Abbiamo strappato Zerocalcare a una cena per interrogarlo sui videogiochi, l'universo e tutto quanto
Ora, sono ragionevolmente convinto che tutti quelli che passano da queste parti conoscano bene il nome di Zerocalcare. Ciononostante, appena cinque o sei anni fa non avrei potuto scrivere questa frase con la stessa sicumera. O non avrei potuto scriverla affatto, in effetti.
Romano, classe 1983, Zerocalcare/Michele Rech nel giro di pochi anni ha sfondato il muro degli appassionati ed è riuscito a stivare i suoi fumetti nelle librerie di un pubblico vario quanto la sua produzione, capace di passare da tematiche buffe o leggere, comuni a qualsiasi ansioso (e, conseguentemente, a qualsiasi essere umano), ad altre intime, agrodolci, addirittura dolorose, fino ad esplodere nell’impegno politico del reportage Kobane Calling, pubblicato tra il 2015 e il 2016 sulla scorta di un’esperienza di volontariato al confine tra Siria e Turchia.
A partire dal 2011, anno di nascita del suo blog personale, il successo di Zerocalcare è andato di pari passo con la sua maturazione artistica. Merito di una poetica e di un’estetica capaci di intercettare il sentire della generazione dei trenta/quarantenni di oggi, ma anche di mettere a proprio agio adulti (quelli veri, quelli sopra i cinquantacinque) e ragazzini. Il suo immaginario è un autentico mosaico di cultura pop degli ultimi trent’anni (dai cartoon al cinema, ai videogiochi, passando per il grunge, il punk, la scena dei centri sociali e quant’altro), con tutte le tessere al posto giusto, quasi sempre ben contestualizzate e al servizio del racconto, non buttate giù a caso per fare nostalgia.
Zerocalcare sa quali icone evocare (metti una Lady Cocca, toh!) per definire in un secondo questo o quel personaggio, o addirittura un intero contesto, mettendo subito a proprio agio il lettore. Il suo talento espressivo sorpassa una, due, tre volte la macchina della nostalgia per sparare a tutta manetta verso il confine tra i generi, frantumandolo. Questo consente alle storie di passare da un tono all’altro nel giro di una manciata di tavole senza perdere coesione e coerenza. Una sorta di “complessità semplice”, si potrebbe dire, che è forse è il principale cordone empatico tra Zerocalcare e i suoi lettori: gente normale che gioca, legge, guarda film e serie TV, occupa scuola, si incazza, si innamora o va al funerale di una persona cara. La differenza è che non tutti sono in grado di rielaborare e restituire al mondo le proprie esperienze per farne mitologia, Zerocalcare sì. E per farlo ha dovuto faticare, qualche volta pure inciampare, cambiare rotta, e scrollarsi di dosso qualche etichetta di troppo.
Tutto questo pippone per arrivare a dire che, qualche sera fa, per una serie di circostanze vagamente casuali, ho avuto la fortuna di incontrare Michele a dieci minuti da casa mia, allo Spazio Gloria di Como, un circolo Arci per il quale il nostro si è prestato - a titolo personale e gratuito - a fare da “buttadentro” durante una serata di raccolta fondi. Chiaramente, e con decisa invadenza, ho approfittato della prossimità per strapparlo di peso dagli ultimi bocconi di una cena tiratissima, e scambiarci due chiacchiere. Dal vivo Zerocalcare si presenta esattamente come si disegna: un ragazzo alla mano, un po’ timido ma non bloccato; una persona normale alle prese con un successo meritato ma improvviso, con cui sta ancora imparando a fare i conti.
Detto questo, passiamo alle ciance vere:
Andrea Peduzzi: Ciao Michele, stando alle storie che disegni, si direbbe che nei videogame ci sguazzi da parecchio: potresti raccontarci la tua storia di videogiocatore?
Zerocalcare: La mia storia con i videogiochi è cominciata, come per molti, da ragazzino: un Natale, non ricordo di che anno, mio nonno desiderava regalarmi il NES, ma mia madre si oppose ritenendolo per qualche ragione un dono troppo impegnativo, e così finii col ricevere un Game Boy, che di fatto è stata la mia unica console per un sacco di tempo. In mancanza di una macchina da gioco casalinga, facevo visita quasi quotidianamente al corrispettivo in carne e ossa dell’amico Cinghiale, e passavamo i pomeriggi alle prese con le insidie del Mega Drive.
Riuscii a rientrare del gap solo qualche anno dopo, quando - col mio solito ritardo su tutto e su tutti - misi le mani sul fantastico Super Nintendo, e da lì in avanti le console me le sono fatte quasi tutte, con in testa le prime due PlayStation. A ripensarci adesso, in tutti questi anni mi sono pentito di un unico acquisto: l’orribile (sic) Nintendo 64. Ricordo che all’epoca avevo addirittura venduto la prima PlayStation per racimolare i soldi destinati alla console Nintendo, che ho rivenduto poco dopo per recuperare la macchina targata Sony. Però Super Mario 64 e Ocarina of Time ho fatto a tempo a giocarli, eh.
Detto questo, e al netto di tutte le console che mi son passate tra le mani, il mio vero grande amore di giovane videogiocatore sono state le sale giochi, con tutto il bagaglio di varia umanità che si portavano appresso.
Andrea Peduzzi: Oggi, in pieno boom Zerocalcare, con tutti gli impegni che hai, trovi ancora il tempo di giocare?
Zerocalcare: Oggi purtroppo gioco poco, senz’altro molto meno di quanto vorrei. Ho in casa sia PlayStation 4 che Xbox One, beninteso, ma con la vita che faccio e i centomila impegni quotidiani finisco con l’accenderle pochissimo. L’ultimo titolo che ho giocato come si deve è stato - col mio consueto super ritardo - The Last of Us. Il punto è che i videogiochi di oggi richiedono troppo tempo: sono zeppi di filmati, ma soprattutto inutili ripetizioni sul piano delle meccaniche. Recentemente, per divertirmi con gli amici, ho finito col mettermi in casa un coin-op con tanto di emulatore pieno zeppo di ROM. Si tratta perlopiù di titoli classici degli anni Ottanta e Novanta, che mi consentono esperienze di gioco piene e appaganti anche in dieci minuti.
Andrea Peduzzi: Con questa affermazione metti il dito nella piaga giusta. Oggi molti dei cosiddetti “tripla A” tendono a essere prolissi e ripetitivi per macinare ore di gioco, cosa che certo marketing considera un ottimo selling point, a prescindere. Questo incide sui costi e sui tempi di sviluppo, finendo con lo scollare i videogiochi dal presente stretto, considerato che tra la stesura di un concept e la release possono passare anche quattro o cinque anni.
Inoltre, sempre per questioni di mercato, i publisher e gli sviluppatori più grossi raramente approcciano tematiche sociali o politiche d’attualità, e quando lo fanno cercano di non prendersi troppi rischi. Ciò nonostante, da qualche anno a questa parte ai piedi del mercato mainstream è sbocciata una scena indipendente che investe su esperienze più misurate e ergonomiche, e magari prova pure a fare arte, cultura e informazione con il linguaggio dei videogiochi. Tra l’altro, questa scena spesso organizza eventi in spazi autogestiti che potrebbero essere nelle tue corde. Hai familiarità con i videogiochi indie? Ti piacerebbe averci a che fare, magari contribuendo come artista a qualche progetto interessante?
Zerocalcare: Purtroppo mi tocca ammettere di non avere molta familiarità con la scena dello sviluppo indipendente. Però da come la descrivi sembra una roba parecchio figa, che potrebbe interessarmi moltissimo. Riguardo anche gli eventi a cui accenni, il problema è che ultimamente ho una scarsissima vita sociale: lavoro moltissimo, e qualche volta capita che cose potenzialmente interessanti ma appena appena appena fuori dal mio radar finiscano per sfuggirmi.
A peggiorare le cose ci si mette pure il fatto che i miei amici storici non sono vicini a certi contesti: nel mio giro sono sempre stato io, quello più nerd. Tutto questo per dire che fino a due minuti fa la scena dello sviluppo indipendente praticamente non la conoscevo, nonostante la mia vicinanza a contesti alternativi o underground.
Anche da ragazzino, pur giocando parecchio, non ero il classico videogiocatore sempre informato su tutto. Come ho detto, la mia vera formazione è stata la sala giochi, con la sua gente, il suo passaparola e tutto quanto il resto. Di quei posti mi piaceva tutto, soprattutto il senso di sfida che si respirava nell’aria, così vicino alla strada. Magari capitava che nel bel mezzo di una partita di Street Fighter II un secondo giocatore - magari un perfetto sconosciuto - infilasse a tradimento un gettone nello slot e mi facesse il culo, continuando la sessione al posto mio e vanificando i miei sforzi. Oggi una cosa del genere sarebbe difficile da immaginare, ma conservo un buon ricordo anche di certe situazioni.
Nonostante viviamo in tempi di online, adoro il multiplayer locale, il gioco comunitario in presenza. È un’esperienza completamente democratica che in passato mi ha permesso di conoscere un mucchio di gente anche di attitudini sociali diversissime dalle mie, e che magari non avrei potuto incrociare diversamente. Più il rapporto col videogioco diventa individuale, meno mi affascina. Stesso discorso lato console: tutta la faccenda di andare a giocare dai compagni era fantastica. Era un momento di aggregazione: attorno a un paio di console nascevano gruppi di amici. Insomma, per me da ragazzino il videogioco era imprescindibilmente legato alla dimensione sociale. Oggi, al netto del suddetto online, mi sembra che le esperienze di gioco siano sempre più individuali, e ammetto che la componente locale “fisica” mi manca un po’.
Andrea Peduzzi: Eppure, al di là delle preferenze personali, hai comunque smanettato su un sacco di console. Considerato che per campare disegni storie, ci sono stati videogiochi dal taglio narrativo che ti hanno lasciato il segno?
Zerocalcare: Guarda, tra le mie esperienze recenti devo ammettere che sul piano del racconto The Last of Us mi è piaciuto parecchio [a qualcuno invece no], anche se, come ho accennato prima, da un certo punto in avanti l’azione si fa un po’ troppo ripetitiva.
Tra i giochi narrativi che hanno segnato la mia formazione di videogiocatore - e perché no, anche quella di narratore - non posso fare a meno di nominare Final Fantasy VII, che ho amato alla follia, al punto da omaggiarlo apertamente nell’albo Dodici attraverso il personaggio di Katja, che a Cloud ruba capelli e spadone (abbiamo parlato di Dodici in questo podcast).
Sempre tra i videogiochi che ho apprezzato e che hanno influenzato il mio lavoro, anche e soprattutto sul piano grafico/artistico, metto sicuramente tutta la produzione Lucasfilm/LucasArts degli anni Ottanta e Novanta. Penso a titoli fantastici come i due Monkey Island, Day of the Tentacle o Grim Fandango, disegnati con un tratto delizioso a metà tra la morbidezza Disney e gli spigoli della Hanna-Barbera o della UPA.
Andrea Peduzzi: C’è qualche opera a fumetti che ti sarebbe piaciuto (o ti piacerebbe) vedere declinata in salsa videoludica?
Zerocalcare: In realtà sì. Da sempre ci sono tre opere - nello specifico tre manga - che soprattutto da ragazzino avrei voluto godere anche in forma di videogiochi fatti come si deve, magari col tocco degli autori stessi. Le opere in questione sono Dragon Ball di Akira Toryama, I Cavalieri dello Zodiaco di Masami Kurumada, e Ken il guerriero del duo Buronson-Hara.
Naturalmente so bene che i suddetti fumetti hanno avuto parecchi momenti nel mondo dei videogiochi, e a distanza di anni continuano a uscire adattamenti per le nuove console. Eppure gli esiti mi sono sempre parsi parecchio scadenti, senza contare che non ho mai condiviso la formula da picchiaduro a incontri scelta nove volte su dieci.
Io, da pischello, mi immaginavo questi videogiochi fantastici tratti dai miei manga preferiti, con delle meccaniche a metà tra il platform e il picchiaduro a scorrimento, semplici e solide. E invece niente, sono sempre rimasto a bocca asciutta.
Andrea Peduzzi: Per affinità di target, capita che videogiochi e fumetti oggi sfiorino i medesimi mercati o condividano le stesse fiere. Secondo te, al di là delle istanze commerciali, esistono reali punto di contatto tra i due media a livello di linguaggio?
Zerocalcare: Ma, così a naso ho sempre riconosciuto nei videogiochi elementi afferenti al linguaggio cinematografico, piuttosto che a quello del fumetto. Forse le opere di un tempo apparivano più “fumettose” nel taglio: penso, di nuovo, ai titoli dell’età d’oro di LucasArts.
Prendendola più sul generale, ho la sensazione che ultimamente tutto tenda a convergere sempre più velocemente verso una sorta di linguaggio unico: film, videogiochi, libri, serie TV, fumetti; e ho la sensazione che anche la realtà virtuale stia per fare la sua parte. Restando sul presente, invece, e in riferimento al fumetto tradizionale che disegno io, rispetto ai videogiochi vedo senz’altro più differenze che affinità; magari il linguaggio dei fumetti interattivi potrebbe essere più pertinente, in questo senso.
Andrea Peduzzi: Rimaniamo in ambito media: i videogiochi nascono digitali, e il loro passaggio dallo scaffale ai vari PlayStation Store scorre abbastanza liscio. Per i libri la faccenda è senz’altro più complicata: nati analogici, nel corso dei secoli hanno generato una serie di prassi e una forte componente emozionale difficili da modificare in tempi brevi, nonostante la diffusione e l’innegabile praticità di Kindle ed e-reader vari. I fumetti, di contro, la carta non l’hanno praticamente mai lasciata, immagino - ma non sono un esperto sull’argomento - per questioni di resa grafica, formati e, di nuovo, emozionali.
Il tuo caso mi sembra abbastanza particolare: hai sfondato su internet attraverso un blog che ha cavalcato alla grande i social media, ma appena ne hai avuto modo hai ribadito con forza il cartaceo. Oggi, grazie anche al successo dei tuoi lavori, le librerie stanno facendo sempre più spazio ai fumetti, e si potrebbe addirittura parlare di un nuovo paradigma. Come vedi il futuro del tuo lavoro in rapporto alle abitudini di consumo digitale?
Zerocalcare: Guarda, non ho problemi a sostenere che, per me, in ambito fumettistico il formato digitale è la morte, e lo dico a prescindere dal successo che i miei lavori hanno riscosso sul web. Capisco che questa affermazione detta da me potrebbe suonare forte, quasi una contraddizione in termini, eppure davvero non riesco a leggere i fumetti in formato digitale. Per metterla giù ancora più dura: se fossi un utente non leggerei nemmeno i miei stessi fumetti pubblicati su internet, sempre per la questione della forma, beninteso, non dei contenuti. Il fumetto o il libro digitale alla lunga mi stancano, non mi appagano completamente: amo troppo tenere un volume tra le mani, sfogliarlo, sentirne il peso e l’odore. Certo, di libri in formato digitale ne compro parecchi, soprattutto per la faccenda della luce incorporata di alcuni e-reader utilissima per la lettura notturna. Però, in genere, i libri acquistati dai cataloghi digitali poi me li ricompro pure su carta, per il piacere di possederli e goderli anche e soprattutto in quel formato.
Quindi, per rispondere alla tua domanda, credo e spero che il fumetto resterà legato al cartaceo anche nel prossimo futuro.
Andrea Peduzzi: veniamo al mio pallino del momento: ultimamente mi passano davanti un sacco di opere che si appoggiano alla cultura popolare di venti o trent’anni fa. Alcune hanno senso e utilizzano i riferimenti per raccontare qualcosa di nuovo, altre recuperano l’estetica retrò per vendere nostalgia e fare cassa. In tutto questo, la cosa che mi fa più strano sono i ragazzi con la metà dei miei anni che sui social ostentano i miei stessi riferimenti culturali. Ci vedo qualcosa di malsano. Tu che ne pensi?
Zerocalcare: Penso che esista una grossa differenza di percezione tra come i ragazzini di oggi si vivano certe opere del passato, rispetto a come ce le vivevamo o ce le viviamo noi. Ad esempio, la maniera in cui io, oggi, posso ascoltare un vecchio brano di Max Pezzali non sarà mai la stessa di un ragazzino. In genere, se recupero quella roba lo faccio con strumenti critici ben precisi, magari basandomi anche sulla mia esperienza, sul mio vissuto, riflettendo su quello che ero un tempo e su quello che sono adesso. Un ragazzino, invece, il medesimo disco di Pezzali (ma potrebbero essere un film, un libro o una serie TV) rischia di prenderlo per buono senza farsi troppe domande, acriticamente, giusto perché imposto dalla moda e dal revival. Revival di una decade, magari, che non ha mai sfiorato nemmeno di striscio. Ma non importa: una roba è anni Ottanta o Novanta? OK, è figa a prescindere.
Detto ciò, considero che quella dei revival sia solo una fetta dell’offerta odierna, in termini di arte o intrattenimento, e non ho affatto l’impressione che non si vada davvero avanti o che non ci sia niente di nuovo all’orizzonte, anzi. Per me, a prescindere anche da opere citazioniste e di buona qualità come Stranger Things, si sta comunque formando un immaginario popolare inedito, solo che è meno visibile, meno definito, forse perché nuovo e vecchio finiscono col mischiarsi confondendo un po’ le acque. Però non sono pessimista riguardo al futuro, anzi.
Andrea Peduzzi: Sul piano creativo e artistico mi sembra che l’Italia ultimamente stia attraversando un buon momento. Ci sono i tuoi fumetti, certo, ma anche quelli di altri autori stanno facendo bene; poi sono spuntate serie come Romanzo Criminale, Boris o Gomorra, film come Suburra, Lo chiamavano Jeeg Robot, Veloce come il vento. Film spesso di genere, al passo coi tempi; confezionati così bene che fino a qual che anno fa potevamo solo sognarceli. Perché sta succedendo proprio qui e ora?
Zerocalcare: In Italia durante gli ultimi anni si sono effettivamente aperti degli spazi di mercato che prima non esistevano, e sto parlando in termini generali.
I fumetti, nello specifico, sono diventati una cosa un po’ meno di nicchia, e conseguentemente le case editrici hanno pian piano cominciato a considerare chi li disegna o li scrive come qualcuno che, effettivamente, di mestiere fa quello; come un professionista. So che in altri contesti una cosa del genere potrebbe suonare ovvia, scontata. Eppure, se fino a poco tempo fa volevi pubblicare un fumetto e non eri un nome grosso, magari ti veniva approvato un anticipo di cinquecento euro: una cifra tutto sommato ridicola per un lavoro che capace di portarsi via anche otto o nove mesi della tua vita. Senza contare che e a fine operazione, magari, il compenso complessivo non superava i mille o i millecinquecento euro, anche in caso di vendite discrete.
Un mercato modellato in quella maniera obbligava molti autori o aspiranti tali ad approcciare il fumetto come una sorta di hobby costoso, praticabile solo da chi esercitava una seconda professione o era ricco di famiglia.
Oggi le cose sono un po’ migliorate, e i compensi proposti dalle case editrici sono nel complesso un po’ più alti. Questo consente agli autori, me compreso, di sperimentare, di lavorare con maggiore serenità alle opere. Insomma, di crederci di più. Certo, il discorso non vale per tutti: tanta gente continua a beccarsi i famigerati anticipi di cinquecento euro, però mi sembra che il parco di professionisti che comincia a poter vivere di fumetto ultimamente si sia un po’ allargato.
Riguardo al cinema e alle serie TV non ho il polso del mercato: sono sostanzialmente un fruitore come altri; però, a sensazione, direi che c’è stato un bel rinnovo anche da quelle parti, e credo che le cose si siano sbloccate a partire da Boris, seguito a ruota da Romanzo Criminale e da Gomorra.
In generale, mi sembra che in Italia sia un buon momento per raccontare storie, sì.
Andrea Peduzzi: Parlando della tua poetica, sei partito da racconti brevi di taglio personale, sospesi tra il comico e l’agrodolce, e con quelli sei riuscito a farti una base di lettori sul web. In seguito, con la pubblicazione degli albi, hai traghettato i tuoi lettori verso storie sempre più complesse, sia sul lato umano che politico. Fermo restando che, anche agli inizi, questo tuo lato impegnato non hai mai provato a nasconderlo in nessun modo, la tua è stata un’evoluzione programmatica o spontanea?
Zerocalcare: Diciamo che la mia identità è molto più vicina allo Zerocalcare di Kobane Calling, che a quello del blog. Io ho avuto e mantengo un percorso di vita fortemente politico, diviso tra gli spazi occupati e i centri sociali. Non c’era nulla di programmato nell’evoluzione delle mie tematiche, però era in qualche modo inevitabile che le mie identità di narratore, quella più disimpegnata e quella più politicizzata, a un certo punto finissero per convergere, perché altrimenti, alla lunga, probabilmente sarei diventato schizofrenico. Continuare a scrivere solo storie leggere, dopo tre o quattro anni, era diventato ridicolo per il mio modo di sentire, e ho deciso di lasciare sempre più spazio alle tematiche serie fino all’inevitabile sovrapposizione. Oggi, tentativo dopo tentativo, senso sento di aver trovato un equilibrio tutto sommato accettabile, e non penso che chi ha iniziato a seguirmi su web abbia vissuto Kobane Calling come una violenza orribile. Dopo questa esperienza, del resto, non intendo certo abbandonare anche i temi leggeri e disimpegnati: posso ancora scrivere storie sui Cavalieri dello zodiaco per Wired, o disegnare di cinema su altre testate, e cose così. Il fatto che ora abbia finalmente la possibilità di affiancare impegno e leggerezza senza doverli nascondere l’uno dall’altra mi rasserena davvero moltissimo.
Andrea Peduzzi: Ultima curiosità: sei mai stato approcciato da qualche studio che sviluppa videogiochi?
Zerocalcare: Sì, molto spesso, e sarei anche tentato. Ma al momento, ahimè, ho tempo solo per i fumetti.
Si ringrazia Zerocalcare per la disponibilità e il "disegnetto", Bao Publishing per le foto belle e l'amico del Peduzzi per le foto di straforo durante l'intervista. Ah, come al solito, se acquistate su Amazon le opere di Zerocalcare (o qualsiasi altra cosa) partendo da questo indirizzo qui, una piccola parte di quello che spendete va a supportare il nostro lavoro, senza alcun sovrapprezzo per voi.