Outcazzari

Ritornare su Destiny, diciotto mesi dopo

Ritornare su Destiny, diciotto mesi dopo

Non sono esattamente quel tipo di persona incline al melodramma, però ecco, devo ammetterlo: la roba che “ti accorgi del valore delle cose quando le perdi” è proprio vera; vera oltre che risaputa, certo. Il problema, però, almeno personalmente, è che c’ho la memoria a breve termine che spesso fa cilecca, e quindi capita che mi dimentichi di massime del genere, dando praticamente tutto, o quasi, per scontato. Ciò vale sia per le cose importanti che per le minchiate da nulla. Tipo Destiny, appunto. Come tutte le mie storie d’amore, anche quella con Destiny nasce da premesse complicate.

Siamo nell’autunno 2014: le console di nuova generazione stanno per concludere il loro primo anno di vita e c’è grande attesa attorno ad ogni titolo tripla A in arrivo su queste ultime; fra i tanti, l’hype che circonda il gioco di Bungie è talmente elevato da fargli infrangere ogni record in termini di prevendite. Eppure, all’uscita, non me lo inculo manco di striscio, complice l’accoglienza della critica non proprio positiva, ma anche la mia storica antipatia nei confronti della saga di Halo.

Fu così che ignorai completamente Destiny, almeno fino al gennaio successivo, quando fui convinto da un amico ad acquistarlo (ciao, Pirro). E fu amore. Completai la campagna in nemmeno due giorni, e poi via con una full immersion all’insegna del farming selvaggio, mai in vita mia così piacevole. Mi unii addirittura ad un clan, cosa eccezionale per un misantropo videoludico come me, e comprai pure il season pass per le due espansioni in uscita. Destiny mi aveva intrappolato nel suo diabolico circolo vizioso, tipico degli MMO, e io ne ero rimasto completamente assuefatto. Un gunplay eccezionale, con tante armi realmente diverse fra di loro, una direzione artistica fuori scala e, soprattutto, un’esperienza di cooperativa online estremamente appagante. Furono soprattutto questi tre aspetti a catturarmi, tenendomi incollato allo schermo per praticamente cinque mesi.

L’Aculeo, una fra le pistole esotiche più ricercate in Destiny. Ha lo stesso drop rate del biglietto vincente della lotteria.

In realtà, la mia affezione non fu costante nel tempo, anzi, sarebbe più corretto parlare di un lento ma costante disinteresse nei confronti di Destiny, figlio soprattutto della tanto vituperata assenza di contenuti, per cui il gioco di Bungie è stato spesso, e a ragione, criticato. Sostanzialmente, nell’anno uno di Destiny, una volta raggiunto il level cap, le uniche attività (a cadenza settimanale) degne di nota offerte al giocatore erano il Cala la notte, un semplice assalto con modificatori di difficoltà da affrontare in tre, e il Raid, attività principale proposta dal gioco, pensata per sei partecipanti. Poi basta, non c’era altro, a parte qualche evento disponibile una volta ogni tre mesi tipo Lo Stendardo di Ferro (PvP da 6vs6). Senza contare poi che, per far raggiungere il già citato livello massimo al proprio personaggio, bisognava mettere a dura prova la propria pazienza, farmando armi e pezzi di armatura sempre più rari attraverso sempre le stesse e solite attività, confidando nella dea bendata e avendo, come unico elemento a mitigare la monotonia generale, il fatto di giocare in cooperativa, quasi a doversi dividere il fardello della noia.

Così abbandonai Destiny, ancor prima che arrivasse quella seconda espansione, che in realtà avevo già acquistato tramite il season pass (prima e ultima volta che faccio una cazzata del genere, a proposito). Non ce la facevo più, avevo iniziato ad odiare quel gioco. Ti prendeva tantissimo tempo, che impiegavi sostanzialmente nel tentativo, mai nella sicurezza, di salire di livello o di trovare quell’arma esotica tanto ambita. Ne avevo abbastanza. Per non pentirmene, addirittura, lo vendetti, in cambio di un pugno di lenticchie, al primo Gamestop capitatomi a tiro.

Mai fare incazzare in PvP un titano con la super carica.

Da quel momento in poi, cercai di trovare qualcos’altro che fosse in grado, non dico di sostituire Destiny, ma perlomeno di coinvolgermi in cooperativa almeno la metà di quanto facesse il gioco di Bungie. L’estate seguente, a catturarmi fu Rocket League, ad esempio. Divertentissimo, eh, però non era la stessa cosa. Provai anche con altri giochi, cercando per più di un anno qualcosa di abbastanza trascinante, ma niente; il mondo dei videogiochi sembrava quasi complottare nei miei confronti, nel tentativo di farmi rivalutare Destiny. E fu così che, lo scorso settembre, quello stesso mio amico con cui, più di un anno prima, avevo iniziato la mia avventura sul gioco Bungie tornò nel circolo vizioso della droga, acquistando nuovamente Destiny; la pulce nel mio orecchio si trasformò a questo punto in una cicala che friniva incessantemente, dicendomi “compralo, compralo, compralo”. E lo comprai, di nuovo, Destiny, diciotto mesi e tre espansioni dopo.

In un lasso di tempo del genere, tanti sono stati i cambiamenti avvenuti dal mio ultimo passaggio, come del resto avviene per ogni MMO che si rispetti. Il sistema di crescita, ad esempio, ora risulta essere più snello e rapido, tendendo a premiare il giocatore senza farlo cristallizzare per ore nel farming. Così come il sistema di loot, adesso decisamente più generoso. A cambiare è stato anche il PvP, finalmente bilanciato e con nessuna classe, fra le tre disponibili (Titano, Stregone e Cacciatore) a prevalere nettamente sull’altra. La modifica più radicale, tuttavia, è quella che concerne la varietà delle attività disponibili. A fianco dei settimanali Cala la Notte e Raid (a tal proposito, ogni espansione ne ha uno a sé, e che rende obsoleto quello precedente) ora troviamo infatti sempre lo Stendardo di Ferro, che però adesso si ripropone puntualmente ogni mese, le Prove di Osiride, modalità PvP da 3vs3 per giocatori skillati, la playlist assalti a punti Crisi della SIVA Eroica, la Prigione degli Anziani, una modalità orda per tre giocatori, le gare degli Astori (che sarebbero le motorette di Destiny) e via discorrendo. Insomma, di carne al fuoco ce n’è, eccome.

La volta di vetro, il primo e più apprezzato Raid di Destiny

Nel settembre 2014, all’uscita del gioco, il buon Aligi Comandini, mio personale punto di riferimento in questi frangenti (ciao Pregi), scriveva: “Perché Destiny possa realmente costruirsi una solida community di appassionati, ad ogni modo, i contenuti ora presenti non bastano di certo. […] Destiny ci sembra una resistente piazzola su cui costruire una grande città, un gioco che può (e deve) diventare grande, ma che per ora è ancora lontano dall’obiettivo”. A più di due anni di distanza, si può dire che Bungie sia riuscita a raggiungere quell’obiettivo? Quasi. Sia chiaro, i miglioramenti dall’esordio del gioco ci sono stati, come già detto, però non sono abbastanza. Il fulcro dell'esperienza si concentra sempre su quelle stesse meccaniche; sì mutuate e rese in diverse salse, ma che rimangono fondamentalmente sempre quelle: corri da una parte all’altra e spara a qualunque cosa si muova, confidando nella speranza che magari ti venga droppata un’arma o un pezzo d’armatura gialla. Non abbastanza, soprattutto per un titolo con le ambizioni di Destiny.

Le speranze per un netto passo in avanti vanno a questo punto riposte nel probabile sequel, che dovrebbe uscire, stando ai vari rumor che si rincorrono da qualche mese a questa parte, entro la fine del 2017. Bungie ha dimostrato di saper ascoltare i propri utenti, ed è proprio su questo feedback che può costruire il Destiny che lo stesso team di Seattle ha sempre sognato per i rispettivi giocatori, sfruttando la solida base messa a punto in questi anni. A patto che non sia il classico more of the same, ovviamente. Da par mio, nel mentre, continuerò a fruire di Destiny a spizzichi e bocconi, cercando di non farmi risucchiare più tempo di quanto questo gioco meriti. O almeno ci spero.

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