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Di Super Mario Odyssey, Nintendo e cerchi perfetti

Di Super Mario Odyssey, Nintendo e cerchi perfetti

A marzo, Nintendo ha sconvolto il mondo due volte in un colpo solo, piazzando sugli scaffali Switch e The Legend of Zelda: Breath of the Wild. Da un lato, la console ha saputo davvero congiungere le due anime della casa di Kyoto, mettendo insieme la praticità e la comodità di un dispositivo portatile e la potenza di una console casalinga; dall’altro il nuovo Zelda ha riscritto una storia lunga trentuno anni, spiegando a tutti perché si tratta di una leggenda letterale, nel mondo dei videogiochi: impossibile peregrinare nelle terre di Hyrule senza riconoscere elementi mutuati da videogiochi più recenti, e allo stesso tempo è illuminante vedere come quegli stessi videogiochi recenti siano stati pesantemente ispirati da Zelda, e qui riletti, adattati e migliorati in modo assolutamente geniale, segnando non solo il 2017 videoludico ma l’intero genere dei giochi di ruolo, da qui agli anni a venire (e se non vi fidate di me, fidatevi di uno che fa i videogiochi fighi per lavoro). The Legend of Zelda: Breath of the Wild è talmente bello che, in un impeto di amore passionale, molti giocatori si sono messi a limonare con la cartuccia del gioco, per poi scoprire che le cartucce di Switch sono fatte della stessa sostanza di cui è fatta lammerda.

Super Mario Odyssey, d’altronde, è la prima apparizione della baffuta mascotte su una console dal successo inaspettato e deflagrante. E se non capita spesso di avere il gioco dell’anno a marzo, immaginate quante possibilità ci siano che la stessa software house pubblichi *due* giochi dell’anno, nel giro di otto mesi, per la stessa console proprietaria. Super Mario Odyssey è il coronamento di un capolavoro compiuto da Nintendo, che prende l’uomo immagine del videogioco e lo innalza a portabandiera dello straordinario, costante lavoro sottotraccia della casa di Kyoto: quando gli stolti si chiedono se sia finita un’epoca del gaming, preoccupandosi dello scarso successo di Wii U ("certificato" dalla mancata uscita di un nuovo Mario 3D), il saggio giocattolaio nipponico tira fuori dal cilindro un’incredibile macchina da gioco, capace di indicare il futuro del gameplay con due titoli che verranno ricordati a lungo.

Paura e delirio nel Regno dei funghi.

Così come Breath of the Wild, anche Super Mario Odyssey arriva dopo anni in cui il trono del re stava forse cominciando a scricchiolare. Con l’ascesa degli sviluppatori indipendenti, tutti i ragazzini cresciuti a pane e giochi di piattaforme si sono messi a sviluppare qualcosa di nuovo che, in qualche misura, omaggiasse e traesse spunto dalle meccaniche rese immortali da Super Mario: salta, cresci, corri, muori, riprova, salva chi ti sta a cuore.

Se i giochi di ruolo (specie quelli open world) sono un genere in cui la novità va spesso a braccetto con un dispiegamento di risorse sempre più massiccio, in modo da dare forma profonda a una funzione sempre più dettagliata e coinvolgente (tanto che anche i fenomeni indie di genere hanno beneficiato di ingenti campagne di crowdfunding), i platform indipendenti hanno vissuto una proliferazione che, se da un lato ha dato voce a molti aspiranti designer, dall’altro ha sortito l’effetto di una selezione naturale: è vero che le meccaniche di base sono rimaste le stesse da Super Mario Bros. (1985), ma è anche vero che, senza un’idea vincente, il salto sarà corto e la terra sotto i piedi verrà meno.

Negli anni abbiamo visto di tutto. Da riavvolgimenti temporali (Braid, 2008) a sconvolgimenti gravitazionali (VVVVVV, 2010), lettere d’amore prospettiche (FEZ, 2012) e bestemmie carnose dal respawn immediato e infinito (Super Meat Boy, 2010). Idee nuove su meccaniche consolidate, abbastanza forti da scavarsi una nicchia nel cuore degli appassionati e diventare punti di riferimento per un genere che si regge sulla pulizia del design e della realizzazione tecnica. E così come loro non sarebbero potuti esistere senza Super Mario Bros.; senza questi, probabilmente, non avremmo avuto Super Mario Odyssey come lo conosciamo.

Sì, perché Super Mario Odyssey, per stessa ammissione del producer Yoshihaki Koizumi, è la summa di diverse idee di gameplay, di diversi mondi tenuti insieme dal solito MacGuffin (salva la principessa!) e dal cappello Cappy, che permette a Mario di interagire con elementi e abitanti dei regni che troverà sul suo cammino. Analogamente al castello di Super Mario 64 (il primo Mario in 3D, su cui Koizumi ha lavorato come assistant director con il padre di Super Mario, Shigeru Miyamoto), ogni regno di Super Mario Odyssey è ricco di idee, livelli e segreti che aspettano solo di essere goduti. E se nel 1996 la potenza di calcolo non permetteva certe libertà, oggi ogni regno è un vero e proprio sandbox, un piccolo open world in cui giocare con quello che ci troviamo di fronte, indipendentemente che siano piattaforme da assaltare o t-rex da portare in giro, senza soluzione di continuità.

Ogni regno, in Super Mario Odyssey, mette il giocatore davanti a un gigantesco livello aperto, ricco di lune da raccogliere e, soprattutto, idee da scoprire. Non è solo la pulizia formale a stupire, ma la varietà di situazioni e di meccaniche che animano il gioco ben oltre il momento in cui restituiamo la libertà alla principessa Peach. Probabilmente non è un caso che Koizumi abbia cominciato a lavorare in Nintendo con The Legend of Zelda: A Link to the Past, e che il suo Super Mario rappresenti, sostanzialmente, quello che Breath of The Wild ha fatto otto mesi prima per la saga di Link: Super Mario Odyssey, pur abbracciando perfettamente il nuovo spirito ibrido di Nintendo, rimane forte della sua storia e la omaggia con il cuore, e allo stesso tempo dimostra di avere imparato tantissimo dai figli prediletti che ha cresciuto in questi anni. Il risultato è un migliaio di lune da raccogliere, e tante altre pagine di storia del game design da sfogliare, con un piacere della scoperta sempre nuovo.

In verità vi dico, Super Mario Odyssey è talmente bello che dovrebbe avere la cartuccia commestibile.

D'altronde, siamo tutti figli di Jessica Chobot.

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Questo articolo fa parte della Cover Story "I (nostri) migliori anni del videogioco", che trovate riepilogata a questo indirizzo.

Paperback #25: Macerie prime recensito da un cane maledetto

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