MACHINIMA. 32 conversazioni sull'arte del videogioco (con questa fanno 33: lascio?)
Tutto quello che avreste sempre voluto sapere sulla Game Art* (*ma non avete mai osato chiedere a Bittanti)
Il rapporto tra Matteo Bittanti e Outcast è persistente, onnipresente, forse persino preesistente ad Outcast stesso; si trovano tracce del nostro fin dall’episodio 1.5, solo la prima di molte, molte altre apparizioni. Il fruitore attento (ma anche quello disattento) potrà senz’altro concordare che Outcast sia l’opera di Game Art più significativa di Bittanti e del suo doppelgänger, Lorenzo Antonelli.
In ragione di questa imprescindibile relazione, quando MBF mi ha gentilmente recapitato una copia di MACHINIMA. 32 conversazioni sull’arte del videogioco, ho sentito il dovere di trascinare la cosa su Outcast per riconsegnarla - appunto - al suo creatore. Il poderoso volume - poderoso per sostanza ma non per forma, considerato che conta centocinquantotto agili paginette, da leggere qualcuna in meno - «espande ed arricchisce, in forma cartacea, la mostra GAME VIDEO/ART. A SURVEY curata da Matteo Bittanti e da Vincenzo Trione presso lo IULM di Milano nel 2016». Sostanzialmente si tratta di una raccolta di trentadue interviste, che interrogano altrettanti artisti dislocati ai quattro angoli del mondo sulle ragioni del machinima e della Game Art. Tutti questi tasselli compongono un mosaico vario, parecchio interessante, assolutamente significativo per afferrare un fenomeno che rischia di finire incompreso, o peggio frainteso, per via della sua natura estremamente sfumata e multidisciplinare. Le interviste declinano pressapoco le stesse domande, pur con le dovute variazioni di contesto: il rapporto con la pratica di appropriazione creativa dei videogiochi, con la rimediazione, il copyright, la funzione del videogioco nell'era del machinima; i feedback di ciascun artista, anche estremamente diversi l’uno dagli altri, forse non saranno tutti ficcanti allo stesso modo (come è lecito aspettarsi da un lavoro del genere), ma senz’altro sono rilevanti nell’insieme.
Scrivere una recensione convenzionale di MACHINIMA non è una cosa completamente nelle mie corde, principalmente perché io stesso sono solo un arrangiato nei confronti delle tematiche trattate. Avendone la possibilità, ho preferito costruire un’intervista con lo stesso Bittanti, appuntandomi via via che leggevo le cose a mio avviso più interessanti e costruendo le domande di conseguenza. Entriamo nei personaggi.
Andrea Peduzzi: Secondo Ashley Blackman, solo una parte dei machinima in circolazione può essere definitita artistica e il resto è fandom; dice inoltre che «l’arte videoludica [deve] fare a meno del videogioco, altrimenti non è arte». Joseph Delappe ha sperimentato con le periferiche per fare arte sfruttando la prossemica “involontaria” derivata dall’esperienza di gioco, ribaltando priorità e prospettive (The Artist’s Mouse). Tamara Yadao e Chris Burke - aka foci + loci - hanno mappato i controller di PlayStation per ricavarne strumenti musicali sui generis. C’è chi usa glitch per spingere i videogiochi ai propri limiti, per farli esplodere e creare caos: penso ad Angela Washko e ai suoi Free Will Mode, che infilano i sim in situazioni limite per testarne le reazioni (cucine in fiamme, piscine senza scale, appartamenti senza porte o finestre). Leggendo le conversazioni presenti nel libro, emerge una situazione generale della Game Art piuttosto varia, bizzarra e senz’altro interdisciplinare. Eppure, al di fuori dell’ambiente, c’è ancora una certa confusione, e spesso molte espressioni creative vagamente legate al videogioco si appiccicano questa etichetta a sproposito. Ti andrebbe, per quanto suoni spigoloso, di tracciare dei minimi confini critici riguardo la Game Art? Quali sono - se ce ne sono - i sine qua non della disciplina? L’interattività, distinguo del materiale di partenza - il videogioco - è elemento rilevante anche per la Game Art?
Matteo Bittanti: Oggi, Game Art è un’espressione priva di significato. Specialmente in Italia, dove “curatori”/“critici” improvvisati usano etichette e definizioni a sproposito, senza cognizione di causa, fraintendendo o ignorando intere categorie concettuali, intenti, progettualità, tradizioni, pratiche, canoni e criteri. Svolgono una funzione parassitaria, esplicitamente opportunistica e sono completamente estranei tanto al mondo dell’arte quanto a quello del videogioco.
Personalmente, considero molto utile la distinzione di Peter Krapp tra giocatori e artisti. Mentre i primi giocano ai videogiochi, i secondi giocano con/tro - i videogiochi. Per i giocatori, il gioco è il fine. Per gli artisti, il gioco è il mezzo. Trovo affascinanti le differenti tattiche controludiche applicate dalla seconda categoria di praticanti. Machinima raccoglie conversazioni a tutto campo con una compagine di contro-giocatori geograficamente dislocati: l’obiettivo è stimolare una discussione critica anziché imporre rigide tassonomie dall’alto.
Andrea Peduzzi: Il machinima e altre manifestazioni della Game Art adoperano il videogioco per creare qualcosa di nuovo. Una discreta fetta della cultura popolare di oggi si basa sulla rielaborazione di elementi preesistenti (lo ha capito molto bene Nintendo con Super Mario Maker e NES Remix, probabilmente due tra i prodotti più interessanti degli ultimi anni), e questo genera qualche spigolo a livello legale. Eppure, leggendo il libro, non ho potuto fare a meno di domandarmi se leggi sui diritti e burocrazia, viste da molti artisti come agenti repressivi (Marta Azparren definisce il copyright «paradossale»), non siano invece forze creative involontarie. David Blandy dice che «scontrarsi con i limiti formali di un mezzo, sfruttarli per creare qualcosa di nuovo, di differente, corrisponde alla mia definizione di arte». Il copyright, in questo senso, non può essere visto come un limite formale con cui scontrarsi, alla pari di un vincolo tecnologico, diventando a sua volta uno strumento? In fondo l’intersezione tra vincolo e creatività produce spessissimo degli esiti dirompenti. Cosa ne pensi?
Matteo Bittanti: Il machinima è, per definizione, frutto dell’appropriazione e della successiva trasformazione di materiali audiovisivi preesistenti. Non a caso, il machinima emerge in un’era segnata da quelle pratiche creative che Nicolas Bourriaud ha definito postproduzione. Secondo il critico francese, «Dall’inizio degli anni Novanta [e non Ottanta, come si legge nell’edizione italiana], le opere d’arte sono create sulla base di opere già esistenti; sempre più artisti interpretano, riproducono, espongono nuovamente e utilizzano opere d’arte realizzate da altri oppure prodotti culturali. […] Inserendo nella propria opera quella di altri, gli artisti contribuiscono allo sradicamento della tradizionale distinzione tra produzione e consumo, creazione e copia, readymade e opera originale. […] Non si tratta più di elaborare una forma sulla base di materiale grezzo, ma di lavorare con oggetti che sono già in circolazione sul mercato culturale, vale a dire, oggetti già informati da altri oggetti. I concetti di originalità (essere all’origine di) e di creazione (creare qualcosa dal nulla) svaniscono lentamente nel nuovo panorama culturale». Ergo, per alcuni artisti, la deliberata violazione del copyright è un intento programmatico, un modus operandi, una tattica che mira a una trasfigurazione estetica e linguistica.
Andrea Peduzzi: Larry Achiampong ha scelto di servirsi dei videogiochi perché li ritiene una “semplice” tessera della contemporaneità, anziché una sorta di eccezione alla regola. Questa posizione è atipica o rispecchia i modi in cui si sono evoluti i videogiochi nella percezione comune e, conseguentemente, nelle rappresentazioni e nelle rimediazioni?
Matteo Bittanti: Semplificando, i contro-giocatori si distinguono in due grandi categorie: chi apprezza il medium videoludico e chi invece lo contesta, o meglio, contesta l’ideologia che il videogioco commerciale esprime, veicola e promuove. Per alcuni, il machinima esemplifica quest’opposizione politica: è tanto un prodotto quanto il processo che elimina la dimensione interattiva (il gioco), per lasciare quella squisitamente iconografica (il video).
Andrea Peduzzi: Molti artisti scelgono di usare come cassetta degli attrezzi i giochi della serie Grand Theft Auto, che già di partenza è un materiale irriverente, dirompente, e perlopiù si presta alla rimediazione attraverso programmi di editing video interni e tollerando (se non incoraggiando) cheat che “isterizzano” il gioco base (Untitled, di Philip Solomon). Eppure, partendo da premesse di questo tipo, non si corre il rischio di essere ridondanti, di evidenziare a punta grossa la carica eversiva già presente nel gioco finendo con l’abbassare il volume della provocazione?
Matteo Bittanti: Per quanto concerne le opere di Phil Solomon, l’utilizzo di Grand Theft Auto è simultaneamente personale – specie nelle opere dedicate ai colleghi e amici David Gatten e Mark LaPore, mi riferisco alla tetralogia Crossroad (2005), Rehearsal for Retirement (2007), Last Days in a Lonely Place (2007) e Still Raining, Still Dreaming (2008) e intermediale – penso a EMPIRE (2008-2012), un remake di/omaggio a Empire (1964) di Andy Warhol. Nel primo caso, l’artista usa il mezzo come strumento per riflettere sulla propria esperienza ludica. L’intento è essenzialmente fenomenologico e auto-referenziale. Il machinima risultante è, simultaneamente, un’opera d’arte e la sua documentazione, un testo e un contesto multimediale attraverso cui Solomon riflette sul concetto di visione, ricordo, perdita e sofferenza. Nel secondo, Solomon ingaggia un contraddittorio con la storia dell’arte e, in particolare, con la video arte. Qui l’intento è ipertestuale e meta-referenziale.
Andrea Peduzzi: In scia alla domanda precedente: quali sono secondo te i principali rischi da schivare per chi realizza arte rimaneggiando i videogiochi?
Matteo Bittanti: Il machinima soffre della medesima sindrome della fotografia: la relativa semplicità dei processi di produzione incentiva una proliferazione di opere ridondanti, di scarso valore e interesse, vacue e innocue sul piano concettuale prima ancora che estetico. Personalmente trovo imperdonabile l’atteggiamento apologetico, lo stereotipo e la maniera, la tautologia e l’”omaggio sincero” tipico del vernacolare. Nel contesto del fandom, inoltre, il concetto di perizia spesso si riduce alla mera abilità tecnica – tipico delle culture che feticizzano una performanza egemonico-dominante, per dirla con Stuart Hall – laddove l’aspetto più stimolante risiede sempre nello sforzo concettuale dell’artista. Per una serie di ragioni che ho spiegato altrove, il termine stesso “machinima” è oggi problematico: personalmente preferisco usare l’espressione video arte.
Andrea Peduzzi: Attraverso l’opera Supplice Motorisé, Les Riches Douaniers rappresentano un incidente stradale via GTA. La comunità dei giocatori, paradossalmente, trova l’esperienza eccessivamente violenta. Secondo te questa incomprensione dipende dal contesto di GTA, che stempera la violenza attraverso satira e iperboli, o dal fatto che lo spazio videoludico, a prescindere dalle tematiche, venga inscritto convenzionalmente in contesti leggeri, e quello artistico in contesti seri? Il problema è di sensibilità o di sovrastrutture?
Matteo Bittanti: Forse andrebbe premesso che il machinima artistico non ha nulla a che fare con la comunità dei videogiocatori, esattamente come la video arte raramente si interseca con il pubblico dei multiplex: è un diagramma di Venn irrealizzato, forse irrealizzabile. Non ha senso prestare attenzione ai commenti di chi non possiede le risorse culturali necessarie per comprendere intenti, obiettivi e risultati. L’asimmetria informazionale produce decodifiche aberranti e, dunque, l’impasse.
Andrea Peduzzi: Ho notato che molti degli artisti si sono avvicinati ai videogiochi in tempi relativamente recenti. Non tutti sono - o sono stati - giocatori accaniti. Qualcuno nemmeno gioca. Per Oscar Nodal il medium ha la precedenza assoluta, in quanto il genere di riferimento costituisce un vincolo per le possibilità creative, influenzando o addirittura condizionando l’esito della composizione. Philip Solomon ha scelto di rigettare gli obiettivi e il design originale dei giochi per perseguire la stasi, mentre Kent Sheely parte dalla sua esperienza di giocatore per far emergere logiche e ideologie sottese al gameplay. Secondo te, in ambito Game Art, una buona conoscenza della materia di base e delle prassi videoludiche è un vantaggio o può essere addirittura controindicata, a seconda delle intenzioni?
Matteo Bittanti: In alcuni casi, una scarsa conoscenza del medium videoludico può rivelarsi un grande vantaggio: a differenza dei giocatori, gli artisti non sono stati programmati dall’apparato videoludico e per questo sono in grado di scorgere elementi paradossali che i primi considerano normativi e dunque inevitabili, “naturali”. Detto altrimenti, per gli artisti, il Re è nudo. Per converso, i giocatori sono come pesci in un acquario: non sanno di essere immersi nell’acqua. Rispettando pedissequamente le regole di funzionamento del dispositivo, per dirla con Giorgio Agamben, si introietta un modus pensandi atrofizzato, che raffredda i processi cognitivi. Non a caso, gli artisti spesso trovano interessante ciò che i giocatori non notano o non notano più. Ma i loro approcci sono eterogenei, divergenti, talora contraddittori: alcuni manifestano influenze pop, altri hanno fatto tesoro delle lezioni del minimalismo, altri ancora del cinema sperimentale, senza dimenticare la tendenza anti-artistica delle avanguardie, dal DaDa al Situazionismo Internazionale.
Andrea Peduzzi: Alcuni artisti hanno scelto di approcciarsi al machinima per la democraticità degli strumenti, vera o presunta che sia (Benjamin Bardou, ad esempio, ritiene che fare un video con lo smartphone sia molto più immediato). La Game Art permetterebbe un approccio agile e diretto: questo dato – prescindendo dalla scena dello sviluppo indie - è per certi versi antitetico alla dimensione industriale del videogioco. Cosa ne pensi di questa idiosincrasia?
Matteo Bittanti: Nel caso del machinima, occorre interrogarsi sulla funzione (e correlata fruizione) del found footage, del readymade, dell’assemblage.
Andrea Peduzzi: Benjamin Bardou definisce il videogioco come “il medium spaziale per eccellenza”. Volendo considerare lo spazio dei videogiochi commerciali come una sorta di attrazione da luna park, lo spazio del videogioco artistico è - o può essere - fratello della Dismaland di Bansky o della Treasures from the Wreck of the Unbelievable di Damien Hirst?
Matteo Bittanti: Credo che Bardou si riferisse al fatto che l’aspetto più intrigante del medium videoludico consiste nella possibilità di muoversi, esplorare, bighellonare, navigare, perdere tempo all’interno degli spazi digitali anziché prestare attenzione alle “storie” che essi “raccontano”. Questo è particolarmente vero di un’opera come My Trip to Liberty City dell’artista canadese Jim Munroe, discusso nell’antologia Oltre il gioco. Critica della ludicizzazione urbana (2016).
Andrea Peduzzi: Ho trovato particolarmente interessante l’intervista a Rewell Altunaga, dalla quale si evince che un’intera generazione di giovani cubani, durante gli anni Novanta, è cresciuta a stretto contatto con la scena videoludica dagli 8 ai 32 bit, che ha forzato l’embargo attraverso le vie del mercato nero e della pirateria, schivando così il marketing e tutta la contestualizzazione pop che l’ha accompagnata negli Stati Uniti, in Europa o in Giappone. Questo dato mi ha colpito molto, ma ancora di più mi ha colpito il fatto che oggi i politici cubani si preoccupino di più delle sommosse e delle violenze negli spazi virtuali, che di quelle negli spazi “fisici”. Sembrerebbe che anche la politica e la rivoluzione siano state in qualche modo rimediate e spostate nelle rappresentazioni. Cosa ne pensi?
Matteo Bittanti: La funzione primaria dei videogiochi è quella di offrire spazi di trasgressione simulata ai milioni di individui disoccupati e sottoccupati, sfruttati e impotenti, precari e incerti, marginalizzati e marginali. Come i social media, i videogiochi offrono forme di pseudo-protagonismo precluse nella cosiddetta realtà alla maggior parte dei soggetti, specie in nazioni dove la classe media va smaterializzandosi, per esempio gli Stati Uniti e l’Italia. Il videogioco ‒ al pari del cinema, della televisione e della musica pop ‒ è un efficace strumento di controllo sociale, ma a differenza dei mass media che l’hanno preceduto, introduce un elemento innovativo, l’interattività, ovvero la premessa/promessa di autonomia del soggetto, di potenza dell’individuo, di quella che gli inglesi chiamano agency, ovvero l’illusione di poter agire sulla realtà per modificare lo status quo e rimediare agli abusi, ai privilegi, alla corruzione. Le polemiche sulla violenza nei videogiochi, sugli elementi trasgressivi di questo sparatutto piuttosto che di quell’action game, non hanno altro scopo se non quello di distrarci dai problemi che riguardano il contingente extra-schermico, dalla crescita smisurata dell’ineguaglianza economica al peggioramento sistematico delle condizioni ambientali, alla progressiva eliminazione dei servizi sociali, specie in nazioni come gli Stati Uniti, dove l’assistenza sanitaria, l’educazione, la casa sono un privilegio per pochi. Ergo, i politici stipendiati dalla NRA accusano i videogiochi di causare i frequenti massacri nelle scuole statunitensi: è più conveniente puntare il dito contro gli sparatutto che modificare le leggi che “regolano” l’acquisto di mitragliatori usati da folli per sparare a tutti. Ergo, i politici stipendiati dalle corporation accusano i videogiochi di provocare l’obesità: anche qui, è più semplice accusare le simulazioni ludiche che regolamentare la vendita e la promozione di cibo spazzatura prodotte dalle corporation nelle scuole, nei fast food, nei supermercati.
Andrea Peduzzi: I lavori e le esperienze di artisti come Josh Bricker, Kent Lambert (Security Anthem), Joseph Delappe, Hugo Arcier e Tom Richardson (The Day After Bataclan) esplorano sotto diversi punti di vista il tema del terrorismo e conseguentemente della militarizzazione, della sorveglianza e del controllo. In generale, ho avuto la sensazione che la Game Art abbia avuto un impatto molto forte con lo stato mentale dell’America post 11 settembre, cosa che in qualche modo tira in ballo anche il taglio bellico di molti videogiochi, senza contare le simulazioni adoperate nei centri di addestramento. Questo “threesome” tra videogame/Game Art/rappresentazione del terrorismo - così simile alla relazione intercorsa tra radio, cinema e Seconda Guerra Mondiale, o tra televisione e conflitto in Vietnam - ha ragioni puramente anagrafiche o c’è sotto dell’altro?
Matteo Bittanti: I videogiochi nascono negli anni Settanta, e dunque nell’era del terrorismo o, meglio, nell’era in cui il terrorismo acquista una marcata visibilità mediale. Penso a fenomeni come Baader-Meinhof in Germania, le Brigate Rosse in Italia, The Weather Underground negli Stati Uniti, senza dimenticare l’estremismo di matrice mediorientale che in quel decennio ha prodotto azioni altamente spettacolari, dai dirottamenti di aerei di linea agli attacchi esplosivi in punti nevralgici delle città europee. Come osservi giustamente, l’attacco alle Torri Gemelle dell’11 settembre 2001 ha segnato un punto di svolta, prontamente sfruttato dai politici per investire in armamenti ed eliminare completamente il concetto di privacy negli Stati Uniti, istituendo un regime panottico che, combinato alle pratiche di sorveglianza totale delle aziende dell’high-tech (Google, Facebook, Amazon, ovvero gli stacks.) e delle nuove “piattaforme capitalistiche” come Uber (per usare l’espressione di Nick Srnicek), ha raggiunto livelli di oscenità che fanno sembrare quasi innocenti le strategie adottate dalla Stasi nell’ex-Germania dell’Est. I videogiochi condividono con la NSA e Google questa tendenza alla sorveglianza persistente e pervasiva: al pari dei nuovi collari elettronici – gli smartphone – sono potenti strumenti di controllo, in quanto collezionano, registrano e quantificano ogni gesto, azione e intenzione dell’utente. Non deve dunque sorprendere che un numero consistente di artisti, specie americani, utilizzi il videogioco per portare in primo piano la natura perniciosa di un mezzo che affonda le sue radici nella Guerra Fredda, nel complesso industriale-militare, nella teoria dei giochi. In questo senso, la loro pratica artistica rappresenta una forma di reazione.
Andrea Peduzzi: Alla domanda sul rapporto tra realtà e simulazione, le risposte degli artisti sono state spesso divergenti, rispecchiando in fondo le opinioni delle masse di fronte a questo genere di concetti. Molti, sull’onda dell’entusiasmo, considerano la realtà virtuale come un prolungamento della realtà fisica, ma voci meno allineate, come quella di Hui-Wai Keung, invitano a non prescindere dall’importanza spaziale e dal “peso” del corpo: cosa ne dici?
Matteo Bittanti: È impossibile prescindere dalla corporeità ma anche dal concetto di razza, gender e classe. L’idea che la rete e i new media abbiano determinato una smaterializzazione democratizzante e livellante è solo una delle innumerevoli utopie fallite dell’Ideologia Californiana. Se viviamo in un mondo distopico, il “merito” è anche (soprattutto?) della rete. L’allucinazione consensuale è diventata una costrizione allucinante.
Andrea Peduzzi: Tu stesso hai lavorato con il machinima e la Game Art. Trovi che sia più interessante partire da un materiale videoludico aperto per abbracciare la deriva o modellarlo a tuo piacimento, o da un setting chiuso per il gusto di sabotarlo e farlo esplodere?
Matteo Bittanti: Mi piace portare in primo piano il gap esistente tra il concetto di realismo espresso da videogiochi vs. le convinzioni e convenzioni condivise a livello sociale. Condivido le tesi di Slavoj Zizek, per cui la virtualità ci allontanerebbe dal Reale (inteso in senso lacaniano come tutto ciò che resiste la rappresentazione, ossia una riduzione all’immagine o al linguaggio) e come tale, non è che un semplice raddoppiamento degli ordini del simbolico e dell’immaginario. Il meccanismo dello spaesamento, la dissonanza cognitiva possono produrre effetti destabilizzanti, necessari ma non sufficienti, per risvegliarsi dal torpore, dalla narcosi del gadget.
Andrea Peduzzi: Più che dalla narrazione o dalle meccaniche rituali innescate dai videogiochi, sembri estremamente affascinato dagli spazi digitali: perché?
Matteo Bittanti: Marshall McLuhan sostiene che il contenuto dei nuovi media è sempre quello dei media precedenti. Spetta ad artisti illuminati e illuminanti – gli unici a comprendere il presente – cogliere l’essenza del mezzo e sfruttarne lo specifico in modalità improbabili. La narrazione videoludica soffre della medesima sindrome dello specchietto retrovisore diagnosticata dal teorico canadese: ci si ostina a trattare il videogioco come se fosse una versione aggiornata del romanzo o del cinema. Un approccio che conduce in un cul-de-sac suburbano. Lo specifico del videogioco sta altrove: nella sua natura algoritmica, procedurale, sistemica, spaziale.
Andrea Peduzzi: Lo scorso anno hai presentato una selezione di machinima attraverso la mostra GAME VIDEO/ART.A SURVEY; esiste una scena italiana rilevante della Game Art e dei Machinima?
Matteo Bittanti: Ci sono numerosi artisti italiani che hanno lavorato/lavorano con/tro i videogiochi; penso a Eva e Franco Mattes, Federico Solmi, Paolo Pedercini, Marco Mendeni, Mauro Ceolin, Marco Cadioli, Stefano Spera, Damiano Colacito, Antonio Riello solo per citarne alcuni. Non esiste una scuola, un movimento, né tanto meno un’etichetta. Esistono, semmai, differenti modalità di affrontare in modo critico e creativo le prerogative culturali, estetiche e ideologie del videogioco per confrontarsi con la contemporaneità. Per tutti questi artisti, il gioco è un mezzo, non un fine.
MACHINIMA. 32 conversazioni sull’arte del videogioco è in disponibile su Blurb, Amazon USA, Amazon UK e, chiaramente, su Amazon Italia.