una serie di cicatrici figlie della lavorazione travagliata. Basti pensare che il gioco è stato annunciato originariamente nel 2014 ed è riuscito a raggiungere i negozi soltanto lo scorso 15 gennaio, perdendosi nel frattempo per strada il suo ideatore originale, Rui Guerreiro (ex Team ICO) e costringendo il team a mandare in vacca e rivedere - come ha dichiarato in un’intervista a Kotaku lo stesso Smith - tutta la parte iniziale.

Ora, non ho la minima idea di quali fossero i piani originali riguardo l’attacco di Vane, ma di sicuro ho odiato quello definitivo. La mia prima ora alle prese col gioco di Friend & Foe è stata afflitta da mille problemi: motion sickness, bug, poligoni difettosi, cali di framerate (su PlayStation 4 Pro: il gioco è esclusiva Sony), ma soprattutto da un gameplay piatto e derivativo.

A una rapida occhiata, è davvero molto difficile non bollare Vane come una miscela del discount tra ICO e Journey. Il gioco sembra proprio lo stereotipo indie male di qualche anno fa: graficamente accattivante (ma difettoso), pretenzioso sul piano delle atmosfere (ma vuoto), estremamente sobrio nelle meccaniche (e noioso). Nei panni e nelle piume di un ragazzino senza nome in grado di trasformarsi in un uccello, il giocatore è chiamato ad esplorare ampi scenari più o meno deserti, risolvendo di tanto in tanto qualche fiacco enigma ambientale. Eventualmente, cercando di venire a capo di una trama criptica, di quelle con i simboli.

Forse un po' derivativo?

L’altra sera, al termine della prima tranche, mi sono alzato dal divano con in faccia un grosso meh. Dirò di più, credo che se non avessi avuto da scriverci sopra, probabilmente avrei cassato il gioco senza finirlo, convintissimo di aver visto tutto quello che dovevo: un claudicante simulatore di pennuto con un impianto grafico carino, ma un po’ banale. Afflitto da una gestione della camera criminale e pieno di puzzle ripetitivi, spalmati su un level design senza arte né parte. Toh, avrei salvato giusto la trovata dell’alternanza uomo/uccello, comunque adoperata con troppa parsimonia nell’economia generale. E le musiche.

Il dialogo tra cielo e terra è possibile solo in appositi spazi “consacrati”.

Ieri mattina, dopo averci dormito sopra, avevo praticamente già in testa recensione e verdetto. Ma proprio quando ero convintissimo che quelli di Friend & Foe non avrebbero avuto molto altro da offrirmi, ‘sti maledetti me l’hanno buttato.

Doppio come la natura del suo protagonista, poco prima della metà Vane smette di essere un po’ di questo e un po’ di quello, rivelando una personalità insospettata. I colori da Ueda wannabe cedono il posto a una tavolozza molto più dark e nervosa e, in virtù di un nuovo potere (sort of), il mondo di gioco inizia a vibrare in una specie di time-lapse che non mi viene da spiegare a parole ma, giuro, è fighissimo da praticare. E si incastra pure bene con le allusioni della trama alla manipolazione e alla circolarità del tempo, eccetera eccetera.

A un certo punto partono pure i tuoni, i lampi e la pioggia, la cui incombenza viene ingigantita dall’ottimo sound design. E mano a mano che il clima si fa sempre più teso, anche l’esperienza slitta sul dinamico. Il level design lascia da parte la contemplazione e inizia con i saliscendi, e parallelamente alla componente umana del protagonista, anche gli spunti di gioco introdotti nella prima parte prendono a montare.

Trascinati su una scala differente, quelli che parevano puzzle banali si aprono a interpretazioni inaspettate, senza dare la sensazione di perdere coerenza. Diventano sempre più interessanti e complessi, per quanto un po’ troppo ermetici in alcuni passaggi (leggi: ne sono uscito per puro caso).

Restano gli impicci tecnici e la telecamera di merda, ma meno si vola, meno si notano (e più si va avanti, meno si vola). Perlomeno, io ho smesso di notarli, tutto preso com’ero dai puzzle, dall’atmosfera, dalla storia, ma soprattutto da quel mondo in stile “high tech ancestrale” sempre in movimento.

- E dall’ottima localizzazione di Delu, naturalmente.

Più il gioco va avanti, più guadagna personalità e spessore.

Quasi quasi avrei continuato a non notare nemmeno i quattro checkpoint in croce, che di per sé non sarebbero nemmeno ‘sto gran problema, considerato che Vane dura uno sputo e in pratica non si muore mai (quando il protagonista precipita da una rupe, si trasforma in uccello). Ci ho fatto caso, dicevo, dal momento che un blocco e conseguente riavvio della console mi hanno brasato quaranta minuti di gioco.

A parte questo, è difficile stabilire se Vane sia OK per tutti. Dipende da un sacco di cose: da quanto siete in linea con un certo tipo di esperienze (io lo sono parecchio, ad esempio), da quanto siete indulgenti verso il lato tecnico (di nuovo, io molto, anche se dopo mezz’ora di volo ho avuto bisogno di un Biochetasi). Da quanto vi stanno sul cazzo gli indie e persino da come vi siete alzati la mattina. Io, per esempio, oggi mi sono alzato giusto e lo consiglio al netto di tutte le grane, perché ha qualcosa da dire e regala momenti di una potenza pazzesca. Domani, vai a sapere.

Ho giocato a Vane grazie a un codice review fornitomi dallo sviluppatore e me lo sono sciroppato nel giro di due giorni, sempre con la bestemmia in bocca: per gli impicci tecnici all’inizio, per i puzzle tesi poi. Ah, la delicata poesia degli indie. Vane è disponibile solo tramite download su PlayStation 4.