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L'abbiamo sconfitto migliaia di volte ma "il virus" ci fa ancora paura

È la mattina del 18 aprile 2020 e una notizia mi sconvolge profondamente: il COVID è arrivato negli Stati Uniti e a New York gli americani fanno la fila fuori dai negozi di armi da fuoco. Lo so perché Ilaria, la mia compagna, segue Cliomakeup, nota influencer del mondo beauty che abita proprio nella Grande Mela. La blogger, incinta del secondo figlio, ha registrato delle storie su Instagram e sta praticamente “scappando” da New York, perché ha paura di una rivolta civile. Noi siamo in casa ormai da una settimana abbondante. La sera in cui Giuseppe Conte ha annunciato in diretta nazionale che dall’indomani nessuno sarebbe dovuto uscire di casa, fatto salvo per motivi emergenziali, io e Ilaria siamo passati a casa sua a prendere il necessario perché si trasferisse temporaneamente da me. Le strade a Roma erano deserte. Alle dieci di sera, la mia Yaris scivolava in un silenzio talmente perfetto che - e quella frase l’avrei sentita pronunciare da tutte le persone con cui avrei parlato nei giorni successivi - sembrava di essere in un film. O in un videogioco.

L’apocalisse, insomma, come l’abbiamo vista in centinaia di situazioni. E ogni volta abbiamo alzato un sopracciglio e pensato: “Si, vabbé, ti pare? Le possibilità sarebbero infinitesimali”. Come sono infinitesimali le possibilità che un tizio vada a cena con un altro tizio e poi torni a casa sua, a Codogno, un paesino della Lombardia, e in qualche modo finisca per scatenare il caos in tutta Italia. O le stesse possibilità che un pipistrello attacchi “il virus” a uno zibellino venduto al mercato dell’umido di Wuhan, provincia cinese che fino a cinque mesi fa nessuno conosceva, e infetti milioni di persone in un battito di ciglia. Se ci pensate, a tutt’oggi, quella parentesi in cui si stava tutti a casa e alle 18:00 ci si affacciava dai balconi per cantare Azzurro, pare una storia di fantascienza. Per me è così.

Sarà che ne ho vissute tante. Sarà che L’ombra dello scorpione di Stephen King è uno di quei libri che leggi una volta e non ti scordi più, per quelle prime cento pagine sulla diffusione del contagio che oggi suonano non solo possibilissime ma perfino realistiche. Sarà che ho passato un buon 60% del mio tempo come videogiocatore in mondi in cui “il virus” ha infettato gli uomini e li ha trasformati in zombie, in animali, in alieni, o semplicemente li ha decimati e ha scatenato una lotta per la difesa dello status quo, per il cibo e per la sopravvivenza. E nonostante tutta questa “preparazione”, la velocità con cui si è consumato il dramma mi ha lasciato senza parole: nel giro di dieci giorni dalla diagnosi del primo caso in Italia, eravamo sull’orlo di spegnere il Paese e rinchiuderci in casa. Ogni giorno duemila, tremila, quattromila contagi. Improvvisamente, la scena iniziale di The Last of Us non sembrava più tanto assurda.

Ma questa sospensione dell’incredulità l’ho condivisa con tutti. Forse perché pensarci tra i protagonisti dell’ennesimo film, dell’ennesimo videogioco con “il virus”, ci metteva in una situazione in cui sapevamo come agire. in cui non eravamo solo spettatori che potevano accendere la TV durante la conferenza della Protezione Civile e sospirare speranzosi che il tempo facesse il suo corso.

Uno dei vicini di casa con cui chiacchieravo nel cortile condominiale, rigorosamente a due metri di distanza e con mascherina, mi ha confessato che prima dell’inizio della catastrofe stava cercando di prendere il porto d’armi. All’inizio della stessa. ha provato (fortunatamente senza successo) ad accelerare le pratiche per armarsi “nell’evenienza che”. Proprio come gli americani in fila a New York. Gli ho fatto presente che gli infetti da COVID difficilmente sarebbero diventati zombie, anche se vai a sapere. E lui ha annuito, sorridendo e mi ha detto: “Come in Resident Evil!”.

Mia mamma ha invece trasformato la realtà in un complotto internazionale che non avrebbe sfigurato in uno di quei film ultra-americani in cui i comunisti cercano di conquistare il mondo. Secondo lei, siamo stati pedine di un enorme gioco politico ordito prima dalla Cina, che coscientemente ha deciso di sacrificare migliaia di vite cinesi per infliggere un non meglio precisato danno al resto del mondo, poi degli USA, di nuovo disposti a sacrificare migliaia di americani per affossare l’economia cinese. Quando è arrivata la storia dell’Avigan, che ve lo dico a fare. I cattivi erano diventati i giapponesi e la mia passione per il Sol Levante era improvvisamente talmente ingombrante che ho rischiato di essere diseredato.

L’ipotesi più bella è giunta in piena fase due, la fase dei “congiunti”. Mio nonno, che, poverino, è rimasto chiuso in casa per mesi in compagnia solo di mia nonna e della televisione, aveva sentito su non so quale trasmissione complottista che c’erano di mezzo gli astronauti, che il COVID era sconosciuto agli scienziati per via della sua origine extraterrestre. Praticamente, la genesi degli zombie nei film di Romero.

Fa sorridere, vero? Però, torniamo alle premesse del tutto. Ripetiamoci come ci sembrasse impossibile quella scena all’inizio di 28 giorni dopo con le scimmie che scappano dai laboratori inglesi. Come ci sembrasse metaforico il finale de La Cosa di Carpenter, quando Kurt Russell e Keith David si guardano in cagnesco e l’uno non sa se l’altro sia l’alieno. Ripensateci, quando rivedete dopo tre mesi quell’amico che non potete abbracciare perché voi sapete di non avere il virus (be’, forse) ma non sapete se lui ce l’abbia, se sia un asintomatico, se vi stia nascondendo qualcosa.

Scommetto che non vi fa più ridere.

Questo articolo fa parte della Cover Story (post)apocalittica, che potete trovare riassunta a questo indirizzo.