Rage in Peace è bello ma forse non fa per me
Rage in Peace si è manifestato su PC e Switch ai primi di novembre e io, grazie a un codice inviatomi spontaneamente da chi si occupava di promuoverlo, ce l’avevo lì che mi guardava in cagnesco dalla libreria di Steam fin da un paio di settimane prima. L’ho avviato per la prima volta il 30 novembre. Devo vergognarmi? Mah, non saprei: in fondo, non avevo mica chiesto che mi inviassero il codice, è arrivato dal nulla, non sapevo cosa fosse, non mi fidavo, sono un padre di mezza età che fatica a tenere le palpebre alzate, non ho più i riflessi di una volta, non so se ce la posso fare, abbiate pazienza, abbiate pietà.
Fatto sta che il 30 novembre l’ho avviato, ho iniziato a giocarci con ritmi molto placidi e due settimane dopo ho portato a termine l’avventura. A quel punto che fai, non scrivi una recensione? Come se ci fossimo mai fatti dei problemi a pubblicare recensioni con un mese e mezzo di ritardo, figuriamoci! Poi, voglio dire, fa sempre piacere dare spazio a piccole produzioni un po’ fuori dal radar della gente, e Rage in Peace sembra davvero starne fuori, dal radar, considerando lo scarso numero di recensioni che Google mi restituisce da una ricerca veloce. Metti caso che qualcuno mi legga e, nonostante il Vai a sapere che piazzerò in fondo alla recensione, decida di comprarselo, a me fa piacere. Quindi, insomma, procediamo.
Rage in Peace racconta di Timmy, un tizio che è già morto, solo che ancora non lo sa. La Morte gli si presenta in ufficio con tanto di falce e cappuccio e gli spiega che è giunta la sua ora. Timmy fa presente che preferirebbe morire a casa, tutto solo, placidamente avvolto dal suo pigiama, senza sbattimenti, e la Morte gli offre una possibilità di soddisfare questo suo desiderio: se riesce ad arrivare a casa entro il termine della giornata, pigiama sarà. Il problema è che il mondo sembra non essere particolarmente d’accordo e il percorso fino all’agognato pigiamone è costellato di pericoli. Timmy deve morire e tutto, ma veramente tutto attorno a lui cerca di farlo fuori.
In termini di meccaniche, questo si traduce in un gioco di piattaforme di quelli fetenti, in cui qualsiasi pericolo ammazza Timmy sul colpo, il movimento è costante, gli assalti concedono pochi attimi di tregua e il trial & error è la principale regola di vita. Sul serio, non è un’esagerazione: qua e là ci sono ostacoli che “avvisano” del loro arrivo ma, nella maggior parte dei casi, ci vuole un intuito sovrumano per giocare alla cieca. Rage in Peace è, insomma, larghissimamente incentrato sulla memorizzazione: richiede di provare, andare un po’ a caso e un po’ a culo, ricordarsi cosa ci ha stempiati ad ogni morte e ripetere a memoria. Si tratta di una formula che personalmente non amo molto: non ho problemi col gioco infame e mi va benissimo che certi passaggi possano richiedere un minimo di memorizzazione ma il mio gameplay tosto lo voglio che lasci spazio all’improvvisazione e ai tempi di reazione.
D’altro canto, c’è un limite a quanto si può criticare un gioco per quella che è una sua scelta d’impostazione chiara, pulita, inseguita e portata a compimento con successo. Le critiche all’esecuzione ci stanno, sempre, quelle all’intenzione, forse, molto meno, perché diventano più un dire “volevo altro”, che, insomma, lascia un po’ il tempo che trova. D’altro canto, la corrente di pensiero che ritiene il trial & error “sbagliato” e lo critica a prescindere non la invento certo io oggi, quindi mi sembra giusto sottolineare questa impostazione e il suo rendere l’appeal di Rage in Peace comunque limitato a un certo tipo di videogiocatore. Detto questo, è evidente che lo sa bene anche il team di sviluppo, al punto che, appena quattro giorni dopo l’uscita, hanno illustrato con un post su Steam l’utilizzo del Goldfish Mode, attivabile e disattivabile a piacere: inserisce pratici checkpoint e permette quindi di completare i livelli senza doverli costantemente ricominciare da capo. Inutile dire che l’ho attivato abbastanza in fretta. Importante dire che ho fatto bene, perché mi ha permesso di completare il gioco e apprezzarne i diversi lati positivi schivando il rischio di una crisi isterica. Necessario aggiungere, per onestà intellettuale, che all’atto pratico non so se avrei trovato eccessivo giocarci in modalità normale. Non lo so e non lo voglio sapere. Sono troppo vecchio per queste stronzate.
Comunque, piaccia o meno la sua impostazione, Rage in Peace è sicuramente un gioco curato, con una buona risposta ai comandi, che non ti lascia mai a piedi per imprecisioni del sistema di controllo; pare il minimo ma diventa fondamentale, quando è tutto così tematicamente e letteralmente incentrato sul massacrare il giocatore, a livelli che fanno venire in mente i cari vecchi coin-op di una volta. Al di là del Goldfish Mode, comunque, ci sono due prevedibili modalità extra, una dedicata ai pazzi (gli speedrunner) e una dedicata ai pazzi furiosi (richiede di completare il gioco senza mai morire). E c’è una certa quantità di collezionabili, a disposizione di tutta un’altra categoria di pazzi. Il gioco è avvolto in una realizzazione audiovisiva deliziosa, con momenti che colpiscono davvero per forza evocativa, e il racconto alle spalle dell’azione, sulla distanza, svela un sottofondo molto più amaro e ricco di quanto la premessa tutto sommato buffa e lo stile cartoonesco possano far supporre. Si parla di depressione, lutto, approccio alla vita e alla morte e lo si fa senza approfondire troppo con morali forzate ma dicendo cose interessanti su temi non banali. Questo, fra l’altro, rischia di far odiare Rage in Peace a tutti quelli che vorrebbero gustarsene la storia ma non ce la possono fare col suo gameplay. Ma che ci dobbiamo fare? Adesso non è che bisogna per forza raccontare cose attraverso giochi dedicati a chi non è capace. Oltretutto, in questo caso, la storia si intreccia bene con l’impostazione di gioco figlia di una gran zoccola, quindi, insomma, va bene così.