Vectronom mi ha fatto bestemmiare meno di quanto temessi
La corrente trasversale delle contaminazioni musicali è un filone (forse) lanciato da Tetsuya Mizuguchi ai tempi di Rez e ormai radicatissimo. Se ne sono visti di ogni foggia, suono e colore, ovviamente diversissimi fra loro ma accomunati dalla ricerca di un’integrazione sempre più radicale fra gameplay e colonna sonora. A cambiare, tipicamente, è la “direzione” verso cui si esprime l’interattività di quest’integrazione. C’è chi, come appunto Mizuguchi, fa in modo che ogni azione compiuta dal giocatore emetta suoni e tasselli musicali, utilizzati poi dal sistema per comporre un accompagnamento sonoro, il quale a sua volta detta il ritmo al giocatore, che si lascia trascinare e porta sempre più in alto la sua produzione musicale, in una sorta di serpente che si morde la coda mentre mastica LSD. C’è chi invece segue la direzione opposta e rende l’integrazione a senso unico: il ritmo musicale detta le azioni del giocatore, a volte in maniera ineluttabile, altre volte come suggerimento finalizzato al “bel giocare”, e non ti mette in mano il potere della musica. E poi, ovviamente, ci sono mille sfumature di grigio, perché la verità è che star qui a tracciare categorie è cretino.
Vectronom, comunque, appartiene abbastanza alla seconda categoria. È un gioco di piattaforme, più o meno, in cui si controlla una specie di piramide impegnata a trotterellare in giro per livelli compatti, dalle dimensioni quasi sempre modeste, che propongono un obiettivo primario (arrivare fino in fondo) e diversi obiettivi facoltativi (raccogliere i collezionabili, procedere a ritmo di musica, morire il meno possibile). L’elemento musicale si lega al gameplay nella misura in cui il ritmo delle tracce che accompagna l’azione detta l’evolversi del livello, fra piattaforme che si spostano, mutano, ruotano, appaiono, scompaiono, ostacoli mortali che si palesano nei luoghi e nei momenti meno opportuni e altre sciccherie. È possibile, volendo, giocare ignorando completamente il ritmo e basandosi solo su occhi, riflessi, intuito, ma se ci si lascia trasportare dalla musica, si batte il piedino e si coordinano movimenti e pianificazione con le note, diventa tutto più semplice, chiaro, leggibile, affrontabile. E si fanno più punti, come detto, dato che il gioco ci valuta in base a quanto siamo stati precisi nel seguire i battiti.
Il gioco è, sostanzialmente, tutto qui. Ci sono delle modalità extra che si sbloccano dopo averlo completato e c’è un multiplayer competitivo che ci sbatte tutti nello stesso livello, contemporaneamente, intenti a muoverci verso l’uscita più velocemente degli altri, mentre ci si passa attraverso e, quindi, ci si fa incrociare ancora di più gli occhi. L’esperienza, se la inquadriamo come un classico “ci gioco dall’inizio alla fine”, è obiettivamente piuttosto breve, ma d’altra parte la brevità è forse parte integrante della sua natura. Che senso avrebbe tirarla eccessivamente per le lunghe? Io sono arrivato ai titoli di coda nel giro di circa un’ora e mezza e, per quanto ne sia uscito soddisfatto, certo, un’ora di gioco può essere pochino, per i dieci euro scarsi richiesti all’ingresso. Ma d’altra parte, anche senza tirare in ballo il fatto che io sono più bravo di voi e voi ci metterete di più, anche senza metterci qui a dire che il mondo è pieno di giochi da quindici euro che durano a malapena il doppio, la gioia di Vectronom sta nel giocarci e rigiocarci allo sfinimento, inseguendo la prestazione perfetta in ogni livello, pasticciando con le modalità extra e magari cimentandosi nel multiplayer. A quel punto, altro che un’ora e mezza.