Super Mario Bros. - Deconstructed Mario World
Adattare videogiochi per il cinema è un inferno.
Lo è adesso che i videogiochi hanno una componente narrativa importante e lo era prima, quando le storie nei giochi erano un pretesto per far agire il giocatore.
Normale che una roba come il film di Super Mario nascesse viziata e normale che tutto quanto fatto per trasformare un pretesto narrativo in una storia e il gioco in un film fosse strano e sbagliato.
È una questione di contesto, come chiedersi perché una gallina attraversa la strada e farci un film sopra.
”Perché un idraulico attraversa otto mondi?” E quindi la Principessa. Che tira più una principessa che un carro di buoi, evidentemente.
In questo caso, il lavoro sul contesto dà origine a quella brutta storia fatta di meteoriti, mondi paralleli e completa riscrittura della teoria dell’evoluzione.
Quindi, si fa tutto un gran lavorare ai fianchi per rendere un immaginario colorato da risonanze vagamente fantasy commestibile al grande pubblico, trasversale. Si ricostruisce un mondo che preso in blocco era inadattabile.
Così, insospettabilmente, anticipando la cifra stilistica dell’approccio nolaniano alla materia DC, la svolta “cupa e realistica”.
Il Regno dei funghi ha una precisa collocazione geografica, in un universo alternativo accessibile tramite le fogne di Manhattan, generato dall’impatto della meteora che uccise i dinosauri.
Nonostante rimangano saldi nella narrazione le figure del Re e della Principessa Daisy, rimandando immediatamente ad un immaginario fantasy, questo viene completamente accantonato.
A livello concettuale, non è un’idea nemmeno così cattiva, dato il post-modernismo dilagante.
Da questo punto di vista, vengono buttate fuori una serie di idee che troveremmo coerenti con il modo nel quale si è fatto cinema dalla seconda metà degli anni ‘00 in poi.
Un intero mondo di suggestioni non sfruttate.
Quando appare Dennis Hopper a inizio film, con indosso l’abito con le mostrine tipico degli alti graduati dell’esercito, si apre alle possibili suggestioni di un “golpe Bowser”, che avrebbe potuto essere più cupo e far scivolare il film nella fantascienza distopica.
Invece, il film resta bloccato in un limbo, come un brutto trip, tra l’acido e il tossico: come se la famosa sequenza di Paura e Delirio (o Disgusto, se preferite il libro) a Las Vegas fosse dilatata all’eccesso.
Una volta archiviate le atmosfere naif del gioco, viene trovata una spiegazione contestualmente realistica al nome “Regno dei funghi”, perché la città è infestata da questa disgustosa mucillagine gialla, più dalle parti di The Last of Us che dei Goomba, mentre i rettiloidi antropomorfi che nel film vengono chiamati Goomba sembrano più corrispondere ai Koopa Troopa.
Il Regno dei funghi, in realtà, è il regno dei rettili, sempre se non vogliamo soffermarci sul fatto che tutto il design dei Koopa è basato sulle tartarughe e non sui dinosauri, ma siamo nel 1993 e i dinosauri si vendono veramente da soli, causano una grandissima confusione semantica.
Di seguito, tutti gli elementi di gioco vengono contaminati dalla realtà che li razionalizza.
Scarpe a propulsione idraulica per fare il doppio salto; il lanciafiamme che nel design della bocca di fuoco a linguette metalliche rimanda chiaramente al Fiore di Fuoco; Yoshi diventa il dinosauro da compagnia della famiglia reale, che ci porta a cavalcare verso il tramonto per la uncanny valley.
Grande assente il Costume Tanuki, ma dato l’andazzo, sappiamo tutti come sarebbe stato adattato, per la gioia del popolo dei Furry.
Tutto il senso di questo revisionismo post-moderno trova forma compiuta nell’interior design della Torre di Koopa, un reskin delle Torri Gemelle che diventa la versione riveduta e corretta del Bowser’s Castle.
Con i cattivi si può prendere la libertà di eccedere, perché sono cattivi, hanno la vocazione all’eccesso piantata nel DNA, e in questa sovrabbondanza di elementi che devono essere necessariamente sovraccarichi, che il film per un momento si mostra per la roba allucinata che avrebbe potuto essere, se ne avesse avuto il coraggio.
Una spazio completamente nero a richiamare il fondale dell’ultimo stage del Super Mario Bros. a 8 bit, a rifinire bugnato squadrato in tinta, per aumentare il senso di minaccia dell’ambiente, sostituisce il clinker cementizio o pietre in conci che costituiva la pavimentazione dello stage.
A sbalzo sulla strada, finestre a nastro inclinate si contrappongono alla scrivania, che perde ogni funzione per diventare la sede di una struttura plasticista, un pozzo sul vuoto coperto da due piramidi di vetro intervallate da una lingua di fuoco.
Il quartier generale di Dennis Hopper è più di un loft a doppia altezza, è la sublimazione edonistica di uno che ha passato troppo tempo in una dark room, così caricaturale ed eccessivo da fare il giro ed essere giusto.
La poca luce viene diffusa dalle applique a muro rappresentanti torce stilizzate, ad ampliare quel senso di segreta medioevale contemporanea, elementi che tornano anche negli altri ambienti, come il fuoco “addomesticato” in termocamini utilizzati come teche.
Un’estetica che esalta le forme affilate nell’insieme tende a trasmettere all’osservatore un costante senso di minaccia ed è la cosa meglio riuscita del film, che caratterizza Dennis Hopper come cattivo da videogioco, più di quella posa con le mani raccolte che dovrebbe ammiccare alle dimensioni delle braccia del Tyrannosaurus Rex.
In questo trionfo di punte, coni e spuntoni, l’oggettistica è tutta in contrasto, cromata a riflettere la poca luce, e assume la forma di un minimalismo superfluo a favorire forme plastiche, evidenziate dal vezzo dei portacandele a stelo ritorto e, per un brevissimo frangente nel quale il movimento macchina gli indugia sopra, dello spremiagrumi di Philippe Starck, uno fra gli oggetti di design più iconici degli anni Novanta, ultimo colpo di coda del minimalismo prima del suo imbarbarimento.
In questa caratterizzazione dell’ambiente quasi caricaturale, è difficile distinguere le intenzioni originali e la filologia si perde nel kitsch, nella sua incarnazione più nobile, se vogliamo, che diventa il termine corretto per definire tutto lo stile del film.
Questo articolo fa parte della Cover Story “Febbraio bizarro”, che potete trovare riassunta a questo indirizzo.