Destiny è bello ma non ci vivrei
Come ben saprete, Destiny è un ambizioso sparatutto in prima persona interamente online, realizzato da Bungie (quelli che hanno fatto i primi tre Halo) e distribuito da Activision (quelli che hanno costruito un impero incrollabile con un Call of Duty all’anno). La sua natura always online (ciao Microsoft!) ha causato un piccolo tremito nella forza, dal momento che, per motivi non meglio specificati, Activision ha sì mandato in anticipo le copie recensibili del gioco ai siti specializzati, ma alla fine nessuno è riuscito a giocarlo con l’anticipo necessario per poter sfornare una recensione che fungesse un minimo da “consiglio per gli acquisti”. Certo, ci sarebbe anche da chiedersi a cosa serva un consiglio per gli acquisti dopo che hai già prenotato il gioco da sei mesi in preda all’hype più violento ma, ehi, è l’era di internet: facciamo cose inutili, dal 1995 (un po’ dopo, ma ci siamo capiti).
Ad ogni modo, in quel periodo in cui tutti avevano il gioco ma nessuno aveva la recensione, ero in chat con gli amici dello Shelter e, ovviamente, si stava chiacchierando di Destiny, anche cercando di “spiegare” il gioco a quei pochi fortunelli che sono riusciti a resistere al fascino del giocattolone nuovo, delle pubblicità a piena pagina e delle cifre rosse nel conto in banca. Al di là dei facili “è Halo reskinnato” e ovvietà assortite che potete leggere più o meno da tutte le parti, in quella chat ho avuto una sorta di illuminazione mista a dono della sintesi grazie alla quale, in modo anche piuttosto tranchant, ho espresso il mio punto di vista sulla questione: “[Secondo me] uno che fa la recensione di Destiny non deve valutare lo sparatutto. Sono bravi tutti a fare un FPS nel 2014. Soprattutto se hai fatto Halo. Devi valutare come funziona nelle novità, nella socialità, nel ‘non ti faccio annoiare con gli amici’. È quella la sua cosa. Se gli levi quella cosa rimane? Non rimane un cazzo.”
Ecco. Poi, intendiamoci, “un cazzo”: rimane esattamente quell’FPS piacevole e coinvolgente che ci si aspetta, appunto, da chi ha messo al mondo Master Chief (“congratulazioni signora, è un casco!”) e da chi produce ogni anno lo sparatutto più venduto del mondo. Destiny non è solo un progetto enorme, dalla gestazione infinita (ci tengono che dica “è quello che sarebbe dovuto essere Halo in origine”) e dal budget improponibile anche per i giochi tripla A, è soprattutto un videogioco creato con una passione e una cura che difficilmente si vedono in altri progetti non-indie. Gli enormi valori artistici sono indiscutibili, ma la cosa ancora più bella è che si vedono perfettamente nel gioco finito. Dal futuro usurato e sporco di cui sono fatti i caschi dei Guardiani agli orizzonti infiniti di Marte fino alla Luna, che si staglia affianco al Viaggiatore quasi a ricreare scene difficili da gestire per il piccolo fan di Star Wars che c’è in ognuno di noi. Non è dunque un caso che Activision abbia spinto la promozione del gioco per farci cadere nella trappola, facendo salire a un sacco di gente una fotta che metà basta: Destiny è concettualmente bello dentro e fuori, è qualcosa che rientra perfettamente nel foglio Excel del publisher (ascoltate qui e andate a 01:00:30 per capire a cosa mi riferisco) ma, allo stesso tempo, è fatto con l’autorialità, la consapevolezza, la passione e i mezzi di chi ha impresso il proprio nome nella storia di un genere. È facile immaginare come, in Activision, si siano detti “Destiny non costa soldi, Destiny fa soldi”. E dagli torto.
Per quanto sia bello, ben confezionato e financo romantico, comunque, il concetto di base rimane. Destiny è un FPS fatto bene come sono fatti bene gli FPS del 2014 con un grosso budget alle spalle. Non c’è nulla di formalmente sbagliato nella forma dello shooter di per sé, non c’è una meccanica rotta o qualcosa che vada a inficiare il gameplay. Tutto funziona perfettamente. Ed è per questo che, se vogliamo, l’ultima immane fatica di Bungie è, pad alla mano, un po’ anonima. Un anonimato certamente figlio della sovraesposizione del genere in questi ultimi anni, in cui abbiamo sparato a tutto quello a cui potevamo sparare e in cui ci siamo inevitabilmente desinsibilizzati al fascino del genere… anche perché, voglio dire, è pur sempre un FPS, non si può certo reinventare la ruota e, in questo senso, Bungie è fior fior di gommista, quindi non è che ci sia troppo da lamentarsi. È anche vero, però, che mentre si spara si ha una forte sensazione di déjà vu. Un già visto sicuramente più imponente e più scenografico, ma non di meno già visto e provato, con quelle armi che, tra l’altro, sanno davvero tanto di corredo Spartan. Ma, di nuovo, non si può certo fare una colpa a Bungie perché affronta nuovamente il suo genere preferito, aggiungendoci un immaginario e una messa in scena davvero imponenti.
Quindi, insomma, bene così, considerando anche che non è dal lato shooter che ci si aspettava la vera rivoluzione. La grande ambizione di Destiny era infatti quella di dettare un nuovo standard per gli ibridi FPS/GDR, proponendo una grande epopea di esplorazione spaziale che accompagnasse la crescita del personaggio con missioni avvincenti, un miglioramento costante del loot e una componente social praticamente mai vista nel mondo console. E insomma, qui c’è sicuramente qualche appunto da prendere.
Parto dalla fine, ovvero da quell’impronta social data dalla presenza della Torre, un hub in game dove raccogliere taglie, comprare oggetti e in cui i giocatori si incontrano e… si indicano. Si salutano. Al limite ballano. Già. Le interazioni sociali sono infatti quelle proposte dal D-pad, e non vi è alcun modo per chiacchierare all’interno del gioco con una chat generale (come può essere quella testuale di WoW) per, chessò, decidere di affrontare tutti assieme una determinata missione. E a meno di non incontrare un vostro amico che non sapevate avesse anche lui console e gioco (a me è successo!), è molto improbabile aggiungere gente a caso alla vostra lista amici, solo per chiedergli a voce “ehi, andiamo a fare l’Assalto su Venere?”. Insomma, se volete giocare con qualcuno, attrezzatevi in altro modo. E mi raccomando, che non siano più di due alla volta.
Una volta pronti a partire per lo spazio, da soli o in compagnia, Destiny offre quattro pianeti (uno in realtà è un satellite, con buona pace degli astronomi là fuori) pullulanti di missioni. Missioni in cui l’affascinante level design, le magnifiche ambientazioni e l’ampiezza dei mondi di gioco si scontrano irrimediabilmente con una ripetitività quasi monotona delle situazioni che andremo ad affrontare al loro interno. Ho perso il conto delle volte in cui ho dovuto difendere lo Spettro (il piccolo robottino fluttuante che accompagna il giocatore, analogamente a quanto faceva Cortana con Master Chief… déjà vu!) da ondate di nemici mentre apriva porte o scaricava dati, e onestamente già alla terza volta mi sembrava una ripetizione ridondante. Voglio dire, è chiaro che si tratta di uno shooter e che bisogna sparare, ma avere un pretesto che non sia così marcatamente uguale ogni volta non avrebbe fatto di certo difetto.
In generale, comunque, tutto il gioco non brilla per varietà. Se le missioni standard tendono a riproporre un po’ le stesse situazioni e gli stessi nemici con facce diverse, gli Assalti non sono certo da meno. Si tratta di missioni più impegnative, da affrontare in tre giocatori (se siete da soli, c’è un pratico e veloce matchmaking) in cui, alla fine, ci aspetta un boss grande e grosso a cui fare la pelle, dopo uno sforzo non indifferente da parte di tutta la squadra. Il problema, anche qui, è che tutti i boss hanno schemi di attacco molto simili - in alcuni casi spudoratamente uguali - e differiscono solo nell’aspetto estetico, al solito pregevole. Queste spugne per proiettili sono solitamente molto grosse, hanno un attacco in grado di polverizzare un personaggio da distanze improponibili (anche grazie a uno splash damage spesso insensato) e, non di meno, sono circondate da orde di piccoli nemici “standard” che verranno a darvi fastidio praticamente di continuo, dandovi fin troppe cose da gestire mentre vi sparano addosso.
Una bella sfida, indubbiamente, ma forse si sarebbe potuto fare qualcosina di più in termini di varietà dei boss e, soprattutto, per non punire eccessivamente il giocatore in caso di fallimento. Se tutto il gruppo cade sotto i colpi avversari, infatti, bisogna ricominciare la sezione da zero e, converrete con me, se la cosa capita a un soffio dalla morte di un boss che ha richiesto dieci minuti di combattimento, un po’ girano i chitarrini. Ma in generale, comunque, anche quando si riesce a finire un Assalto senza morire, la sensazione predominante non è di soddisfazione/esaltazione, ma piuttosto ci si sente sollevati per aver portato a termine un’impresa titanica e alquanto probante. Anche dopo che la pratica rende “perfetti”. Per fortuna, si diceva, sono cose che si fanno soprattutto con gli amici.
La temibile macchina dell’hype (o della curiosità, fate voi) ha infatti spinto un sacco di giocatori all’acquisto, tanto che i server sono spesso strapieni (cosa che causa tutt'ora qualche allontanamento coatto dalla partita) e, di riffa o di raffa, si trova sempre qualche amico di pari livello con cui giocare e/o chiacchierare del gioco (e non). Il fatto è che, se intendete capire qualcosa della trama, magari cercate di tenere spento il microfono. L’epopea di Bungie, infatti, è davvero ricca e profonda, ma anche esposta al limite del fumoso ermetismo. Le cutscene, non propriamente “snelle”, fanno riferimento a un pantheon talmente ampio e ben delineato che, per esporlo in tutti i suoi dettagli, Bungie ha dovuto fare affidamento alle Carte Grimorio, quattromila (4000!) oggetti sbloccabili con l’andare dell’avventura e delle esplorazioni da consultare sul sito di Bungie, che narrano una piccola fetta di un lore gigantesco. E che molto probabilmente leggeranno in due, con buona pace dei traduttori di tutto il mondo (piangiamo). Che poi, capiamoci, non è che servano questi grandi pretesti per sparare proiettili in compagnia, ma sicuramente dispiace che un lavoro di questa portata non sia stato messo in scena in maniera un po’ più accattivante, tanto più che le cutscene non si possono saltare neanche una volta finito il gioco, e ogni volta che si ripete una missione tocca rivederle tutte (o girare nei menu). E OK che repetita iuvant, però, insomma, nel dubbio fammi capire qualcosa di più che qualcosa in meno.
Comunque, non tutte le missioni ripetute vengono per nuocere: soprattutto nelle prime fasi di crescita del personaggio, il pretesto social di “mi faccio una missione con gli amici” è ottimo per esplorare meglio gli enormi livelli, chiacchierare, farmare senza annoiarsi e soprattutto cercare nuovo bottino assortito, tra armi, equipaggiamenti e ammennicoli vari (sotto questo punto di vista, giocare con Surgo è stato fantastico, mai visto nessuno più assetato di scrigni e nuove scoperte). Anche perché, nonostante le innumerevoli stanze, grotte e corridoi di cui è pieno il gioco, le chance di incontrare uno scrigno sul proprio cammino non sono proprio elevatissime, e ancora meno sono le possibilità che in quello scrigno si trovi qualcosa di davvero gustoso. Va detto, comunque, che trovare un nuovo equipaggiamento è sempre un bel momento… magari meno di quanto non lo sia in Borderlands, ma comunque discretamente affascinante e con un sacco di esaltante margine. Ogni pezzo di armatura e ogni bocca da fuoco godono infatti di una propria progressione a base di quegli stessi punti esperienza che aumentano il livello del personaggio, e ogni oggetto ha i suoi talenti (alle volte anche dei piccoli skill tree) da sbloccare per ottenere caratteristiche migliori o, ancora meglio, per adattarsi alle preferenze del giocatore, mantenendo comunque un equilibrio generale apprezzabile.
Questo aspetto di continua progressione delle armi diventa poi fondamentale una volta raggiunto il “soft cap” del livello 20, dopo il quale i punti esperienza vengono “sostituiti” dai punti Luce (no, non i faretti), una caratteristica legata all’equipaggiamento e che è necessaria per aumentare sempre più il livello del proprio Guardiano. Per garantirsi un equipaggiamento sempre nuovo, dunque, è necessario buttarsi nel PvP (che in due parole riassumerei come “canonico” e “divertente” giusto per non tediarvi oltremodo) per aumentare le proprie reputazioni e ottenere i marchi necessari per acquistare pezzi avanzati, oppure rifugiarsi nelle missioni eroiche (giornaliere e settimanali) e nelle Playlist: Assalto, che - incredibile ammisci! - altro non sono che sezioni del gioco già affrontate, a una difficoltà aumentata, da ripetersi più o meno all’infinito come i peggio farmer coreani. O almeno fino al livello 26, necessario per entrare nella prima Incursione del gioco che, tra l’altro, è solo il primo di numerosi contenuti extra che verranno aggiunti nel corso dei prossimi mesi (anni?).
Dopo quasi venticinque ore di gioco, necessarie per arrivare da zero al livello 21 con la mia sexy Strega Insonne (la razza, non il disturbo), e dopo più di tredicimila caratteri di chiacchiera, posso dirvi che io a Destiny non ci volevo neanche giocare. Avevo parecchio hype, eh, ma tra una cosa e l’altra pensavo non bastassero una bella ambientazione e una straordinaria art direction a tirarmi in mezzo all’ennesimo FPS che, per giunta, durante la open beta mi aveva lasciato piuttosto freddo. Tra l’altro, pure durante l’ora di prova alla Gamescom, ambientata su quella Luna che non ero riuscito a vedere durante la beta, non sono riuscito a trovare nulla di particolarmente intrigante che mi spingesse a comprarlo. Ovviamente, se sono qui è perché ho lasciato la coerenza nella tasca della giacca invernale: non appena ho visto gran parte dei miei amici prendere il gioco (o addirittura prendere i bundle!) mi sono detto “ehi, chi sono io per rimanere indietro?” e, con la scusa di “PS4 prima o poi l’avrei comprata”, mi sono portato a casa console nuova e gioco. Ovviamente l’avrei preso tranquillamente su Xbox One, ma stavano tutti di là e di giocare da solo non ne avevo proprio voglia, abbiate pazienza.
Comunque, onestamente, il lato social funziona. E funziona bene. OK, non è World of Warcraft, ma non so neanche quanto lo volesse essere, sotto questo punto di vista: ve le immaginate la chat general su una console? Io no. La chat vocale aperta a tutti sulla Torre? Dio ce ne scampi e liberi, per parafrasare Ugo. Il lato social funziona perché, semplicemente, la scimmia di Destiny ha colpito duro chiunque, anche gente che solitamente non si pone il problema di scegliere un gioco che non sia FIFA. Durante la settimana di lancio mi bastava accendere PlayStation 4 (ma immagino fosse la stessa cosa su Xbox One) per vedere online una valanga di gente, quasi tutta in giro per la galassia di Bungie. Entri in gioco, prendi due taglie, ti butti nella partita di un amico e giochi. La chiacchiera, la compagnia e la frenesia del momento sopperiscono al fondo di già visto che inevitabilmente permea il ripetere una determinata missione o la scalata a un obiettivo specifico, aiutando a non far venire a noia delle meccaniche che, comunque, lo ripeto, per quanto già viste, tengono in piedi un gioco davvero molto ben fatto in ogni suo aspetto.
A quel punto, dopo la prima partita in compagnia, ho capito in pieno il senso del gioco. Bastava accendere la console (o, peggio, dare uno sguardo all’app per smartphone) per guardare se c’era qualcuno online o, alla peggio, giocare cinque minuti da solo e veder accedere qualcuno. La Torre come il bar sotto casa, hub centralissimo in cui “incontrare” persone e fraggare in compagnia, ora dopo ora, weekend dopo weekend. Così, mettendo la socialità sopra i difetti, anche un gioco molto buono ma non clamoroso (almeno allo stato attuale, con un solo contenuto aggiuntivo su [inserire cifra folle] pubblicato) riesce ad assumere un fascino tutto suo, anche più grande di quel mastodontico insieme di piccoli meravigliosi dettagli e ambienti che, non lo nego, in alcune fasi fanno proprio cadere la mascella per terra. In sostanza, dunque, Destiny funziona. Se trovate uno o più scimmiati che condividano con voi la cavalcata spaziale di Bungie, avrete davanti a voi almeno (almeno) venti ore di divertimento simil-Borderlands, ma con più fascino maturo. Da lì in poi, Destiny si addentra fin troppo nella spirale ripetitiva di farming da cui, auspicabilmente, uscirà non appena i nuovi contenuti cominceranno ad uscire con regolarità.
Insomma, Destiny è una vacanza niente male, valorizzata particolarmente dalla compagnia e dalle situazioni che, per quanto ordinarie e di routine, proprio grazie a lampi improvvisi di inaspettata umanità conto terzi potrebbe rallegrarvi la giornata.
Ho giocato a Destiny dopo aver acquistato il bundle con PlayStation 4. Il gioco era incluso nel prezzo del biglietto (400 € alla cassa), ma comunque ho pagato il tutto 325 € perché avevo un buono. So che ci tenete a sapere certe cose. Ho giocato a Destiny per circa 25 ore in compagnia - principalmente - di Ugo “Super Mario maestro di vita” Laviano e di Alessandro “Banghi” DeLuca, ottimi compagni di frag e di mille balli scatenati sul dancefloor della Torre. Ho giocato Destiny in italiano, perdendomi il doppiaggio svogliato di Peter Dinklage in favore del doppiaggio svogliato del suo doppiatore italiano. In generale, comunque, tutto molto bùono, a parte le battute comiche tristissime del gioco. Comunque, nonostante tutta questa roba qui sopra, onestamente vi consiglio davvero di giocare Destiny solo in compagnia di amici e di una buona cuffia per la party chat. Da soli, mhh, davvero, bello ma non ci vivrei. Se avete uno o più amici muniti di cuffia+microfono intenzionati a giocare a Destiny, aggiungete pure mezzo voto, se volete addirittura 0.75, e correte a comprare.