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Il monologo della speziale: pensavo fosse harem ed invece è Agata Christie

Il monologo della speziale: pensavo fosse harem ed invece è Agata Christie

Anzi pure meglio.

Come si dice “in ritardo alla festa”, ho scoperto Kusuriya no Hitorigoto, tradotto alternativamente come I diari della speziale (manga) e Il monologo della speziale (anime), dopo tre anni dall’inizio della pubblicazione italiana e sei mesi abbondanti dall’inizio dell’acclamata serie anime, di cui la prima stagione è ormai conclusa.

La scoperta di entrambe le opere, praticamente in parallelo, mi ha mandato in sollucchero in quanto è un evento raro e gioioso quando a fronte di un manga strepitoso non riesco comunque a dire che lo preferisco all’anime.

Ripeto il concetto: l’anime Il monologo della speziale, disponibile al pubblico italiano su Cruncyroll, è bello a tal punto che non posso dire “preferisco il manga”.

Ecco quanto è bello.

Ah, no?

Per ottenere questa ammissione da un integralista come il sottoscritto, un anime deve ridursi ad ossimoro: deve essere fedele al manga e contemporaneamente essere tutta un’altra cosa. Una cosa da niente.

Di anime qualitativamente ineccepibili che si limitavano ad essere la trasposizione 1:1 delle pagine del manga se ne sono visti una certa quantità e nessuno ha mai acceso il mio interesse. Il motivo è alla fine banale: manga e anime sono espressione di due linguaggi diversi, per passare da uno all’altro occorre una traduzione e ogni traduzione che abbia un valore di opera deve necessariamente essere un tradimento.

Anzi, penso di poter dire che ogni produzione anime che guardi al manga senza l’arroganza di dire “Posso fare di meglio!” stia sostanzialmente sperperando soldi, vista la differenza di investimento tra i due media, e dovrebbe essere rigettata dai produttori.

Il monologo della speziale ha esattamente questa arroganza e la esibisce facendosi forte della padronanza del mezzo. Allo scopo di mantenere il contatto con il manga, storia e character design sono sostanzialmente tracopiati (soddisfando quindi il mio desiderio di fedeltà all’originale) ma tutto il resto usa ogni strumento a disposizione della narrazione “meccanica” per immagini e suoni allo scopo di sovrapporsi all’originale.

La regia allarga, restringe, stacca, deforma, impreziosisce o abbozza il quadro per raccontarci i protagonisti, valorizzando le loro interpretazioni come fossero attori in carne ed ossa, aggiungendo dettagli ad alcune scene ed elidendone completamente altre, accelerando il ritmo o rallentandolo con siparietti apparentemente inutili ma finalizzati a dare allo spettatore il tempo di adattarsi al nuovo flusso o, se serve, incespicare su un colpo di scena inatteso o un inaspettato “cambio di maschera”, soprattutto della protagonista.

Il sonoro, appannaggio esclusivo di questa narrazione per immagini, è curato tanto nella colonna sonora e nei suoni ambientali, quanto nella scelta dei doppiatori tra cui spicca la doppiatrice della protagonista, tale Aoi Yuki…

Io, qua lo ammetto, sono caduto dal pero e ho dovuto controllare su due fonti diverse questa notizia. Infatti, nonostante abbia già più volte glorificato l’ecletticità di questa attrice appena trentenne con esperienza di un centinaio di ruoli, non ero stato di riconoscere nella laconica e stoica MaoMao i toni di Madoka Kaname (Puella Magi), Clementine (Overlord), Tatsumaki (One Punch Man) o Kayo (Erased).
Forse solo ricordando la apatica reclusa Sakura di Persona 5 sarei riuscito a riconoscere questo estremo lavoro di sottrazione che si affianca alle immagini e alla regia per restituire esattamente la MaoMao che i lettori del manga immaginavano.

Le doti innate di curiosità, determinazione e senso di giustizia, temperate da un quoziente intellettivo irreale e dalla esperienza pratica di chi sa benissimo che chi ha sempre ragione non vive a lungo, sono sottolineate tanto dall’occhio onnisciente della camera e dai trucchi possibili all’animazione (da dettagli possibili fin dentro le iridi acquamarina alle più grossolane semplificazioni “super-deformed”) quanto da una voce densa e quasi apatica quando deve essere scudo e penetrante quando invece diventa pugnale o bisturi.

Se mi soffermo così tanto sul doppiaggio è sia per la mia passione per l’interpretazione, sia per dire una banalità: l’anime e il manga funzionano perché la nostra incredulità viene sospesa volontariamente e felicemente grazie soprattutto a dialoghi e situazioni perfettamente interpretate.

Kusuriya no Hitorigot racconta, giusto per ricordarlo, di una giovanissima popolana adottata dal farmacista a cui si rivolgono le mezzane del quartiere dei piaceri, rapita per essere venduta come serva/schiava a servizio dell’harem dell’imperatore della Cina in un periodo non ben precisato. Una giovanissima popolana che sa leggere e scrivere perfettamente, riconosce malattie, intossicazioni ed avvelenamenti da scarsi indizi ed applica, mascherandole da pratiche comuni, tecniche investigative moderne (dall’uso di regenti alle impronte digitali) attirando l’interesse di un apparentemente svagato supervisore dell’harem, anch’esso evidentemente dotato dal cielo di una intelligenza esageratamente sopra la media.

Ma il duetto tra l’ottimo Takeo Ootsuka, che interpreta il soprintendente Jinshi (o Renshi, ma di questo parliamo a breve), e MaoMao/Aoi Yuuki e le loro interazioni con gli altri interpreti sono talmente “in parte” che lo spettatore accetta questa versione esotica della “Signora in Giallo vs Principe Azzurro” senza alcuna obiezione e volendone ancora e ancora.

In finale di articolo devo fare un appunto sulla traduzione italiana, che è meno irritante di altre occasioni ma fa supporre che agli sfortunati traduttori sia stato dato il testo senza neanche poter accedere alle puntate. Come alcuni sapranno, i Kanji (caratteri ideogrammatici) che compongono i nomi hanno almeno due letture (alcuni anche di più) e spesso persino i giapponesi tendono a confondersi. Non stupirà quindi venire a sapere che in questo anime, in cui peraltro le letture dovrebbero presumibilmente utilizzare la lettura “cinese”, moltissimi nomi dei personaggi sono scritti nei sottotitoli in maniera completamente diversa da come vengono pronunciati. Più plateale tra tutti, il già citato, soprintendente Jinshi che diventa Renshi nello scritto.

Una cosa da poco ma che testimonia dell’approssimazione che impera, sospetto a causa di un continuo “contenimento dei costi”, nella localizzazione italiana.

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