Librodrome #29: Big Jack Is Dead
Attenzione. Ogni due settimane, in questa rubrica si parla di cultura. Niente di strepitoso, o che ci farà mai vincere il Pulitzer, ma è meglio avvertire, perché sappiamo che siete persone impressionabili. E tratteremo anche dei libri. Sì, quelle cose che all’Ikea utilizzano per rendere più accattivanti le Billy. E anche le Expedit.
La provincia americana è un luogo della narrativa a stelle e strisce particolarmente affascinante, col suo portare in grembo tonnellate di storie allo stesso tempo così vicine e così lontane dal nostro sentire comune europeo. Nelle sue piccole casette sporche, disordinate, sparse in mezzo a territori dall'estensione impossibile, si svolgono storie e vite che popolano film, libri, telefilm e chissà che altro. E fra quelle case si svolge anche il racconto di Big Jack Is Dead, primo e – vai a sapere - magari ultimo romanzo firmato Harvey Smith. Esatto, proprio quell'Harvey Smith, il virtuoso game designer responsabile di capolavori come Deus Ex e Dishonored(e di qualche altra roba molto meno riuscita che eviterò di menzionare).
Visto il background dell'autore, qualcuno potrebbe aspettarsi un romanzo di fantascienza, fantasy, o quantomeno con un po' di azione, trovate bizzarre... perlomeno delle scelte morali, che diamine! E invece no, si tratta di un racconto molto personale, oltre che di un racconto che, a essere onesti, trova spazio in questa rubrica solo perché ho deciso di usare il fatto che l'ha scritto Harvey Smith come pretesto. E di che parla, dunque? Parla di un uomo adulto alle prese col suicidio del padre e con il ritorno al passato che questo comporta. Un ritorno effettivo, nel visitare i luoghi dell'infanzia per affrontare parenti, condoglianze, processioni, obblighi. E un ritorno più interiore, sotto forma di flashback che raccontano la gioventù difficile del protagonista.
La storia alterna da un capitolo all'altro i due momenti nella vita di Jack Hickman, raccontando in prima persona il presente e in terza persona il passato. Si viaggia nella mente di un uomo adulto normale, un po' triste, per certi versi anche facile da disprezzare, e assieme a lui si naviga nei ricordi di un bambino e della sua difficile infanzia, alle prese con una famiglia disfunzionale e un padre dai modi quantomeno rivedibili. Creare una sorta di dissonanza fra il protagonista adulto poco “simpatico” e il bambino in difficoltà cui è facile affezionarsi era obiettivo dichiarato di Smith, pur nel contesto di un romanzo che, fondamentalmente, parla di Smith stesso.
Il talentuoso game designer, infatti, come il suo (Little) Jack lavora nell'informatica, è di origini texane e ha vissuto un'infanzia particolarmente problematica. Ha visto sua madre morirgli davanti agli occhi di overdose quando aveva sei anni ed è stato a lungo maltrattato da un padre poi morto suicida. Si è arruolato in aviazione a vent'anni per sfuggire alle proprie origini e ha servito il suo paese per sei anni, fra Germania e Arabia Saudita, partecipando all'Operazione Tempesta nel Deserto. In Origin, dove ha avviato la sua carriera e ha iniziato a diventare uno fra i migliori game designer in attività, c'è poi finito quasi per caso. E dentro di sé porta un bagaglio che ha riversato con passione in questo romanzo, in larghissima parte autobiografico, con un pizzico d'invenzione finalizzato a ridurre quanto di buono la vita gli abbia regalato e puntare sugli aspetti negativi, romanzando senza pietà.
Scritto fra 2005 e 2006, riposto in un cassetto e ripreso in mano mille volte per modifiche e ritocchi, o anche solo per “staccare” dalla lavorazione di Dishonored, Big Jack Is Dead è stato finalmente pubblicato a inizio aprile ed è disponibile tanto in versione cartacea quanto su Kindle (solo, però, in lingua inglese, e non conterei troppo su una traduzione italiana). È un gran bel romanzo, personale, struggente, mai patetico in quel che racconta, profondamente umano nel parlare di esseri viventi, difficoltà nei rapporti, maschere e crescita. Non regala un gran finale, non serve una morale pronta, si limita ad essere quel che è. E merita anche al di là del fatto che, fondamentalmente, l'ho letto e ne scrivo qui solo e unicamente perché due mesi fa il suo autore ne ha segnalato l'esistenza sul proprio blog.