Outcast

View Original

Vivere senza Mega Drive | Racconti dall'ospizio

Racconti dall’ospizio è una rubrica in cui raccontiamo i giochi del passato con lo sguardo del presente. Lo sguardo di noi vecchietti.

Nella vita di ogni persona, arriva una fase in cui inizi a guardare indietro e ricordi il momento esatto in cui tutto è cambiato, perché ti sei trovato di fronte all’oggetto che t’ha cambiato la vita. La prima auto con cui hai fatto quella gita fuori porta in cui hai incontrato l’amore della tua vita, la prima chitarra che ha dato il via alla tua carriera o il primo computer che t’ha svezzato alle gioie dei giochini elettronici.

Per molti, quel momento è coinciso con l’arrivo delle console casalinghe che hanno dominato la seconda metà degli anni Ottanta e la prima dei Novanta. Ah, che bello, quel momento irripetibile in cui da bambino scarti quel pacco che ti sembra enorme e la vedi là di fronte a te in tutta la sua gloria: la console che tanto aspettavi. Dopo mesi di preghiere e suppliche, dopo aver sofferto per ogni volta che Zenga, Jovanotti o Gerry Calà ti guardavano dalla televisione col sorriso di chi si sta divertendo un casino e in fondo agli occhi la scritta “Sfigato di merda, non l’avrai mai! MAI!”, adesso è qua, di fronte a te, che ancora sei in pigiama e già corri verso la televisione, per attaccare tutto mentre hai una faccia che in confronto il bambino che urlava NINTENDO SIXTYFOOOOOOOUR sembra uno che s’è svegliato con la luna storta.

Ti ricordi, o lettore, quel bellissimo momento?

Ecco, io no.

Perché mio padre, che era un antesignano della PC Master Race, “non credeva nelle console”, per citare le sue stesse parole.

Credo lo disse con la stessa voce del padre di Conan nella scena in cui gli dice che ti puoi fidare solo dell’acciaio.

E, intendiamoci, aveva ragione, l’Amiga andava benissimo, mi ci sfinivo con tutta la roba a cui potevo giocare (mio padre non l’hai mai detto, ma credo che il fatto che le cartucce non fossero piratabili cozzava con la mia sete di roba sempre nuova e di sicuro non giocava a favore dell’acquisto di una console) e ancora oggi credo che quel periodo, sommato all’arrivo del primo PC, quello che scroccavo nel suo ufficio ogni volta che era possibile, finché non si decise a comprare un Pentium casalingo nel ’95, sia stato bellissimo e formativo MA…

Ma porca puttana, quanto avrei desiderato poter giocare a Sonic un pomeriggio intero, picchiare duro ad Altered Beast senza inserire monetine e poi Streets of Rage? Golden Axe? Gunstar Heroes?

Perché il punto non è che non ci fossero bellissimi giochi su Amiga, ma non c’erano quei giochi là, quelli ancora più fighi, più belli, più colorati, più folli, più simili a quelli che potevi avere in sala giochi (l’idea di comprare un Neo Geo non era neppure nell’Iperuranio paterno), e poi c’era la questione dei controller. Il concetto di gamepad, all’epoca, era abbastanza lontano dal mondo Amiga e PC. C’era qualcosa, ma facevano mediamente cacare, non funzionavano con tutti i giochi e non avevano neanche un briciolo dell’immediatezza e della precisione dei gamepad per console.

Eh, ma dai, Lorenzo, direte voi, come la fai drammatica, c’erano le conversioni. Eh, sì, certo, le conversioni, fatte da quegli illuminati signori della U.S. Gold, che nella maggior parte dei casi si comparavano al gioco originale come una fotocopia della Primavera del Botticelli fatta su carta gialla da fritto sta all’originale. Partivi con l’idea di poter assaporare la libertà dalle 200 lire e ti ritrovavi con una roba che aveva un frame ogni morte di papa, i colori virati al seppia e che dovevi giocare con un controller che non era pensato per quell’oggetto.

Avete mai provato a giocare a Street Fighter II su una tastiera? Io l’ho fatto e ogni tanto mi sveglio di notte urlando.

Certo, avrei potuto accontentarmi di Body Blows, che è come dire che se non puoi avere la bistecca ti puoi mangiare il cartone pressato (OK, Body Blows era bellino da vedere, ma per il resto era un’agonia).

E li sentivi. in lontananza, eccome se li sentivi, i cabinati che ridevano di te e della tua voglia di emancipazione, oscuri signori capitalisti che ridono dall’alto della loro bellissima grafica, dei colori e di comandi perfetti.

Come si sopravviveva, a tutto questo? Come i drogati, elemosinando dosi quando era possibile. Tipo che ti facevi portare nel negozio di giocattoli quando tua madre doveva aspettare alla posta e ti inchiodavi alla demo station del Mega Drive, guardando malissimo chiunque osasse avvicinarsi. Oppure andavi da qualche amico che ce l’aveva, che però ci giocava sempre e magari a volte preferiva fare altro e tu finivi a stringere fortissimo un Transformer per non sentire il canto delle sirene che gridavano “SEEEEEEEEGAAAAAA”.

E poi c’è la questione culturale. Crescendo, mi sono reso conto che mi mancava una fetta importantissima di storia moderna, di cui avevo potuto godere nei suoi scampoli. È stato un po’ come guardare Woodstock dal buco della serratura, mentre altri si rotolavano nel fango, ascoltavano Hendrix e sperimentavano l’amore libero. Certo, ho recuperato con gli anni e con le emulazioni, ma quell’istante esatto in cui la tecnologia del momento colpisce la generazione che può assorbirne i significati l’ho persa.

Per anni mi sono convinto che le console fossero stupide, che fossero roba meno interessante rispetto a quella a cui potevo giocare sull’Amiga e su PC, che di certo non mi facevano mancare il loro amore. Ah, quanto son stato bene con loro e, diciamocelo, Doom, Civilization, Command & Conquer, Moonstone e un sacco di altra roba che su console non c’era! Ahahaah, beccati questo, mondo console, non ho bisogno di te!

Poi uscì la PlayStation e lavorai un’estate per potermela comprare.

Questo articolo fa parte della Cover Story dedicata al Sega Mega Drive (Mini e non), che potete trovare riassunta a questo indirizzo.